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L’impronta delle culture negli spazi urbani

II.3 Sinottica dei valori di una sensibilità in divenire

III.3.2 L’impronta delle culture negli spazi urbani

Abitare nel suo significato più ampio non si esaurisce nell’oggetto della casa, non si esaurisce neppure nella “vita” che attraversa la casa, nella relazione mutevole tra questo interno e i suoi abitanti, ma è una esperienza, un processo che ha a che fare con l’esperienza quotidiana delle persone, con quel varcare soglie, attraversare confini. E questo, nel caso di persone di giovane età, ci appare ancora più vero. Come abbiamo già osservato i ragazzi si apprestano fin da molto giovani ad abitare un vario insieme di spazi esterni prossimi all’abitazione (il cortile, il giardino, la piazza, la strada) e così anche una pluralità di

“spazi di vita” variamente ubicati e diffusi (il supermercato, il tram, il grande parco metropolitano, la rete discontinua di luoghi condivisa da

una comunità di pratiche sportive, culturali). Nell’esperienza dell’abitare si incontra così non solo lo spazio della casa, ma anche quella più ampio, aperto e relazionale dei paesaggi urbani, dei quartieri sottoposti a continua trasformazione, degli spazi sempre più connotati da differenti culture.

Se fino ad ora abbiamo osservato la città soprattutto nella sua natura relazionale, processuale, come luogo di relazioni e di incontri, di eventi che sovvertono il tempo e le identità, come ambito privilegiato di esposizione dei corpi e delle differenze, scenario che accoglie sguardi, conversazioni, amicizie o al contrario conflitti e paure, ora vogliamo soffermarci soprattutto sulla città materiale, sulla sua natura fisica. Già Lewis Mumford aveva messo in evidenza il fatto che le città non sono semplici “contenitori” capaci di garantire nel tempo la coerenza e la continuità della cultura urbana (Sandercock, 2004, p. 200), ma sono anche il luogo della mescolanza, della mobilità, degli incontri, delle sfide. La mescolanza, anzi, è il tratto costitutivo che rende le città luoghi civilizzati in cui vivere, per tale motivo, lo straniero, il rifugiato, lo schiavo, persino l’invasore hanno sempre svolto un ruolo cruciale nelle città. Lo straniero introduce cibi, idiomi, lingue, porta suoni, colori, significati.

Posare lo sguardo sulla città contemporanea, significa, certamente, riconoscervi eterogeneità e diseguaglianze, disordine e dissonanze, paure e separazioni, significa riconoscere i tratti di “un mosaico di minoranze difficilmente componibile in un equilibrio” (Paba, 1998, p.

88), significa osservare popolazioni urbane divise tra di loro per condizioni e stili di vita, desideri e aspettative, significa osservare l’irruzione di nuovi gruppi sociali che destabilizzano equilibri consolidati. Tuttavia, guardare questa stessa città, multietnica per definizione, meticcia, “crogiolo di tanti modi di essere che in essa si incontrano, si scontrano, si fecondano, si arricchiscono” (Piano, 2002, p.

72), significa anche continuare ad immaginare la possibilità di un incontro tra modalità e stili di vita, tra appartenenze culturali e religiose, continuare a immaginare la città come una parte preziosa, essenziale e inalienabile della crescita e della realizzazione dell’uomo (Rykwert, 2003).

Se guardiamo a Torino non ci troviamo di fronte a “quartieri etnici”

(nell’accezione di luoghi di segregazione residenziale in cui si

concentrano persone appartenenti a uno specifico gruppo etnico) ma a quartieri caratterizzati dalla compresenza nello stesso spazio di gruppi etnici di differente provenienza, che operano sul contesto trasformandolo e adattandolo alle proprie esigenze di vita: così a San Salvario, così a Porta Palazzo – Borgo Dora, i due quartieri che storicamente accolgono gli immigrati in arrivo. L’atto di insediarsi è ricco di sfaccettature, comprende la dimensione del risiedere, ma si allarga anche ad altre dimensioni, quali l’apertura di attività economiche, sia di tipo commerciale che artigianale. L’ingresso di nuove popolazioni gioca nel quartiere una funzione essenziale quale è quella di “restaurarvi una dimensione primaria, di strada, di vicinato”

(La Cecla, 1999, p. 46) attraverso l’utilizzo privilegiato degli spazi pubblici.

