Nelle famiglie degli immigrati convivono spesso più registri esperienziali diversi e il solco che separa le generazioni vi assume una rilevanza maggiore che nelle famiglie autoctone. La vita degli adulti, immigrati di prima generazione, è stata plasmata sia da una motivazione personale (naturalmente non scevra da condizionamenti collettivi, famigliari ecc.) che da una serie di “scelte” obbligate, dettate dalle specifiche modalità di inserimento nel mercato del lavoro, da cui discendono a cascata tutte le invarianti della loro quotidianità: la condizione alloggiativa, il tipo di rapporto che hanno potuto instaurare con il contesto italiano e torinese, i rapporti con i loro connazionali in emigrazione e l’atteggiamento che hanno progressivamente maturato nei confronti del loro ambiente sociale. Se chi si è percepito come apripista dell’avventura migratoria famigliare tende così a riconoscersi soprattutto nella dimensione del sacrificio consapevole, della tensione verso il riscatto sociale ed economico capace di sovrastare ogni avversità, i minori immigrati sono stati definiti appropriatamente génération involontaire16, ossia persone che hanno in larga misura subìto le decisioni dei genitori. Ma a questa prima frattura esperienziale se ne aggiungono altre: la dialettica delle loro relazioni con la società italiana non soltanto muove da presupposti diversi, ma con il passare degli anni è in grado di avvalersi di risorse conoscitive e simboliche più vaste e articolate di quelle dei genitori. Il divario generazionale tra genitori e figli diventa si manifesta sotto forma di un gap esperienziale e culturale profondo, caratterizzato da un profilo espressivo che nel tempo non può che rafforzare il senso di una distanza dal mondo degli immigrati adulti.
Si tratta raramente di una distanza affettiva, perché le famiglie dei giovani immigrati torinesi, per quanto è possibile evincere dal materiale qualitativo raccolto sul campo, sono in un certo senso consolidate anche dall’esperienza collettiva dell’emigrazione stessa. Essa si manifesta piuttosto in una sorta di compartimentazione del dialogo genitori-figli sul terreno della comunicazione possibile, in cui i figli (ma verosimilmente anche i genitori) si incontrano solo nella misura in cui sono in grado di capirsi, mantenendo però ampi spazi di incomunicabilità, o quantomeno di non-comunicazione, per quanto concerne vissuti che non sanno come tradurre.
16 La definizione è di Tahar Ben Jelloun (Ben Jelloun, 1984; citato in IPRS, 2000).
Quando poi i figli sono cresciuti almeno in parte - e spesso per lunghi periodi di tempo - lontano dai genitori, in contesti d’origine spesso radicalmente trasformati dalle conseguenze economiche e sociali di un’emigrazione di massa, il margine dell’incomunicabile tende ad aumentare. Specie nei giovani neoricongiunti si evidenziano atteggiamenti e orientamenti valoriali che ne distinguono nettamente i comportamenti e le prassi comunicative e relazionali da quelle dei genitori, che tentano invano di colmare tale distanza rapportando la realtà dei figli a quella della propria giovinezza prima dell’emigrazione.
Nei casi in cui il mutamento sociale intercorso nei luoghi di origine è stato ulteriormente amplificato da uno sviluppo sociale rapidissimo e dall’affermarsi di una “cultura dell’emigrazione” che tende a soppiantare radicalmente lo stile di vita tradizionale, le cui strutture profonde avevano condizionato marcatemente l’ambiente di vita e di socializzazione dei genitori prima dell’emigrazione, questo iato esperienziale si traduce in incomprensioni anche profonde. Il trauma di una separazione imposta da un contesto sociale familiare e l’inserimento forzoso in una società diversa e generalmente del tutto sconosciuta può ulteriormente approfondire il solco che separa le generazioni, innescando soprattutto negli adolescenti di recente immigrazione – e in particolare nei casi in cui l’integrazione scolastica nel contesto torinese non vada a buon fine – un progressivo ripiegamento sul proprio gruppo dei pari. A caratterizzare quest’ultimo non è allora tanto la “compaesaneità”, quanto una comune esperienza di dislocazione subìta e non ancora pienamente elaborata a livello affettivo. È interessante a questo proposito l’opinione di un operatore sociale che da anni lavora a stretto contatto con i giovani figli d’immigrati nell’ambito delle attività ricreative e di doposcuola organizzate da una associazione torinese molto attiva in città, soprattutto nel quartiere di San Salvario. Il discorso verte sui giovani peruviani, per i quali il processo che a portato dall’emigrazione della prima generazione a quella della seconda è stato convulso e rapidissimo, spesso traumatico sia per i giovani che per i loro genitori:
sono giovani per i quali la definizione di “generazione involontaria”
sembra particolarmente azzeccata.
