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A caratterizzare il presente della maggior parte dei ragazzi coinvolti nella ricerca è una forte consapevolezza della necessità di costruire il proprio futuro: la dimensione dell’impegno è relativamente trasversale e spesso coniuga lo studio con esperienze di lavoro o di aiuto dei genitori nella gestione del quotidiano. Emerge chiaramente nella stragrande maggioranza dei giovani una chiara volontà di riscatto e la coscienza dei sacrifici fatti dai genitori per migliorare la situazione socioeconomica della famiglia, progetto che ha spesso un carattere corporativo, al quale è in genere richiesto ai figli di contribuire con il proprio lavoro o realizzando carriere di mobilità verso l’alto personali veicolate soprattutto dallo studio. Certo, vi sono anche situazioni problematiche, in cui tale progetto appare in crisi già nell’esperienza dei genitori (è un caso frequente soprattutto tra i latinoamericani neoricongiunti) e in tal caso spesso nei giovani traspare l’ansia di non

24“Children who learn the language and culture of their new country without losing those of the old have a much better understanding of their place in the world. They need not clash with their parents as often or feel embarrassed by them because they are able to bridge the gap across generations and value their elders’ traditions and goals.

Selective acculturation forges an intergenerational alliance for successful adaptation that is absent among youths who have severed bonds with their past in the pursuit of acceptance by their native peers.”, Portes e Rumbaut, 2001, p. 274 (nostra traduzione).

essere all’altezza degli sforzi richiesti per uscirne. Interrogati rispetto a quel che vorrebbero fare nella vita, la maggior parte dei giovani interpellati appare ancora piuttosto confuso: l’orizzonte prevalente è quello di “un buon lavoro”, soprattutto tra i maschi, ma emergono anche delle differenze rispetto alle quali la variabile dell’appartenenza a uno specifico gruppo nazionale evidenzia una certa rilevanza euristica: i più “concreti” appaiono i ragazzi nati in Marocco, che tendono a qualificare la propria futura occupazione senza troppe incertezze nell’attività di meccanici ed elettricisti, mentre tra i nati in Romania, Perù e Albania l’aspirazione ad occupazioni knowledge intensive (medici, scienziati) non trova riscontro in un’egualmente robusta volontà di proseguire gli studi. Tale aspirazione pare dunque esprimere più uno slancio velleitario che una determinazione profonda. Tra i giovani stranieri nati in Italia, per contro, il desiderio di proseguire gli studi fino alla laurea è espresso a chiare lettere, seppure da una minoranza degli interpellati (cfr. Tab. IV.1 nell’Appendice).

Sulla possibilità di costruire un futuro diverso da quello dei genitori e di poter godere di un certo grado di mobilità sociale verso l’alto impattano del resto variabili sulle quali i giovani sono in grado di influire solo in misura limitata. Prima fra tutte, il tipo di integrazione socioeconomica che caratterizza l’esperienza lavorativa dei genitori (cfr. Ambrosini, 2004), che in Italia assume ancora largamente i tratti di una integrazione subalterna, anche quando si configura come lavoro autonomo. La maggior parte degli immigrati titolari di impresa infatti si vede ancora relegata in economie di nicchia, ad alta intensità di lavoro e con margini di profitto scarsi, all’interno delle quali ai figli può essere offerto un ruolo propulsivo di un certo rilievo solo nelle aziende che appaiono maggiormente in grado di valorizzare le particolari competenze acquisite dai giovani nati o cresciuti in Italia. Si tratta in questo caso prevalentemente di imprese del terziario (piccolo commercio di prossimità, servizi di intermediazione e interpretariato, ristorazione) o – assai più raramente – di imprese manifatturiere che abbiano saputo svincolarsi almeno in parte dalle costrizioni del lavoro

“in conto terzi”, subappaltato loro da imprese italiane.

Per i giovani che invece sperano nello studio come strategia di emancipazione economica, la partita è ancora aperta, ma è facile pensare che molti di loro finiranno con il condividere l’incertezza e la precarietà che predominano nell’esperienza dei loro coetanei autoctoni,

con l’handicap non secondario di doversi garantire in qualche modo il rinnovo del permesso di soggiorno. Molto spesso questo significa adattarsi al primo lavoro a tempo indeterminato disponibile, fosse anche un impiego dequalificato nella ristorazione veloce, pur di non dover temere la caduta in un’incongrua condizione di irregolarità:

eventualità tutt’altro che remota anche per chi è nato/a in Italia.

