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Mariana. La ragazza che viveva lungo il fiume

III.4 Geografie della vita quotidiana

III.4.1 Mariana. La ragazza che viveva lungo il fiume

Mariana vive a Falchera con la propria famiglia, la sua esperienza non è molto diversa da quella dei coetanei italiani. Vive la città come una progressione di spazi e di distanze che gradualmente conquista e addomestica: lo spazio di prossimità sotto casa, che frequenta con il fratello e gli amici del quartiere, i centri commerciali che visita il sabato con le amiche, i parchi urbani dove si reca nel fine settimana con parenti e connazionali. Crescere coincide anche con l’esperienza dell’allontanarsi dal proprio quartiere per andare verso il centro della città, luogo dove fare scoperta della varietà urbana e delle differenze che la abitano.

Mariana è partita dal Perù all’età di dodici anni, con i genitori e il fratello minore; adesso ne ha diciotto e vive a Torino al quartiere Falchera. “Noi vivevamo a Pucallpa che è una città al confine con il Brasile, quindi foresta, tutta foresta, vicino ad un fiume. C’è sempre sole, è molto aperto l’ambiente, stai sempre fuori praticamente, vivi all’aria aperta. Siamo arrivati qui e all’inizio c’era tanta nostalgia. I primi due anni per me sì… e poi ti abitui, anche perché avevo dodici anni e gli amici si fanno facilmente… e dopo due anni i tuoi amici sono tutti qui… lì in Perù rimangono solo i parenti. È stato difficile abituarsi, perché essendoci di là un ambiente molto aperto, sempre tra gli alberi, sempre caldo, è caldo tutto l’anno. Siamo sotto l’equatore, è sempre estate. È stato difficile abituarsi, non all’inizio perché siamo arrivati d’estate, ma dopo, d’inverno. Poi ci siamo abituati piano piano a stare in ambienti chiusi, qui al terzo piano, a non far rumore sul pavimento, qui a casa nostra, ma anche fuori. In Perù avevamo una casa fuori città, non c’erano ancora le strade, ora credo di sì, allora non c’era pavimentazione. La cittadina era abbastanza grande, solo che eravamo un po’ fuori… c’erano alberi… ma anche molta polvere quando passavano le macchine. Avevamo un orticello dietro… uscivamo quando volevamo. Qui è difficile, devi stare attento ai rumori perché ci sono le persone che abitano al piano di sotto, non devi urlare, devi utilizzare dei piccoli accorgimenti per vivere qui. Poi d’inverno è sempre freddo… sì mi copro, ma non ti aspetti quel freddo così forte, soprattutto mia mamma, per lei è stato molto duro. Io ho imparato a vivere con il burrocacao”.

È difficile passare dalla vita all’aria aperta alla vita in appartamento, le ore dentro casa passano più lentamente, non si può correre, non si può saltare, non si può gridare perché al piano di sopra e di sotto vivono altre persone. La vita al chiuso, quando fuori l’inverno è freddo, è una vita molto sacrificata, soprattutto se è ancora vivo il ricordo del paese d’origine dove c’erano ampi spazi di movimento e di gioco. “Per mia mamma è stato duro l’inverno perché il freddo le fa male alle ossa. Mio fratello è arrivato dopo di me. Lui aveva sei anni e quindi è stato ancora più difficile per lui abituarsi alla vita al chiuso”.

Il padre di Mariana è un pittore, originario di Lima, si era trasferito con la famiglia a Pucallpa per insegnare in un istituto d’arte e trovare nuove ispirazioni nel paesaggio equatoriale di questa piccola cittadina. A Torino ha cambiato completamente vita e contesto: vive in periferia e lavora tutto il giorno in fabbrica, anche se spera sempre di affermarsi anche qui come pittore. “Mio padre vendeva i suoi quadri in Perù, qui di meno perché non è famoso, in Perù lo era. Ora lavora in fabbrica, però spera sempre, fa piccole mostre, concorsi”. La casa popolare in cui viene intervistata la ragazza è tappezzata di quadri che ricordano i colori di Pucallpa, dove fino a poco tempo fa non esistevano strade, asfalto, ma solo alberi, erba alta e capanne. Le immagini aiutano a tener vivi il ricordo e il legame con la terra d’origine, col paesaggio, con la vita agreste, con la famiglia lasciata in Perù.

