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Julian. Il cuculo in cerca di un nido

III.4 Geografie della vita quotidiana

III.4.2 Julian. Il cuculo in cerca di un nido

Julian vive sulla soglia, sul confine tra mondi diversi, abita in un quartiere popolare ma si proietta nel suo spazio immaginario in un ambiente diverso, in una periferia in trasformazione. Conosce gli spazi della notte e quelli del giorno, i luoghi da evitare e i tempi adatti per attraversarli. Ha in testa una mappa minuziosa di circuiti legati ai suoi interessi che scandiscono il ritmo delle sue giornate.

Julian ha diciannove anni ed è partito da Tirana nel 2002 con la madre per raggiungere il padre a Torino. Da due anni Julian e la madre aspettavano e si preparavano a trasferirsi in Italia. Ma per trovare un alloggio adatto, per regolarizzare e stabilizzare la propria presenza, per riuscire a guadagnare abbastanza da garantire un minimo di condizioni di vita alla famiglia il padre di Julian ha impiegato più tempo di quanto immaginasse. Per Julian il sogno dell’Italia è durato tre anni, un tempo passato a studiare, ad immaginare, a guardare la televisione italiana, a raccontare ai suoi compagni di scuola il suo imminente trasferimento a Torino, a cercare di capire come sarebbe stato il suo futuro.

Quando è arrivato a Torino, sapeva già abbastanza l’italiano da continuare gli studi senza problemi ed il passaggio dalle scuole medie

alle superiori non è stato traumatico. Ricorda i primi tempi qualche commento dei compagni, allusioni alle sue origini, ma alla fine ha prevalso la simpatia e la capacità di suscitare fiducia. “Ogni tanto se ne escono fuori con la battutina, però non mi hanno mai trattato male. A volte esagerano e io glielo dico. Per esempio quando mi presento e dico che sono albanese e i miei amici dicono: ‘non è vero, è solo nato là ma è italiano’. Io però mi presento come albanese perché alla fine sono albanese. Non mi sento né albanese né italiano e mi sento sia albanese che italiano. Tutte e due, perché sono cresciuto in mezzo agli italiani però ho ricevuto la mentalità albanese dai miei genitori… All’inizio dell’anno, quando ho detto che ero albanese, c’erano dei ragazzi nuovi nella mia squadra che hanno detto: ‘Albanese? Che schifo!’. Questi tre hanno fatto gruppetto ma poi il giorno dopo sono venuti a salutarmi e a chiedermi come stavo. Non so perché ma la fama degli albanesi è di gente del cavolo, schifosa… Poi però conoscendomi dicono: ‘tu sei un albanese bravo, sei l’unico così che conosco…’, il giorno dopo arrivano e dicono: ‘ne ho conosciuto un altro bravo’ e io dico: ‘ne conosci due e sono bravi, se li conoscessi tutti vedresti che sono tutti bravi’. È brutto, perché solo se sei albanese ti considerano ‘monnezza’, come dicono i napoletani. Però non ne ho mai sofferto”.

Julian ha un carattere forte, ha accettato la sfida del cambiamento e vive la sua condizione come una sfida, un’avventura da vivere mordacemente. Si è ambientato velocemente, la scuola, il suo quartiere, i luoghi che gli interessano e ora anche il suo primo lavoro. Da tre mesi ha iniziato a lavorare in un Mc Donald’s, è il primo lavoro che ha trovato appena finito l’istituto tecnico. Il suo sogno è quello di lavorare in un ufficio di progettazione automobilistica, in una grande fabbrica o in un centro style. Ha provato a mandare il suo curriculum, a candidarsi per degli stage, ma sono in molti a Torino i ragazzi ad avere i suoi stessi sogni. Sapeva dell’apertura del nuovo centro commerciale di via Livorno e si è informato per capire se ci fosse possibilità di lavoro. È un lavoro a tempo determinato e part time, non offre garanzie né fa immaginare possibilità di carriera, ma è un lavoro ed è meglio che stare a casa.

Immaginario urbano

Julian ci ha condotti sotto il cavalcavia della stazione Dora, un luogo inconsueto e insieme carico di suggestioni. Dice che quel paesaggio gli ricorda l’ambientazione di alcuni film americani, dove il protagonista è

bello e dannato e la città è per lui protezione e minaccia. Ama questo pezzo della città, è attratto dal movimento, dal disordine, dall’ambiguità di questo paesaggio segnato dai cantieri: i cavalcavia della stazione Dora che vengono abbattuti, la torre di cemento di raffreddamento della Michelin che si staglia sola in mezzo allo sterro e al fango, logo del nuovo centro commerciale a segnalare il legame tra passato e futuro, i graffiti che si affiancano e sovrappongono ai colori forti delle nuove case.

