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Eventi che sovvertono il tempo

II.3 Sinottica dei valori di una sensibilità in divenire

III.2.1 Eventi che sovvertono il tempo

“La vita di ogni persona è dominata da un evento centrale che configura e distorce tutto ciò che viene dopo e, in una visione retrospettiva, tutto ciò che era avvenuto prima. Per me fu l’andare a vivere negli Stati Uniti, a quattordici anni. Un’età difficile per cambiare paese. Non hai ancora finito di crescere nel posto in cui sei e nel posto in cui vai non ti senti mai a tuo agio. Io non sapevo nulla degli Stati Uniti, non ci ero mai stato. (…) Nel giro di ventiquattr’ore io passai dalla fanciullezza all’età adulta, dall’innocenza alla conoscenza, dalla predestinazione al caos.

Tutto ciò che mi è capitato da allora, ogni atto, minuscolo o enorme – il modo in cui adopero la forchetta o faccio l’amore, la scelta di una professione e di una moglie - è dipeso da quell’evento centrale, quel fulcro del tempo” (Metha, 2006, p. 8).

Metha racconta l’evento centrale della sua esistenza, l’esperienza della migrazione, il passaggio da una condizione di vita ad un’altra, completamente diversa. Anche i ragazzi di seconda generazione raccontano, con sfumature e accezioni diverse, l’evento che ha sovvertito il loro tempo: per qualcuno è il trasferimento in un nuovo paese, la costituzione di un nuovo assetto famigliare a seguito della

migrazione, per qualcun altro, nato qui, è la presa di coscienza di essere originari di un altro luogo, a cui rimandano i propri tratti somatici e alcune radici culturali. Le classi generazionali proposte da Ruben Rumbaut (Rumbaut, 1994; cfr. cap. I) possono aiutare a comprendere la varietà delle esperienze.

C’è una componente della seconda generazione (in primo luogo i giovani che possono essere ricondotti alle classi generazionali 1,5 e 1,25, ma più in generale tutti coloro che non sono nati in Italia e che sono in grado di ricordarsi della propria emigrazione) che ha conosciuto un

“prima” e un “dopo”, ha vissuto il distacco dal proprio ambiente di vita, ha affrontato il viaggio, ha registrato nella memoria l’impatto del cambiamento, dello stravolgimento dell’esistenza precedente. Lo sradicamento, l’essere “gettati” nel breve tempo del viaggio in una realtà nuova, nella quale si ipotizza di restare almeno per alcuni anni, è una esperienza che segna fortemente il migrante ed in particolare segna l’adolescente, che vive già dentro di sé l’ambiguità di questa fase della crescita. Ingrid, arrivata a Torino da Tirana, ricorda la delusione di un mondo che si immaginava speciale, fuori dal mondo: “Io mi ricordo la prima volta che sono arrivata qua, mi immaginavo di trovare palazzi fantascientifici, cose dell’altro mondo, invece poi mi sono accorta che è una città normale. Certo si sente molto la differenza tra Tirana e qua. Mi ricordo la prima volta che sono entrata in un supermercato di qua è stata un’esperienza, mi sono trovata tra queste confezioni tutte colorate, sembrava di essere in mezzo ad una quantità di beni illimitata. Il primo impatto è stato questo. Poi ho dovuto iniziare a rapportarmi con gli altri, con la scuola e lì all’inizio ho avuto qualche difficoltà” (ragazza albanese di 19 anni, nata a Tirana, in Italia dal 1991).

Molti ragazzi descrivono le sensazioni di disagio e spaesamento, quando non proprio di dolore e sconcerto, provate durante il viaggio.

Sono tratti scolpiti nella memoria: il giorno, l’ora, le sensazioni, le luci, i colori, il clima così come le immagini della città sconosciuta, di una scuola e di una classe nuove, di una casa o di un “campo profughi”.

Immagini indelebili, che vengono richiamate alla memoria attraverso dettagli banali. “Mi ricordo ancora questo pullman quando siamo arrivati di sera che era super-luminoso, ero accecata dalla luce che c’era dentro. Poi faceva freddo perché era dicembre… anche gli spazi della città sono molto diversi” (ragazza marocchina di 20 anni, nata a Khouribga, in Italia dal 2000). “Quando sono arrivata, la prima cosa che

mi ha colpito è che io ho detto: ‘papi, che ore sono?’ e lui mi ha risposto che erano le sette di sera, ma c’era ancora un sole cocente.