Mariana racconta con passione la storia di suo padre che, oltre alla professione di pittore, ha svolto attività politica come assessore, come

“regidor”: “era amato da tutti perché era onesto”, un giorno però la sua giunta è stata coinvolta in un giro di corruzione, da cui ha preso le distanze, decidendo infine di abbandonare l’impegno istituzionale,

“forse anche per questo ha deciso di venire qua”. Amareggiato e deluso dalla società peruviana, ha scelto di portare la sua famiglia in Italia per trovare un futuro migliore per i figli. Dopo i primi tempi più difficili, Mariana ha trovato degli amici, ha imparato a farsi accettare in classe, è riuscita a concludere le scuole medie a pieni voti. Sente che il tempo l’ha cambiata. “La cosa strana è che in un nuovo paese si cambia carattere, uno cerca di farsi accettare. E quindi si diventa più duttili, più disponibili agli altri, più tranquilli. Si cerca l’accettazione sia dei professori che dei compagni”. L’anno prossimo vuole iscriversi alla facoltà di Filosofia e sogna di diventare una scrittrice: racconta volentieri la sua storia, racconta volentieri le storie degli altri.

Prossimità e lontananza, la città vista da Falchera

Anche la città, nelle parole di Mariana, diviene un racconto. Prima la vita in casa, costretti dal freddo dell’inverno e dallo spaesamento dell’arrivo in un nuovo paese; la famiglia comincia ad essere animata dai primi conflitti, a scontare il prezzo di un cambio di vita così radicale, i genitori ancor più che i figli faticano ad ambientarsi nel nuovo contesto. Poi le prime conoscenze. Mariana e suo fratello trovano degli amici con cui esplorare il quartiere, ricreare spazi di gioco e d’incontro:

“andavamo ai giardinetti, praticamente vivevamo lì, stavamo tutto il giorno fuori d’estate”; i giardinetti diventano un prolungamento della casa, un luogo di autonomia relativa. La Falchera, vecchio quartiere operaio e periferico, non ha una buona fama ma ha mantenuto ancora una certa vita di quartiere: “c’è un po’ di violenza nei bar. Ero appena arrivata quando ci è scappato un morto, proprio nel bar qui sotto”; è come un piccolo paese di case popolari in cui tutti si conoscono, ma in cui il pericolo e il degrado sono spesso tangibili.

Gli spazi vicino a casa costituiscono il primo luogo di aggregazione, dove si trascorre il tempo libero dopo la scuola. Il quartiere viene utilizzato come luogo di ritrovo, uno spazio prossimo all’abitazione in cui intraprendere percorsi di socializzazione, senza la mediazione dell’istituzione scolastica, con le sue regole e tempi. Nei quartieri popolari e in alcune periferie storiche la vita di quartiere è ancora un elemento fondamentale di socialità, vi si può oggi ritrovare quella

“vivacità” che in molti quartieri più centrali si è persa. Il cortile è un terreno di mezzo, non è spazio pubblico e nemmeno privato, è uno spazio di libertà controllata, in cui i genitori possono osservare i figli dalla finestra. Oggi, soprattutto i figli degli immigrati, trovano nel cortile uno spazio per giocare e ritrovarsi, prendere confidenza con un luogo più libero rispetto alla casa o alla scuola. Il cortile sopravvive ancora in alcune zone popolari, ma sta perdendo sempre più frequentemente la sua natura di spazio di gioco nelle zone del centro.

“Per quanto concerne i torinesi in età scolare, invece, una volta il cortile ideale doveva avere almeno tre caratteristiche fondamentali: A. il prato, su cui rotolarsi, sporcarsi e giocare a pallone, rubafazzoletto, pallavolo, pallavvelenata, volano, o fare gare di corsa a piedi o in bicicletta; B. il marciapiede, su cui disegnare le caselle e i numeri per giocare alla

“settimana” o a “mondo”; C. il muro, contro cui tirare la palla nel caso i

compagni di gioco fossero chiusi in casa a fare i compiti oppure via con i genitori. Il non plus ultra si raggiungeva se nel cortile c’erano uno o più alberi: perfetti per giocare a nascondino. Poi anche a Torino è arrivata la Playstation: e dei cortili oggi come oggi i piccoli torinesi se ne fregano, a meno che non debbano fare a meno della Playstation per via delle difficoltà economiche in cui versano i loro genitori. (…) A Torino, in certi cortili evidentemente ancora frequentati da pargoli non in possesso di Playstation, c’è chi vorrebbe regolamentare in base a rigidi orari tipo fabbrica o istituto di correzione gli orari di accesso allo svago post-scolastico, estivo o domenicale. Perché Torino non è una città grigia: grigi sono spesso i torinesi, dentro” (Culicchia, 2006, p. 123-124).