Non lavoro. Ho fatto dei lavoretti, ma niente di particolare, nel senso che mia madre era ossessionata dal farmi studiare. Trovo che questa sia una grande, grandissima limitazione. I miei genitori hanno lavorato tantissimo e vogliono che io studi: certo, anch’io adoro studiare, però magari fare qualche lavoretto estivo credo che formi maggiormente una persona. Sono conscia che una volta uscita dall’Università magari andremo a lavare anche i cessi, una laurea non serve a niente. Ma è meglio sapere che tu lavi i cessi perché quello hai, però hai anche una cultura di base, non sei ignorante.

È chiaro che il lavoro vero, quello che magari, se avrai fortuna, sarà il lavoro della tua vita, che ti piacerà, per cui potrai dire che nemmeno lavori perché ti piace così tanto, arriverà dopo la laurea o dopo un tot di anni, non certo ora.

Immagini che il tuo futuro sarà simile a quello dei connazionali adulti che conosci?

No, spero vivamente di no. Ma credo comunque di no, perché già il mio modo di pensare è diverso da quello dei nostri predecessori o genitori. È un universo parallelo.

[Ragazza albanese, nata a Tirana, 19 anni, in Italia dal 1991]

Rispetto alla possibilità di vedere la famiglia come una risorsa per le proprie aspirazioni in campo lavorativo o di sostegno a percorsi di istruzione superiore, un elemento chiave è quello della classe generazionale di appartenenza, perché questa l’età all’arrivo in Italia tende a condizionare sia la possibilità di riconoscere l’esperienza dei genitori come una risorsa sia la disponibilità ad avvalersene. Così i giovani nati in Italia e di generazione 1,75 possono più spesso contare sull’appoggio dei genitori per perseguire studi al di là dell’obbligo scolastico, mentre per i giovani di generazione 1,5 questa è una possibilità che va negoziata e non è sempre garantita. Ancor meno lo è nel caso dei giovani di generazione 1,25, dove alla difficoltà di inserirsi a livelli di istruzione in cui viene spesso meno la possibilità di apprendere l’italiano - e dunque di poter proseguire gli studi - si aggiungono spesso divergenze significative con i genitori relativamente alla reinvenzione del proprio vissuto in emigrazione. Il ricongiungimento famigliare comporta infatti per questi ultimi anche il

confronto con uno stile di vita che raramente è all’altezza delle proprie aspettative e con un insieme di regole che difficilmente si accetta di buon grado.

Un ruolo importante lo giocano anche i dispositivi di etichettamento sociale che prevalgono nel contesto locale, nei discorsi di senso comune cui ci si sente esposti: più prevalgono immaginari negativi nei confronti di singoli gruppi, più chi vi appartiene vedrà limitato l’orizzonte delle proprie scelte, con reazioni che spaziano dal risentimento militante e all’etnicità reattiva fino allo sconforto, al ripiegamento su se stessi. Allora il capitale sociale cui si è in grado di accedere lungo linee di affinità etnico-nazionale diviene una risorsa solo nella misura in cui esso si raccorda ai propri network amicali, perché quelli dei genitori non sono necessariamente adatti a veicolare il tipo di sostegno che cercano i giovani.

Io vorrei fare la stilista. Mi piace un casino disegnare, vado pazza per la moda. Però non è possibile, perché bisogna andare in scuole specifiche. La vedo un po’ dura come cosa. (…) Non so come sarò a trent’anni! [ride] Penso che sarò in Italia, perché non sapendo alcuna lingua (straniera) all’estero non ci andrei. E poi mi trovo bene qua.

Per me la città (in cui vivrò) è indifferente, però siccome ho gli amici qua… Gli amici per me sono una cosa importante, non li lascerei mai. (…) Secondo me, io riuscirei anche a rinunciare al sogno della mia vita pur di restare con i miei amici. Poi mi dannerei a morte, però alla fine ci riuscirei. Metterei l’amicizia al primo posto, perché i miei amici mi hanno dato tanto.