È la suggestione della scena di un film quella che Julian ha voluto ricreare intorno a sé. “Ho visto un film con Jack Nicholson che mi piace tantissimo, adesso non so bene com’è il titolo, te lo dico in inglese One flew over the Cuckoo’s nest. Ho visto che era un bel film e allora mi sono letto il libro. In Albania non leggevo così tanto. Perché uscivo sempre, stavo sempre fuori. Mentre qui non ho sempre la possibilità di uscire.

Là si poteva uscire anche solo per parlare, qua quando esci devi andare a mangiare la pizza e devi spendere e io non ho sempre i soldi”. Quel cuculo che è anche sinonimo di pazzia, lo ha colpito. Il cuculo non fa il nido: depone le uova nel nido degli altri uccelli che le covano. Un giovane cuculo non è mai, quindi, nel suo vero nido, e non sono i suoi genitori quelli che lo nutrono: lui è un ospite in un nido occasionale.

Julian sta crescendo e sta cambiando, come tutti gli adolescenti è attento alla sua immagine, ai vestiti che indossa, ai dettagli, al taglio dei capelli. Quel luogo da lui preferito è stato scelto come si sceglie un vestito, un mix fatto di trasandatezza e dettagli scelti con cura, di durezza e di omologazione; le scritte sulle sue magliette non sono tanto diverse dai graffiti sui muri delle fabbriche abbandonate o dalle insegne dei centri commerciali, nulla è lasciato al caso. Per andare da casa a lavoro e da lavoro a casa, attraversa tutti i giorni almeno due volte Corso Giulio Cesare, la stazione Dora, sotto i cavalcavia, i cantieri del grande parco lungo il fiume, il centro commerciale. Camminare gli piace, si guarda attorno, un brivido di paura in più la sera. “Facevo kick boxing.

Non è perché sono violento, soltanto che mi piace. Quando ero piccolo giocavo a calcio a basket, adesso mi piacerebbe continuare con kick boxing. Ho imparato a difendermi e mi diverto molto”. La palestra è vicino a casa, a Barriera di Milano, in un capannone nel cortile di un palazzo, un paio di volte a settimana tornando da lavoro ci passa per allenarsi.

Prima di arrivare a Torino Julian immaginava una città molto diversa da quella che si apprestava a lasciare, la Tirana dei casermoni realizzati dal comunismo in nome del diritto alla casa, grigia e ripetitiva nelle sue molte periferie. Si era fatto l’idea che Torino fosse un po’ come le città degli Stati Uniti, o della Francia e dell’Inghilterra, un immaginario fatto di atmosfere, di bande giovanili, di territori contesi, di periferie, che si è andato costruendo, attraverso il cinema e la musica rap. Invece qui è tutto così diverso da quelle immagini. “Torino non è il Bronx, non c’è motivo di essere arrabbiati con il mondo. È dura, ma non sento odio.

Sono abbastanza ottimista sul mio futuro”. Il giovane cuculo si sta, forse, abituando al suo nuovo nido.

Barriera di Milano, frontiera tra due mondi

Julian abita alla Barriera di Milano, cuore della periferia operaia di Torino. “I miei genitori hanno trovato casa qui, vicino a corso Palermo, è una zona tranquilla anche se è degradata. È periferia, le case costano meno”. “Casa mia non saprei se è bella o brutta, è una casa. È meglio di quella di prima, ho una camera per me con le mie cose, lo stereo, il computer, c’è tutto. Per il momento va bene così e poi non posso prendermi una casa mia, ho appena iniziato a lavorare e guadagno troppo poco, sarà dura da trovare una casa in affitto”.

Quando si oltrepassa il fascio di binari della stazione Dora ci si accorge che il paesaggio cambia: da una parte il futuro, il cambiamento, luci e colori, dall’altra, un pezzo di periferia come le altre. “È un po’ triste, non c’è molto di bello, anzi forse nulla”. Gli isolati sono densi e compositi un affastellarsi di palazzi costruiti velocemente, un arcipelago di quartieri popolari realizzati fra gli anni Trenta e gli anni Settanta, un tessuto connettivo di case private costruite negli anni Sessanta, per alloggiare i nuovi arrivati, prive di qualità, ma che offrivano e offrono ancora alloggio e servizi adeguati. Tagli piccoli e medi, due e tre locali.