La vita di quartiere per molti giovani stranieri costituisce la prima possibilità di entrare in relazione con i coetanei, spesso i compagni di scuola, e di sperimentare appartenenze significative. Le compagnie sono miste, difficilmente organizzate su base nazionale: la presenza di ragazzi di origine straniera non è recepita come un’anomalia.

Compagnie di una sola provenienza sono molto più rare e limitate ad alcuni contesti di particolare concentrazione e nei quartieri etnicamente connotati. Alcuni insegnanti segnalano questa differenza: i ragazzi sono integratissimi nel quartiere, giocano, stanno in compagnia con gli altri, sono esposti agli stessi pericoli, ma al contempo sono più fragili, più a rischio, per i problemi che hanno in famiglia, per le incomprensioni comunicative. Crescendo, Mariana ha cominciato ad aprirsi al resto della città e la Falchera è divenuto il quartiere da cui partire, insieme alla compagnia di amici, per raggiungere il centro della città.

“Solitamente vado in centro con dei miei amici, chiacchieriamo, passeggiamo, guardiamo le vetrine dei negozi”. Il centro diventa una meta da raggiungere, un luogo da attraversare in compagnia, uno spazio di evasione rispetto al quartiere in cui si torna la sera, accompagnati dagli amici: l’uscita dal quartiere assume la dimensione del viaggio verso un mondo ancora sconosciuto, dove confrontarsi con la varietà e la molteplicità della vita urbana.

Un quartiere modello alla prova del tempo

Inutile domandare dove si trovi piazza della Falchera. La Falchera non è fatta di vie, strade e piazze, ma è un concetto unico, la Falchera e basta.

Mariana abita alla Falchera, un quartiere dalla lunga storia e dai forti

rimandi utopici. È una delle pagine più interessanti della storia dell’urbanistica del dopoguerra, di quel periodo straordinariamente fertile di pensiero, di elaborazione teorica e di sperimentazione, di apertura alle esperienze più innovative di progettazione di quartieri del nord Europa e di riavvicinamento fra architettura e società. La Falchera nasce nel 1954, ma viene pensata già a partire dall’elaborazione del nuovo piano regolatore del ’48. Nel progetto elaborato da Giovanni Astengo si sedimentano molte delle elaborazioni critiche della rigidità dei modelli duramente razionalisti degli anni Trenta e Quaranta, l’abbandono dell’orientamento eliotermico degli edifici, della simmetria e della ripetizione, dello sviluppo in altezza, della standardizzazione estrema, mentre si sperimentano le nuove forme di una città organica, dove il verde non sia concepito come uno standard, come uno spazio indifferenziato, dove le grandi corti verdi sono circondate dalle case, le proporzioni e le forme degli edifici mantengono una scala a misura d’uomo, quasi da sobborgo, fra i due e i quattro piani, organizzati come linee spezzate che costruiscono anelli aperti attorno allo spazio pubblico, che astengo definisce quartieri.

La città progettata come un organismo vivente, dotato di funzioni diverse, diviene l’elemento base del disegno del quartiere residenziale e quello del tessuto edilizio, e costituisce uno degli elementi di maggiore qualità e riconoscibilità di questa realizzazione. Scriveva Astengo: "il punto di partenza è un’idea sociale. (…) il Piano Falchera parte da un’impostazione sociale, un sistema di grandi edifici articolati disposti attorno a grandi spazi verdi. Su queste ampie corti aperte, trattate a prato, a giardino, a frutteto, a boschetto, con i giochi dei bimbi e i nidi asilo, si affaccia la vita degli alloggi; dalla loggia la madre, lavorando, sorveglia i figli che giocano nel verde; pranzando si vede la natura; nel grande giardino si scende a sera a passeggiare o a far la maglia”