[Ragazza cinese, nata in Italia, 17 anni, a Torino dal 1994]

La Tab. IV.1 raccoglie le percentuali per tipologia di risposta a una domanda aperta del questionario distribuito nelle scuole: una domanda alla quale ha risposto una minoranza degli interpellati, conferma di come nei confronti del futuro non si abbiano ancora idee molto chiare.

Segnali inquivocabili in tal senso ci arrivano anche dal materiale etnografico raccolto.

Come ti immagini a 30 anni?

Più vecchio. [ride]

E poi?

Boh!

Non ci pensi mai al futuro?

No.

[Ragazzo marocchino, nato a Casablanca, 19 anni, in Italia dal 1999]

Ma se c’è chi vive alla giornata, i più evitano di pronunciarsi per altri motivi: istanze più urgenti a livello personale, di costruzione del sé, di negoziazione di una propria identità nuova e fragile, ansia di riconoscimento e di accettazione. C’è l’urgenza di trovare il proprio posto, di definire il proprio status all’interno di un gruppo dei pari i cui contorni vanno definendosi a fatica, di elaborare un presente con il quale bisogna scendere a patti ogni giorno, in cui necessità e sogno si intrecciano convulsamente.

I miei progetti? Qui vorrei lavorare a sufficienza, aiutare la mia famiglia, i miei fratelli e mio papà che vorrei far venire qua. Mia mamma vorrei cercare di non trattarla male. Vorrei riuscire ad andare d’accordo con lei… non so perché faccio così…forse perché lei non è stata molto tempo con me… e nella mia mente si è formata l’idea che non mi volesse. Da bambino le chiedevo sempre se mi voleva bene o no. Il fatto è che qui mi sento un po’ complessato per via del colore della mia pelle, perché tutti i miei fratelli sono di pelle chiara… io sono l’unico scuro. Mi sono sempre sentito rifiutato per questa storia del colore della pelle, lo sento anche adesso… suona stupido, però lo penso. I miei genitori sono di pelle chiara, io sono nato scuro per via delle mie bisnonne.

[Ragazzo peruviano, nato a Lima, 19 anni, in Italia dal 2006]

Il bisogno d’autonomia, che i giovani d’origine straniera percepiscono forse ancora più acutamente dei loro coetanei autoctoni, è necessariamente temperato dalla debolezza economica dei famigliari, dei propri stessi genitori. È una responsabilità che difficilmente può essere ignorata e con cui anche l’orizzonte della progettualità deve misurarsi.

Per il futuro… non so. Io vorrei lavorare, fare la mia musica, prendermi una casa.

Per vivere da solo, fare delle cose da solo, per arrangiarmi. Mia madre non penso che mi potrà aiutare. Il mio primo padre mi dice di lavorare, di mandare i soldi in Romania e comprarmi una casa là. Però gli ho detto che io non voglio andare a vivere in Romania, voglio farmi un futuro qua. Io me lo immagino come sarà. Come sarà, sarà. Provo a cambiare qualcosa per avere un futuro migliore rispetto ad adesso.

[Ragazzo albanese, nato a Radauti, 19 anni, in italia dal 2001]

Ma immaginare il proprio futuro in Italia segnala anche un certo orientamento a considerare il contesto italiano come quello di riferimento, quello verso il quale ci si sente più legati… al punto da

“sentirsi italiani”? I dati raccolti nelle scuole invitano alla cautela: solo il

24% dei giovani interpellati infatti dichiara di “sentirsi italiano” (cfr. Tab.

IV.2 nell’Appendice).

Si sente tale il 58% di chi è nato in Italia, ma solo il 9,5% di chi è nato in Ecuador. Quella dei giovani ecuadoriani è un’immigrazione relativamente recente, certo, ma cosa pensare allora dei nati in Cina, decisamente un’immigrazione “antica”, per i quali solo il 15,% afferma di provare un sentimento di italianità? Sicuramente anche in questo caso l’appartenenza generazionale offre una chiave di lettura importante, perché dichiara di sentirsi italiana anche la maggior parte (54,4%) dei giovani di generazione 1,75, contro il 13,8% dei giovani di generazione 1,25. Il desiderio di tornare per sempre al paese d’origine risulta più forte all’interno delle classi generazionali 1,5 (29,2%) e 1,25 (26,4%), segno di un primo impatto non propriamente positivo, più ancora che testimonianza del trauma della separazione dal paese d’origine.