Dentro gli isolati piccoli capannoni, attività artigianali e magazzini, tanti negozi che servivano un quartiere popoloso e che oggi fanno fatica a reggere la concorrenza dei centri commerciali.

Fino agli anni Settanta, Barriera di Milano è cresciuta intorno alle fabbriche (Ceat, Fiat Grandi Motori e Acciaierie). Le barriere sono nate oltre la cinta daziaria ottocentesca prima che la città operaia si identificasse con i grandi quartieri pubblici, con l’immigrazione dal meridione. Case su case per operai e un piccolo ceto impiegatizio. La

qualità delle architetture, ma soprattutto dello spazio pubblico era un lusso che non ci si poteva permettere, era il boom e bisognava costruire.

La barriera diventa velocemente la roccaforte della classe operaia, la città è circondata da fabbriche e quartieri popolari, dai nuovi migranti chiamati a costruire il miracolo economico. È un altro paesaggio, diverso dai casermoni di Mirafiori o corso Taranto, dal susseguirsi di case tutte uguali delle periferie operaie dell’est europeo. È fatto di case e di fabbriche, di pochi spazi pubblici, di negozi, di parrocchie. Il paesaggio dimesso, privo di qualità, ma ricco di relazioni, non bello ma vivo, della Barriera è per Julian l’opposto della Dora. Da una parte lavora e dall’altra abita: la ferrovia sta in mezzo a dividere i due mondi.

La Barriera è anche soprattutto una zona che offre disponibilità di spazi, opportunità di trovare alloggi a condizioni sostenibili. Negli ultimi anni qui sono venuti a vivere nuovi migranti. In parte alla ricerca di una prima sistemazione, in parte alla ricerca di una casa più stabile, una casa adatta alla vita famigliare, più grande ed accogliente rispetto agli appartamenti di Porta Palazzo o di San Salvario, una casa da affittare, ma anche da acquistare con mutui lunghi e anticipi ridotti. La chiusura delle grandi fabbriche, la riduzione del numero degli operai, hanno lasciato vuoti non solo spazi urbani, ma anche spazi abitativi e commerciali. I nuovi migranti hanno trovato casa là dove abitavano pochi anni prima i vecchi migranti del boom economico e delle grandi fabbriche, che sono andati ad abitare in case più belle e più grandi, nelle vicinanze o fuori Torino.

L’identità popolare di Barriera di Milano è stata ribadita nel tempo e scandita dalle diverse migrazioni interne. Pugliesi, calabresi e siciliani hanno dato un accento diverso al quartiere, hanno aperto trattorie e bar, si sono innestati, come una pianta nuova su un tronco già lungamente adattato all’ambiente, e così è avvenuto per i nuovi abitanti stranieri. È una forma di variazione sul tema che ha permesso alle nuove popolazioni di rafforzare, nel tempo, con nuove declinazioni, la natura popolare e operaia del quartiere. I nuovi abitanti, diversamente da altri quartieri, sembrano essere visti con occhi meno scettici. Anche perché c’è meno da difendere: non un generico “decoro”, né una presunta identità, già largamente messa in crisi dalla scomparsa della grande fabbrica.

Nonostante mille contraddizioni, nonostante questi equilibri siano destinati a rompersi e a ricomporsi in nuove forme, sembra qui prevalere una forma non scritta di coabitazione, la condivisione di un

“essere popolare”. In altre parti di Torino l’arrivo di nuove popolazioni dal sud e dall’est del mondo si è tradotto più frequentemente in forme più o meno palesi di conflitto: qui la dimensione più rilevante è la capacità, tutta da verificare, soprattutto nella sua tenuta nel tempo, di un adattamento del quartiere ai nuovi arrivati, un avvicendamento di residenti senza strappi o con frizioni meno forti che altrove.