(Astengo, 1954). Non tutto è stato realizzato secondo questa impostazione, molti “tradimenti” progettuali sono intervenuti fin dalla prime fasi di realizzazione; tuttavia, il quartiere non è stato progettato come un insieme di case ma come una piccola città, capace di una sua vita interna, di un’autonomia rispetto al contesto, di una identità forte, che fa pensare più al borgo o alle new town anglosassoni che all’immagine usurata del quartiere popolare. Esso ha vissuto un difficile, lento, ma costante processo di miglioramento, sia grazie alla qualità degli spazi e delle architetture della sua parte più vecchia, sia

dell’attivismo del privato sociale e dei servizi, ed ha accolto immigrati dalle campagne, dall’Istria, dal Veneto, dal meridione e oggi accoglie nuovi migranti dal resto del mondo.

Falchera rimane un quartiere economicamente povero e prettamente residenziale, ma non è mai divenuto un quartiere dormitorio. Il giornale del quartiere, la costituzione di un tavolo sociale, la ristrutturazione partecipata della piazza, le attività del Teatro Comunità, le feste e iniziative pubbliche, le politiche di sostegno per il lavoro, per gli anziani, ma soprattutto le politiche per i giovani e l’integrazione dei ragazzi stranieri definiscono una socialità straordinariamente attiva, che fa sperare.

Il parco della Pellerina, dove si ricompone la famiglia allargata

“Andiamo tutti insieme, facciamo le grigliate alla Pellerina. Abbiamo due posti fissi sempre alla Pellerina, sono posti così dove andiamo sempre, se andiamo alla Pellerina, andiamo lì. Non andiamo proprio tutti perché siamo troppi, se considero la famiglia allargata siamo oltre cinquecento. Siamo tutti qui, certe volte mi capitata di essere salutata per strada da qualche parente che io neanche conosco”. Il parco per Mariana è il luogo in cui si ricompone la grande famiglia allargata, ma è anche e soprattutto lo spazio aperto, naturale e libero, quello che a Torino più assomiglia alla foresta e al fiume che affollano ancora i suoi ricordi dell’infanzia.

Torino è una città verde, fra le più verdi d’Europa. “A Torino ci sono 17.500 metri quadri di verde. I viali della città ospitano 65.000 alberi. E i parchi altri 100.000. I percorsi pedonali nel verde toccano i cinquanta chilometri. Le aree gioco sono duecentoventisette. L’area verde fluviale è di quattro milioni di metri quadri, e si progetta di ampliarla fino a raggiungere i dodici milioni” (Culicchia, 2005, p. 16). Ma nonostante questo, la sua immagine è spesso ancora quella della città-fabbrica, densa e popolosa. I ragazzi stranieri amano questo carattere di Torino, usano molto i parchi, forse più degli stessi torinesi, per ritrovare un rapporto perduto con la natura, per riposare gli occhi e la mente, per sfuggire da case talvolta troppo piccole, ma anche per sentirsi liberi.

Poter correre, giocare, con i cugini, con i coetanei, in tutta libertà, senza i vincoli della città, senza preoccuparsi di fare rumore, di disturbare.

Mangiare all’aperto, tirare un’amaca fra due alberi, riposarsi, passeggiare, giocare a pallavolo, confidarsi con le cugine, danno a

Mariana quel senso di tranquillità e la consapevolezza di far parte di una comunità famigliare. “Non andiamo spesso in vacanza, anzi quasi mai, la gita con la scuola e ogni due o tre anni torniamo un mese in Perù, al paese. D’inverno quando fa troppo freddo per andare al parco o quando piove, mi manca molto il parco, stare fuori. Per noi è una tradizione”.

La Pellerina è un grande parco di cintura, uno dei più grandi polmoni verdi nella zona nord ovest di Torino, un parco metropolitano fortemente attrezzato, decine di campi sportivi, aree dedicate ai concerti, percorsi naturalistici, aree pic nic: una macchina complessa del tempo libero, che nei fine settimana estivi si muove a pieno regime, ospitando anche le iniziative estive del Comune, il festival rumeno e mediamente un migliaio di cittadini peruviani, la concentrazione più rilevante nel panorama dei parchi torinesi. Non mancano ovviamente problemi di convivenza e di rispetto di alcune regole di comportamento, come sempre accade quando uno spazio ospita attività e gruppi diversi, usi individuali o collettivi dello spazio pubblico. Rifiuti abbandonati nei prati, barbecue sull’erba, problemi igienici e ubriachezza hanno sollecitato l’amministrazione a trovare delle risposte. “Adesso hanno fatto delle zone attrezzate, con le panchine, i tavoli, i bagni e i posti dove fare il barbecue. È più pulito e anche più comodo, non dobbiamo portarci tutto da casa, e delle signore si sono messe insieme e fanno da mangiare. A settembre poi abbiamo fatto anche quell’iniziativa,