I peruviani sono molti in questi anni, difficili da agganciare, anche se apparentemente sembrano più vicini alla nostra cultura. Però poi c’è una difficoltà di orario e c’è una difficoltà di stare all’interno di certe strutture organizzative o all’interno di programmi,
di avere una certa fedeltà. Sono molto destrutturati, non c’è continuità verso delle attività, anche per i più grandi, e quindi poi diventa veramente difficile. C’è questa parola “incomplidos” per definire quest’incapacità di portare a termine delle cose. Ci sono molti inserimenti positivi ma grosse difficoltà di mediazione familiare , famiglie che si sono ricomposte e minori che hanno la famiglia ma in cui magari i genitori lavorano fissi e quindi loro di fatto stanno soli tutta la settimana. Recentemente abbiamo avuto il caso di una ragazzina peruviana che si è suicidata, e un altro di un ragazzo peruviano che veniva qui qualche mese fa e che in Via Nizza ha ammazzato un connazionale dopo una notte passata in discoteca. Aveva 18 anni e oggi è in carcere. Nelle discoteche i ragazzi peruviani sono spesso coinvolti in risse, per cui ogni tanto li vedi arrivare qui il lunedì con il naso spaccato. C’è un grande consumo di alcol, che un po’ è culturale ma che si sta molto diffondendo anche per malessere. C’è una sensibilità che molte volte viene soffocata dalla timidezza o dalla paura. C’è un po’
lo stereotipo dei sudamericani molto aperti, invece abbiamo ragazzi molto timidi, che molte volte vengono qui per un periodo e poi scompaiono. Poi scopri che sono da 6 mesi chiusi in casa che guardano la tele ma che non hanno più voglia di uscire. Ci sono ragazzi che sono rientrati, che scappano di casa, apparentemente sembrano più problematici i minori rumeni, marocchini o albanesi. Io devo dire che nella nostra esperienza non è da sottovalutare la situazione dei ragazzi peruviani. Grosse difficoltà di mediazione familiare.
[Testimone privilegiato italiano, educatore, Associazione ASAI]
Tra i giovani intervistati sul campo sono soprattutto le ragazze a raccontare con grande sensibilità il loro rapporto con i genitori, le intimità e i silenzi che lo caratterizzano. Non a caso è proprio il valore e la nozione stessa di “esperienza” a figurare al centro di molte contrapposizioni tra genitori e figli, in particolare quando a proporre l’esplorazione di comportamenti nuovi sono le figlie.
La generazione prima di noi era molto più tranquilla, stavano molto più con i genitori ed erano i genitori a decidere per loro. Ora questo non esiste più, ora i giovani si gestiscono da soli, fanno quello che vogliono, questa è già una differenza molto grande.
I genitori essendosi abituati a vivere come vivevano non sono abituati a questo cambiamento da un giorno all’altro: loro non uscivano tanto, studiavano tanto, adesso ormai questa abitudine non c’è più, adesso se potessimo scappare dalla scuola staremmo molto meglio. E questo crea conflitti, continui litigi tra i figli e i genitori. Io in realtà non esco tanto la sera, sono un tipo più privato, quindi non ho tanti conflitti con i miei. Però ogni tanto si litiga. Sai i genitori hanno sempre paura, e io rispondo che se non posso fare niente, non posso imparare, anche sbagliando impari, no? C’è
stato un periodo in cui mi piaceva molto navigare su internet e loro continuavano a ripetermi che era pericoloso, e mia madre tentava di proibirmelo e tanto più mi teneva tanto più io facevo. Non chattavo, mi piaceva andare su internet a guardare le foto, anche le cose della scuola, ascoltare musica, lei mi rimproverava dicendo che perdevo tempo a guardare delle foto, che sarei dovuta andare a studiare…e io le dicevo guarda che sbagliando impari. Era molto interessante perché andavo per cercare una cosa e ne scoprivo un’altra, un’altra ancora, quindi andavo a cercare delle cose che non avevo mai visto. Guardavo soprattutto dei disegni, delle opere, scoprivo delle cose nuove e quindi andavo ancora oltre.