Sono rimasta male perché in Perú diventa buio sempre alle 18:00, è impossibile che sia ancora giorno alle 19:00. Alle 21:00 era ancora chiaro… questo io e mia sorella ce lo ricordiamo sempre: il sole alle sette di sera” (ragazza peruviana di 17 anni, nata a Trujillo, in Italia dal 2000).

Pamela, originaria del Perù, mentre ci racconta il suo arrivo a Torino sembra descrivere le sequenze di un film, l’arrivo coincide subito con l’impatto con la scuola, i compagni, una lingua diversa. È sopraffatta dalla disperazione, dal desiderio struggente di riportare indietro l’orologio della sua vita. “Sono arrivata qui, quando avevo sette anni.

Ora ne ho quindici. Mio padre è venuto a prendermi in Perù. Sono arrivata con mia nonna. Ricordo che era un sabato… me lo ricordo ancora… la domenica sono stata a casa e il lunedì subito a scuola…

non puoi capire… nuova scuola, nuovi ragazzi, nuove maestre… senza sapere nulla della lingua… senza sapere niente… e stare otto ore a scuola… dalle 8:00 alle 16:30! Era la seconda elementare. Mi sono ritrovata all’improvviso in una vita diversa… perché non vedevo più i miei amici, c’era gente diversa che non parlava la mia lingua… non riuscivo a farmi capire, neanche per andare in bagno. Il problema è che mia mamma era lì con me, a scuola… poi è arrivata l’ora di pranzo e sono andata a mangiare con tutti gli altri… ero terrorizzata dalla maestra perché urlava in continuazione e io pensavo che ce l’avesse solo con me, perché comunque a primo impatto tu non capisci cosa dice… e quindi credevo che ce l’avesse solo con me! Piangevo come una disperata, non puoi capire quanto… mia mamma è andata a mangiare un panino… e io ero lì che piangevo… arrivata a casa… non volevo più tornare a scuola… mi è preso il panico. Non appena vedevo l’angolo della scuola mi cominciavano a scendere le lacrime, mi prendevano i brividi e tremavo. Non volevo andare a scuola. Piangevo a scuola, non so per cosa ma piangevo. Non mi abituavo… ma i bambini della mia età sono stati molto carini e gentili… anche se non li capivo, si sentiva a pelle cosa volevano dirti… lo sentivo che mi volevano bene”

(ragazza peruviana di 15 anni, nata a Trujillo, in Italia dal 1998).

Talvolta il ricordo del viaggio non è solo ricordo di una partenza e di un arrivo nell’ignoto, ma è anche il racconto di un’esperienza lunga di privazione di un luogo, della dignità, della propria umanità, come per

quei ragazzi che passano attraverso l’extraterritorialità dei campi profughi. Altea ricorda bene ogni dettaglio, “la prima cosa che mi ricordo è quando ci hanno messi in un campo profughi; io avevo due anni e mezzo, è il primo ricordo della mia vita ed è traumatizzante.

Siamo arrivati in un capannone enorme, eravamo tantissimi e ci distribuivano delle saponette. Questo è il primo ricordo. Poi siamo stati tre anni in roulotte a Nichelino ed era proprio brutto. Cioè io mi divertivo: ero piccola, mi divertivo, stavo tutto il giorno nella bacinella con la pompa dell’acqua tipo zingarella; per me era divertente, ma adesso che sono grande e mi ricordo mi dico: ‘Mai più una cosa del genere, tre anni lì con la bacinella, la pompa dell’acqua, d’inverno senza riscaldamento, con novanta coperte; il bagno non c’era, era fuori, distante’” (ragazza albanese di 19 anni, nata a Tirana, in Italia dal 1990).