‘puliamo il mondo’. C’erano alcuni che pulivano il parco e altri peruviani che suonavano”. Se la Pellerina è un parco in qualche modo istituzionalizzato, anche nel suo uso da parte dei peruviani e in misura minore da rumeni e albanesi, un parco delle famiglie e dei grandi gruppi famigliari, altri parchi urbani assumono, sia per la loro natura che per la loro posizione, altri significati e altri usi. Il parco Ruffini, ad esempio, viene utilizzato in parte come alternativa al parco della Pellerina dai gruppi familiari peruviani, in parte anche come parco di quartiere, proprio perché vicino a Borgo San Paolo, quartiere abitato da molti peruviani, come luogo in cui andare a giocare una partita di basket o pallavolo dopo la scuola, dove incontrarsi fra ragazzi. Un ruolo ancora diverso ha il parco del Valentino forse il parco più caro ai torinesi e ai ragazzi stranieri per la sua bellezza paesistica, per la prossimità con il Po, per il suo valore storico e simbolico, la presenza dell’elegante castello del Settecentesco del Valentino, il Borgo

Medioevale, invenzione dell’esposizione universale del 1884, così come il giardino roccioso, la fontana dei mesi e l’orto botanico, con le sue 4.000 specie diverse di flora.

Al Valentino tutte le estati l’Associazione Salesiana di Animazione Interculturale, che ha sede nel quartiere di San Salvario, allestisce nel parco un enorme tendone per tutta l’estate e programma iniziative ed attività con animatori o anche libere. Il tendone Estradò non vuole essere solo uno spazio aggregativo, ma qualcosa di più, un presidio sul territorio che vuole rendere visibile la presenza positiva e rassicurante dei giovani, confutando stereotipi e pregiudizi che spesso legano giovani stranieri ed attività di tipo illecito. I ragazzi stranieri diventano una presenza rassicurante, perché organizzata e debolmente istituzionalizzata, che controbilancia e mette in secondo piano la visibilità dei ragazzi devianti e lo stereotipo del giovane straniero.

Anche Mariana ha scoperto la bellezza del parco del Valentino: è lontano da casa ma quando d’estate va in centro trova sempre una scusa per passarci e per fermarsi a guardare il fiume.

Andare fuori quartiere: il centro commerciale e multisala Medusa alla Dora

Il sabato pomeriggio Mariana va spesso con le compagne di scuola in giro per negozi. Qualche volta in centro, ma spesso anche nei centri commerciali vicini a casa, soprattutto quando piove o fa freddo. Non fanno shopping, ma più che altro guardano le vetrine, cercano di capire cosa va di moda, qual è l’ultima tendenza, si guardano attorno e passeggiano. Il centro commerciale di via Livorno, con il cinema multisala, da quando è stato aperto è divenuto uno delle mete più amate. “È nuovo e ci piace molto, fuori c’è una piazza, dove ci si può incontrare, è sempre piena di gente, non è molto grande ma è vivace, e poi c’è il cinema”. Uno o due film al mese, non di più, a Mariana piace andare al cinema con le amiche, vedere un film divertente, mangiare i pop corn e fare due passi nel centro commerciale. Un’altra meta favorita nel sabato pomeriggio è il McDonald’s: non è come un bar in cui sei costretto a consumare a andare via, ai tavoli puoi passere le ore senza che nessuno ti faccia alzare. Il target giovane facilita l’accesso. Ha regole di comportamento universali e facilmente decodificabili anche da chi proviene dall’altra parte del mondo. La modalità self service facilita il suo utilizzo; i prezzi sono contenuti, ma soprattutto costituisce uno spazio di libertà, nel quale vigono regole più elastiche che in altri luoghi di

ristorazione. È un ambito che nel contempo garantisce sicurezza, vi si va

ristorazione. È un ambito che nel contempo garantisce sicurezza, vi si va