Mio padre è molto più libero mi dà meno divieti, è meno apprensivo, è più fiducioso, mentre mia madre è molto più attenta. Forse ha anche ragione, sono una ragazza…
mio padre ha una cultura molto ricca ha studiato molto sa sempre rispondermi a tutto… Lui ha una grande azienda di internet, sviluppata da tanti anni. Mio padre legge e studia sempre, per questo forse mi ha trasmesso questa passione. A me piacciono i romanzi e le storie vere che vengono raccontate nei libri. Ho letto Tre metri sopra il cielo e mi è piaciuto tanto il libro di Melissa P. Lì racconta lei come è fatta, quello che lei ha fatto ha vissuto lo ha raccontato: non si vergogna di quello che ha fatto e mi piace leggere questo delle persone. Le cose che racconta mi sembrano normali, sono cose che succedono, è la realtà. Sono fatti che lei ha vissuto e ha avuto il coraggio di andare avanti. Alcune cose della Chiesa mi sembrano un po’ esagerate, ad esempio il fatto che un prete debba vivere da solo: secondo me ciascuno deve vivere la vita sia che sia prete o no. Anche un prete la sua vita deve averla, questo mi sembra giusto. Le cose che racconta Melissa P. sono cose che accadono adesso, se le avessi lette al tempo di mia madre mi sarebbero sembrate assurde, mi avrebbero forse spaventato, adesso non ci spaventa più niente, tutto sembra qualcosa che deve succedere. Come nella vita delle persone.
[Ragazza rumena, nata a Bucarest, 18 anni, in Italia dal 2001]
I miei genitori sono difficili. A me sembra che cambiano personalità, quando c’è una difficoltà non sono sempre quelli. Parlo con la mia mamma, le confido che mi piace un ragazzo, le dico che mi deve capire, che tanto so cosa devo fare e che gliene parlo così che non dica che vado solo dagli altri a chiedere consigli.
[Ragazza rumena, nata a Bacau, 18 anni, in Italia dal 2005]
Il fatto che la spia più evidente di uno scarto tra i modelli comportamentali proposti ai giovani dai genitori sia la resistenza agli stessi (e talvolta la loro radicale messa in discussione) da parte delle figlie è stato spesso messa in relazione con un conservatorismo di carattere religioso. Nozioni di senso comune, spesso riprese e
amplificate anche dai mass media italiani, tendono infatti a ridurre la proposta di ruoli di genere codificati e non congruenti con quelli prevalenti nella società italiana all’appartenenza alla comunità religiosa musulmana. La ricerca tende invece a suggerire che il tentativo degli adulti di riprodurre e sostenere, all’interno di alcune delle popolazioni immigrate esaminate, determinati ruoli di genere è più spesso espressione di strategie protettive volte ad assicurare la compatibilità del profilo sociale dei propri figli – e soprattutto delle proprie figlie – con le aspettative di gruppi famigliari allargati che impattano sia sulla rete dei rapporti affettivi che garantiscono la praticabilità dei propri progetti migratori famigliari che sulle opportunità di un buon successo sociale dei figli. Queste prassi protettive e normative non sono necessariamente legate all’aderenza a determinate ortoprassi religiose, ma sono piuttosto espressione dell’importanza che le reti di supporto famigliari rivestono per il successo della carriera migratoria degli adulti e – quantomeno nell’intendimento dei genitori – anche dei figli.
Orientamenti piuttosto conservatori nei confronti del ruolo sociale e del profilo di comportamento delle figlie si ritrovano in seno alle famiglie di tutti i cinque gruppi nazionali coinvolti nella ricerca sul campo, dagli albanesi ai cinesi, quale che fosse la loro appartenenza religiosa. La reificazione della “tradizione”, declinata peraltro più nei suoi aspetti normativi comportamentali e nella codificazione di ruoli sociali in seno alla dialettica relazionale (tra maschi e femmine, anziani e giovani, stranieri e italiani, ecc.) che non in un’accezione prettamente religiosa, è del resto particolarmente accentuata all’interno dei gruppi che hanno subito in modo più continuo e pervasivo forme di stigmatizzazione sociale, o che percepiscono il proprio retaggio culturale come esposto a ripetuti attacchi da parte del sistema espressivo e comunicativo dominante in Italia, al punto che i giovani stessi possono introiettare tale stigma fino a farne una sorta di emblema della loro differenza, oppure, viceversa, viverlo come un obbligo alla mimesi, alla necessità di conformarsi allo sguardo (potente, giudicante) altrui17.