La seconda generazione “propriamente detta”, ovvero i ragazzi nati in Italia da genitori immigrati, conosce invece l’Italia come unico luogo in cui vivere e l’italiano, spesso, come lingua propria (talvolta l’unica che si padroneggi compiutamente). Questi ragazzi non provano quel sentimento di nostalgia per il passato, per una condizione perduta, per un paese abbandonato, ma conoscono solo il presente della loro condizione. Eppure, spesso, anche loro parlano di un “prima” e di un

“dopo” che non è il “prima” del paese d’origine o il “dopo” del paese ospitante, ma il passaggio dall’omologazione al gruppo dei coetanei ad una condizione di estraneità, in cui l’adolescente diviene spesso, agli occhi degli altri, straniero. Esiste nelle biografie dei ragazzi di seconda generazione un punto di non ritorno, la scoperta improvvisa e pervasiva di essere diversi. France Twine (Twine, 1996) parla, a questo proposito, di boundary events, episodi che si configurano come riferimenti blandi ad una differenza, sotto forma di una domanda o di uno sguardo compassionevole, oppure come veri e propri insulti razzisti, a scuola, per strada, sui mezzi pubblici; sono episodi che minano la stima di sé e condizionano l’identità di chi sta crescendo e registra con particolare sensibilità il giudizio delle persone intorno.

“Cammino nell’atrio della scuola… la gente cammina accanto a me, affollando i corridoi. Sono una di loro. Mi vesto come loro, parlo come loro, persino impreco per essere dura con loro. Sono coinvolta nella scena, presa nel gesticolare da dodicenne. ‘P-A.K-I’ qualcuno grida…

Per me si è fermata la scena… Mi muovo tra gente bianca, seguendo solo i gesti. Mi sento come se qualcuno mi avesse scoperto. Gli occhi

sono tutti puntati su di me adesso. L’intruso è stato identificato23”(Testimonianza di Handa, giovane pakistana, in Rajiva, 2005).

Questa ragazza d’origine pakistana parla la stessa lingua dei suoi coetanei, frequenta la stessa scuola, indossa gli stessi vestiti, ascolta la stessa musica, ma da un preciso momento in poi viene identificata come straniera, come un intruso rispetto all’ambiente in cui è nata e cresciuta. L’episodio razzista, il fatto apparentemente innocuo di essere chiamata con l’appellativo “paki” (pakistana), segna lo svelamento di una condizione di alterità che accompagnerà la sua esistenza. “I soggetti di seconda generazione sono coscienti, già molto giovani, di essere ‘diversi’. Rischiano quindi di sviluppare un’identità personale negativa, nella misura in cui si accorgono che, anche se cercano in tutti i modi di appartenere alla maggioranza, saranno sempre considerati, più o meno, persone venute da altrove (…), stranieri sul proprio territorio” (Rajiva, 2005).

La scuola, il quartiere, la città nel suo complesso sono i luoghi in cui viene registrata questa differenza. Torino diventa nell’immaginario dei ragazzi l’intreccio di questi sguardi, benevoli o diffidenti, che accompagnano la loro crescita. Sono sguardi impressi nella memoria che hanno il potere, forte, di condizionare e a volte definire l’identità di chi sta crescendo. Qualcuno racconta di essersi accorto di essere diverso il giorno che è stato spinto giù dall’autobus, a motivo della sua pelle scura o il giorno in cui qualcuno a scuola gli ha fatto trovare sul diario insulti e minacce, facendo riferimento alle sue origini. Sono

“minoranze visibili”, perchè sono gli sguardi degli sconosciuti a individuare e mettere in evidenza il loro carattere di minoranza. Le reazioni dei ragazzi sono molteplici: evitare di prendere quell’autobus che ricorda la paura e la desolazione di un episodio oppure cercare un ambiente in cui ci sono persone che condividono la tua condizione di

“straniero”, professano la tua religione o portano nel sangue la stessa origine etnica. Il proprio quartiere può divenire un posto da cui

23“I walk through the hallway in school… people walk by me, crowding the corridors. I am one of them. I dress like them, I talk like them, I even swear to be tough with them. I am involved in the scene, caught up in the gesticulations of twelve year old. ‘P-A-K-I’

someone screams… For me the scene has stopped… I move through white people, only following motions. I feel as someone has blown my cover. All eyes are on me now. The intruder has been identified

scappare se attraversato da sguardi minacciosi; la palestra un luogo inospitale in cui non ci si trova più a proprio agio; la scuola un ambito chiuso in cui la propria singolarità non viene valorizzata; la discoteca uno spazio proibito in cui non si può entrare se si è diventati, un giorno, stranieri.