II.3 Sinottica dei valori di una sensibilità in divenire
III.1.3 Viaggi nella memoria
L’esperienza urbana coinvolge anche una dimensione interiore, simbolica delle persone, mette in moto emozioni e pensieri, può corrispondere al racconto di una esperienza umana profonda, richiamare ricordi e immagini. È quell’insieme di emozioni che si risvegliano, ad esempio, quando torniamo dopo tempo nella città natale, o dove abbiamo trascorso l’infanzia. O quando raccontiamo di una città che ci ha accolti per un tempo della nostra vita. Giancarlo De Carlo così descrive, ad esempio, la città di Urbino. “Ogni volta che torno a Urbino non posso fare a meno di andare a rivedere, come primo atto, i Torricini di Palazzo Ducale; e il mio amore per questa città si rinnova. Si rinnova in forma di compiacimento perché la trovo smagliante, proprio come immaginavo
che fosse quando non la vedevo; in forma di piacere di guardarla, in forma di emozione per come continuerò a pensarla (…)” - e continua –
“soffro delle fatiche di questa città che spesso sono tante; soffro delle fatiche che le derivano dalla rozzezza di chi la visita senza motivo, di chi ne parla senza conoscere le sue storie, di chi costruisce sul suo territorio senza sapere perché lo fa e cosa ne potrà venire. Soffro dei rumori che la disturbano; soffro degli odori che non sono il suo, soffro delle automobili che ingiustamente la invadono corrompendo il miracolo del suo spazio” (De Carlo, 1995, p. 209).
Le parole di Giancarlo De Carlo ci aiutano a entrare in una quarta dimensione rilevante. L’esperienza urbana, la conoscenza di una città, può assumere infine le forme dell’amore (“e il mio amore per questa città si rinnova”), dell’impegno civile, dell’attenzione vigile affinché gli spazi in cui viviamo corrispondano sempre più e sempre meglio alle aspettative degli abitanti, alla loro sete di relazioni. Naturalmente, il riferimento alla città d’origine, non ha affatto natura estetica o romantica ma rinvia a legami personali oppure a situazioni problematiche lasciate nel paese d’origine, povertà, precarietà, disagio, talvolta conflitti e guerre.
Così episodi di cronaca, racconti dei giornali, eventi di particolare forza drammatica sono l’occasione per riallacciare i fili emotivi con il paese d’origine. “Mi sforzo sempre, quando leggo quelle terribili notizie sui giornali, di non guardare le cose con occhio distante. Eppure in questi giorni mi rendo conto di quanto ne rimango estranea. Cerco sempre di pensare che lì, lontano mille miglia dalla mia confortevole stanza, c’è gente che veramente sta soffrendo, che ha paura delle bombe, o che è spazzata via dal vento, dal fango, dall’acqua. Leggo e mi ripeto che quello che leggo non sono parole, ma fatti veri. Il tifone questa volta si è proprio abbattuto su tutti i miei ricordi. Sui luoghi reali dove ho giocato da piccola e dove in seguito ci incontravamo con i cugini a bere San Miguel o Ginebra. E proprio lì, in quella stessa piazza, hanno ammassato i cadaveri ritrovati. Per quanto ci possiamo sentire ‘italiani-e-basta’, credo che noi seconde generazioni avremo sempre un pezzo di cuore che batte da un’altra parte”22.
Questa dimensione affettiva che ci lega agli spazi della nostra vita sopravvive nella distanza, nella separazione, occupa i pensieri e la
22 Testimonianza tratta dal sito www.secondegenerazioni.it.
memoria, talvolta come l’ingombro di un arto invisibile. “Quando ci trasferimmo a New York, Bombay mi mancava come un organo del mio corpo. (…) Esistevo a New York, ma vivevo in India, prendendo piccoli treni della memoria. I campi al tramonto. Gli uccelli che ti volano sopra la testa tornando al nido” (Metha, 2006, p. 11). Talvolta il “mal di città”
ha le forme della nostalgia della casa e della città abbandonate, un’esperienza che ritorna nella forma dolorosa del ricordo o della sorpresa per un mondo ormai irriconoscibile.