Insomma, la caratterizzazione dei giovani di seconda generazione come

“nuovi italiani”, diffusa sia a livello di senso comune che di discorso pubblico e politico, appare forse un po’ affrettata e semplicistica. Anche per chi in Italia ci è nato la percezione della propria singolarità, della propria non completa convergenza con il senso di identità nazionale dominante è piuttosto marcato.

Ciononostante, poco meno del 58% dei giovani appartenenti al nostro campione di scuole torinesi dichiara di “desiderare la cittadinanza italiana”.Tale percentuale scende però al 34% scarso per i nati in Cina e risulta invece più alta della media per i nati nei paesi dell’Europa dell’Est, che influenzano pesantemente il dato. Si ha dunque l’impressione che questa voglia di naturalizzazione abbia un carattere eminentemente protettivo e strumentale, indica più la disillusione nei confronti dei propri paesi d’origine che una forte adesione identitaria al contesto italiano. Sotto il profilo dell’appartenenza generazionale, sono i ragazzi nati all’estero (e in particolare quelli di generazione 1,75) a esprimersi con maggior forza a favore della naturalizzazione, forse perché chi è nato in Italia percepisce meno l’urgenza di una stabilizzazione giuridica della legittimità della propria permanenza sul territorio.

Domande relative al “sentirsi italiani” e al desiderio di ottenere la cittadinanza italiana suscitano in ogni caso risposte emotive caratterizzate da una certa ambivalenza. Soprattutto per i giovani di

generazione 1,75 e 1,5 si tratta di domande difficili, che sembrano costringere a “schierarsi” e a ridurre a categorie rigide un senso di appartenenza più plastico e molteplice. Nel tiro alla fune tra ragione e sentimento, affinità elettive ed appartenenze ascritte, necessità ed opportunità paiono tirare in direzioni opposte: una tensione interiore che appare però costitutiva dell’essere “di seconda generazione”, uno stato dell’essere in cui ci si riconosce.

Ti piacerebbe avere la cittadinanza italiana?

Non lo so, è una cosa che mi chiedo sempre pensando al calcio. Mi chiedo: “se mai diventassi un calciatore giocherei nella nazionale italiana o in quella albanese”? ci penso molto. Non avrei problemi finanziari, quindi non dovrei giocare per forza nella nazionale italiana. Avrei libera scelta. Non saprei proprio. Se dovessi seguire la famiglia, dovrei giocare in quella albanese, dovrebbe essere così e penso che sarebbe così. Sarebbe anche una cosa da fare per mio padre. Se la cittadinanza non mi servisse a niente, non mi cambierebbe la vita essere italiano o albanese.

[Ragazzo albanese, nato a Tirana, 15 anni, in Italia dal 1993]

Mi sento più straniero quando sono in Marocco che qui in Italia. Di là ci sono altri modi, altre usanze. Di là devo essere sempre con qualcuno che mi dà una mano. Se devo prendere una cosa devo contrattare, ma io non sono bravo in questo e devo sempre portarmi mio zio. Se loro dicono un prezzo bisogna chiederne la metà. Poi alla fine sono cresciuto più qua che là.

Pensi che in futuro vorrai tornare a vivere in Marocco?

Non lo so, vediamo. Magari quando andrò in pensione andrò in Marocco, ma per adesso continuo a restare qua. Perché ormai qua ci si abitua ad un guadagno, ad un’altra vita, qui ti compri sempre i vestiti di marca, di là non te li puoi permettere se non hai un lavoro sicuro. Ma un lavoro sicuro non c’è mai, e poi pagano pochissimo.

[Ragazzo marocchino, nato a Settat, 21 anni, in Italia dal 1994, tornato in Marocco dal 1995 al 1997]

Ti senti più rumeno o italiano?

È una domanda difficile. Mi sento rumeno perché è il mio paese, però i miei legami con la Romania si traducono ormai solo nella vacanza e quei pochi contatti con i parenti che sono rimasti lì. Gli amici ormai sono più conoscenti che amici, perché in sei anni la gente cambia. Ci sono tanti che anche loro non sono più lì, come me. (…) Sai, sono partito che avevo 16 anni, per cui i legami c’erano, ma non erano fortissimi.

[Ragazzo rumeno, nato ad Alba Iulia, 22 anni, in Italia dal 2001]