Tra i ragazzi marocchini c’è un forte attaccamento alla tradizione, una rigidità culturale, (un’idea di) cultura intesa come qualcosa che in qualche modo non può essere cambiato ma che deve essere trasmesso. Andare a proporre un modello culturale
17 Si tratta di processi ben noti e ampiamente descritti nella letteratura sociologica in riferimento alle forme di marginalizzazione e stigmatizzazione sociale (cfr. Goffman, 1963-2003; Girard 1987, 1999; Dal Lago 1999, 2002).
laddove la cultura non è un qualcosa di statico, di ripetitivo, di fossile da trasmettere ma la cultura è un qualcosa in movimento, che evolve, per cui tu oggi non sei uguale a ieri e non sei uguale a tuo padre, né sei uguale al tuo coetaneo che è rimasto in Marocco, questa cosa va a minare alcune fondamenta e bisogna essere un po’ attenti, non essere grossolani. Allo stesso tempo però credo che su questo bisogna lavorare, perché non esiste dialogo se non si parte da quest’idea che dialogando in qualche modo le culture si contaminano, altrimenti c’è l’idea che dialogando una cultura viene soppressa e l’altra ha il sopravvento.
Vi è anche una dimensione di genere in tutto questo, ed è un discorso complesso, ci vorrebbe molta calma. L’unica volta nella mia vita in cui io ho avuto una profonda crisi personale nel lavoro che stavo portando avanti con i ragazzi è stato in relazione a una ragazza marocchina. Vedevo che condivideva questi temi ma tornando a casa la crisi, la distanza che lei avvertiva con la cultura della sua famiglia e questa nuova visione culturale diventava sempre più profonda. Io mi sono chiesto fino a che punto fosse opportuna questa cosa. Rispetto alle ragazze, i maschi marocchini sono generalmente più rigidi, e quindi è necessario un lavoro molto più lungo nel tempo.
Abbiamo fatto molti anni di lavoro sulla diversità e quest’anno partecipiamo al Gay Pride, perché siamo un’associazione che lavora con le diversità. Alcuni ragazzi marocchini invece non parteciperanno perché quella cosa per loro non è contemplata.
Non mi crea nessun problema, credo che i tempi non vadano forzati. Abbiamo in ogni caso anche avuto delle belle esperienze di giovani marocchini che oggi sono la nuova
“classe dirigente” dell’ASAI. Ma abbiamo anche ragazzi che sono finiti in carcere e altri che si sono bruciati con le nuove droghe, il miscuglio totale di pasticche, alcol, cocaina…
[Testimone privilegiato italiano, educatore, Associazione ASAI]
Una possibile traccia della cogenza della dimensione di genere in questa dialettica genitori-figli/conservazione-sperimentazione si evince dall’analisi dei dati relativi alla socialità dei giovani di origine straniera nelle scuole torinesi selezionate per il nostro campione. Nessuno dei gruppi di giovani nati all’estero presenta infatti un profilo femminile di socialità con amici/amiche o con il proprio ragazzo in linea con quello dei giovani stranieri nati in Italia: la distanza rispetto al valore medio rilevato per l’opzione “il pomeriggio lo passo con amici/amiche” è particolarmente forte tra i nati in Marocco, Perù, Cina, Ecuador e Albania (al 68% delle nate in Italia fa eco solo il 40% di quelle nate nei paesi citati), mentre è più ridotto tra le nate in Romania e Moldavia.
Nessuna delle ragazze nate in Cina comprese nel campione ha
selezionato la voce “passo il pomeriggio con il mio ragazzo” – dato peraltro speculare a quello dei maschi cinesi. Per contro, l’opzione
“passo il tempo con i miei fratelli/sorelle” è particolarmente elevato tra le ragazze nate in Marocco, Perù ed Ecuador (con uno scarto marcato rispetto ai maschi per marocchine e peruviane). Maschi e femmine nati in Cina passano molto tempo il proprio tempo libero pomeridiano soprattutto con i genitori, che spesso assistono nell’attività lavorativa.