Il raffronto con la condizione di vita del luogo dal quale si è emigrati ritorna costantemente nella narrazione dei ragazzi partiti in età già consapevole, magari dopo avere terminato il primo ciclo scolastico. La casa lasciata al paese, nella quale si è trascorsa parte dell’infanzia, o dove si trascorrono brevi periodi di vacanza, o che si è lasciata, ormai grandi, per ricongiungersi con i genitori già emigrati da tempo, è nel ricordo e nei racconti una casa grande, piena di stanze, di spazi ampi entro i quali giocare, trascorrere il tempo. Spesso la casa lasciata al paese presentava caratteristiche di maggior ampiezza e numero di camere, ma soprattutto appare grande nel ricordo, è la casa dove si è vissuti bambini e dove lo spazio non manca mai. Danith, originaria del Perù, è partita bambina dal suo paese e tornarvi dopo tanti anni suscita in lei emozione e la percezione del tempo trascorso. “Sei mai tornata in Perù? L’anno scorso per la prima volta. È stato strano: appena sono arrivata, sono entrata in casa e mi sembrava tutto più piccolo, tutto rimpicciolito… e invece ero io che ero diventata più grande. Era come tornare un po’ nel passato… come mettere stop e rewind nel registratore.
Gli amici più stretti li ho visti… alcuni di aspetto erano molto cambiati”
(ragazza peruviana di 17 anni, nata a Trujillo, in Italia dal 2000).
Altre volte il racconto è più asettico, richiama differenze sociali e culturali. Come nel racconto di Hanan del Marocco: “Ma Khouribga com’è, potresti descriverla? È un po’ la città tranquilla, il centro è abbastanza normale. Le periferie sono più brutte, più povere. Io non sono mai stata nelle periferie, io abitavo in centro. È una città che ha iniziato a crescere negli anni Sessanta, c’è una parte che si chiama village che era abitata dai francesi con case in stile europeo, con villette piccole collegate con la città, i palazzi... Non è vecchia come città, però dovrebbe essere molto più bella visto che è una risorsa economica per il Marocco. È abbastanza messa male. Voi in Marocco, avevate una casa tutta vostra o un palazzo? Tutta nostra a tre piani, mentre adesso abbiamo una camera
con cucina, che rispetto a quella in Marocco è davvero piccola!” (ragazza marocchina di 20 anni, nata a Khouribga, Marocco, in Italia dal 1999).
Arrivare in una nuova città implica dunque anche avere lasciato la propria, averne le immagini e i rumori impressi nella mente, il ricordo nel cuore, esperienze spesso difficili da esprimere, da raccontare a chi ne è estraneo. La città natale ha tratti soggettivi, ha raccolto l’esperienza della nascita e della crescita, è costellata di riferimenti personali e di spazi affettivi ancor prima che concreti. Si sperimenta l’abbandono di una città in cui tutto è famigliare per insediarsi in una città “impersonale”, priva di significati che gradualmente devono essere costruiti e co-costruiti coi nuovi concittadini. È questa l’esperienza dell’esule che deve attribuire senso ad un luogo che non lo ha e non appartiene alla sua memoria. “L’esule è il caso esemplare di un abitante di tale città, in quanto deve confrontarsi con altre persone, che non potranno mai capire come andavano le cose nel luogo abbandonato.
L’esule deve trovare un terreno per una vita comune con gente diversa che non capisce, che non può capire. In mancanza di una storia condivisa, si deve costruire una vita sulla base di termini più impersonali” (Sennett, 1992, p. 151). Eppure per fare proprio un luogo anonimo non si può prescindere dal costruire reti di relazioni personali che lo rendano, gradualmente, famigliare. I ragazzi di seconda generazione, in genere sgravati dalla preoccupazione di trovare un alloggio, uno spazio privato che è stato conquistato faticosamente dai loro genitori, ricercano invece uno spazio pubblico, un ambito di vita comune in cui intrecciare nuove relazioni. I ragazzi di origine immigrata cercano spesso un “centro”, un fulcro attorno a cui costruire la propria identità complessa e uscire così dalle varie “periferie“ della loro esistenza.