I luoghi della notte: le luci di via Stradella

Sabato sera via Stradella si anima, i suoi capannoni, una volta magazzini, officine, sono oggi discoteche e locali serali. I fari delle macchine, i gruppi di ragazzi che a frotte si dirigono verso i locali, le voci più alte del solito silenzio serale di questa strada periferica, il parcheggio e poi la fila davanti agli ingressi, l’incontrarsi con gli amici, una sigaretta prima di entrare, i cellulari che suonano, “sto arrivando, sto superando la stazione adesso”. Ancora quella ferrovia che separa i due mondi in cui Julian vive. La città della notte sta a cavallo della ferrovia: di qua i Docks Dora, locali e discoteche di tendenza ricavati all’interno dei vecchi magazzini della ferrovia, dall’altra via Stradella meno ricercata e anonima strada periferica in cui si accendono luci intense, luoghi conosciuti e frequentati dai ragazzi stranieri. Julian non viene qui tutte le settimane ma ogni tanto, quando ha voglia di divertirsi e incontrare qualche amico. “Il Notorius è una discoteca rumena, la pubblicità dice 100% atmosfera rumena, ci sono concerti, musica, rumore e un sacco di gente, se vuoi divertirti e sei rumeno è il tuo posto! Io invece preferisco andare con amici sud americani al Sabor Latino”. La via è uno strano mix di rumeni e di sud americani, giovani e giovanissimi, ragazzi e ragazze, qualche maghrebino, qualche italiano.

Ognuno si organizza sulla sua fila ed entra in una porta diversa. In via Stradella 10/d la discoteca rumena Notorius, al numero 10 la discoteca sud americana Sabor Latino. Poi altre discoteche, dove il sabato pomeriggio i ragazzi più giovani si esibiscono in gare di break dance.

Pochi metri di distanza definiscono diversi mondi, culture, modi di ballare e di divertirsi, ambienti, colori, sapori, ritmi. Il Sabor Latino è forse lo spazio che meglio si presta all’incontro fra ragazzi di diversa provenienza, la musica e l’atmosfera latina attirano. Ma è meglio non rimanere fino alla chiusura “io vado via prima, al massimo verso l’una”,

poi l’ambiente diventa pericoloso, la gente si ubriaca e spesso si creano scontri e risse.

La città delle soglie e dei confini

Quando Julian è libero dal lavoro può dedicarsi alla sua più grande passione, i manga, i fumetti giapponesi. Prende il tram e va in centro: è disposto a girare ore e ore, da una libreria all’altra, per trovare un nuovo numero o anche solo per leggere una vecchia storia, di quelle che conosce già a memoria. “Nelle grandi librerie riesco a leggerne qualcuno intero, senza che mi dicano nulla”. In centro ci sono diversi negozi di fumetti, alcune vecchie librerie hanno un reparto specializzato, a San Salvario e vicino alla Stazione di Porta Nuova, è l’occasione così per girare la città, in cerca di “pezzi rari”.

Prima di sera Julian torna verso casa. A quell’ora il tram è pieno di ragazzi che tornano dal centro verso i loro quartieri. Julian guarda fuori dal finestrino, le case del centro, la gente che passeggia, poi man mano il paesaggio cambia, osserva le scene dello spaccio, i luoghi della malavita. In tram il confine si attraversa velocemente, se non sei attento non te ne accorgi, ma se guardi, se sai cogliere i dettagli, capisci bene dove finisce il centro, con le sue vetrine e le vie dello struscio, i locali, le librerie e dove inizia Porta Palazzo, con il suo mercato, i bazar e gli spacciatori. Si tratta di pochi metri: da una parte via Milano e piazza Filiberto, le case curate, con i fiori ai balconi, i citofoni in ottone, i locali per gli aperitivi, le tende di lino alle finestre, dall’altra corso Regina Margherita con i negozi cinesi, la piazza del mercato con i suoi rumori e odori, corso Giulio Cesare con i bazar, le tende di plastica che coprono ringhiere ingombre di stenditoi e panni stesi, parabole, giochi di bambini. È un confine che è cambiato nel tempo: il “quadrilatero latino”, il quartiere più antico di Torino, il suo cuore, era parte fino a pochi anni fa di Porta Palazzo. I due quartieri al di qua e al di là della Porta Palatina non erano così diversi, almeno nel loro paesaggio sociale. Erano un unico quartiere, popolare, composito, affacciato attorno al mercato. Ma la parte dentro le mura romane ha subito negli ultimi venti anni un forte e spontaneo processo di riqualificazione, gli edifici sono stati ristrutturati, non ci sono più sacche di marginalità e di degrado, nuove figure sociali, nuovi ceti si sono sostituiti a quelli popolari che lo abitavano, le strade e le piazze sono state rifatte, pedonalizzate, ai rigattieri si sono sostituiti gli antiquari, ai negozi di biancheria le

boutique e alle latterie i negozi di fumetti. Il confine, netto, che Julian vede dal tram è in realtà un confine in movimento, una frontiera che si è spostata ed è forse destinata a spostarsi ancora.