Certamente, a Torino, come nelle altre grandi città italiane, a condizionare l’insediamento di gruppi immigrati ha un ruolo determinante il particolare segmento del patrimonio immobiliare, spesso di piccolo taglio, marginale, degradato, tipico di queste zone e i meccanismi speculativi che in essi si innescano. L’arrivo di nuove popolazioni immigrate non è privo di conseguenze. Sul territorio si può osservare, infatti, la sedimentazione delle pratiche sociali e di vita: la nascita di insediamenti di minoranze etniche modifica la struttura del territorio urbano attraverso la rete di attività dell’imprenditoria etnica, l’uso di cortili, piani terreni di immobili, per la creazione di laboratori artigianali, di luoghi di culto e di associazione.

Così, percorrendo le strade di alcuni di questi quartieri, basti pensare a Porta Palazzo o a San Salvario, si è colpiti dalla “connotazione etnica dello spazio”: vetrine ed insegne di negozi etnici, ristoranti delle più svariate cucine che sostituiscono la cucina locale, laboratori artigianali, supermercati di prodotti alimentari internazionali, librerie e negozi di supporto alle comunità immigrate. Sono simboli espliciti della presenza di attività economiche legate alla imprenditorialità etnica, che, componendosi a mosaico con l'aggiunta progressiva di nuovi tasselli, connotano l’immagine esteriore delle strade. I quartieri a connotazione etnica esprimono il compromesso tra strutture fisiche e popolazioni immigrate e tra gruppi sociali differenti. Essi rappresentano “pur nelle tensioni, uno straordinario successo delle capacità di minoranze di immigrati a turno, dall’inizio del secolo a oggi (armeni, ebrei, maghrebini, italiani, spagnoli, senegalesi, ivoriani), di trovare un luogo

da cui cominciare un rapporto protetto e di integrazione con il resto della città” (La Cecla, 1995, p. 35).

Si assiste in questi luoghi ad una vera e propria operazione di reinvenzione dello spazio. Le popolazioni immigrate utilizzano alcuni spazi, secondo forme e modalità ereditate dal paese d’origine, ma adattandosi ad un contesto ospitante che impone loro vincoli e confini sono indotte ad inventare forme nuove di utilizzo di spazi preesistenti (Elster, 2000);

la diffusa pratica di riuso di spazi non più utilizzati dall’economia locale, ad esempio, coniuga attività economiche e commerciali in modo inedito. Questi luoghi presentano una spiccata disponibilità a trasferimenti di caratteri, a contaminazioni di varia natura, presentano riferimenti culturali molteplici; spesso accentuano ad arte un carattere etnico, nelle scritte, negli arredi, nelle fogge utilizzate, con funzione di richiamo, come nel caso di molte vie a vocazione commerciale. Anzi, il carattere etnico delle vie e delle insegne viene considerato da alcune politiche di sviluppo locale, a Torino come in molti altri luoghi, come un elemento sul quale lavorare, da sostenere come fonte di comunicazione tra culture.

L’accentuazione di caratteri etnici spesso reinventati alla ricerca della distinzione dal contesto (Hannerz, 1998), così come la ricerca di omologazione con il contesto urbano, sono riscontri dei processi di ibridazione che interessano molti spazi abitati. Ci troviamo di fronte a quelli che Paba definisce come “effetti di luogo”: “la crisi delle vecchie identità e la definizione di nuove forme di comunità e di legame sociale, l’emergere di conflitti, la trasformazione morfologica e sociale dei vecchi borghi periferici, il consolidamento e la riorganizzazione della periferia nuova, lo sviluppo di nuove attività informali, precarie, flessibili, il rafforzamento di nuove pratiche collettive e solidali” (Paba, 2001).

È certo che l’arrivo segna momenti di crisi, tra vecchi e nuovi abitanti, crisi che possono assumere connotati differenti, esprimersi attraverso la voce nelle sue molteplici forme (protesta, confronto, dialogo), o, talvolta, attraverso l’uscita (decisione di andarsene, rinuncia ad ogni forma di confronto, atteggiamento di chiusura) (Hirshman, 1982).

Laddove l’insediamento di gruppi immigrati avviene in quartieri gravati da incertezza e degrado, aumenta la possibilità che tale processo sia percepito dai vecchi residenti come elemento di ulteriore “disordine nel

disordine” (Alietti, 1998, p. 23), vengono alimentati meccanismi di resistenza al cambiamento e suscitate forme di nostalgia (“il quartiere non è più quello di una volta”), altre volte si rafforzano sentimenti di paura e sospetto, come è evidente in alcuni dei conflitti latenti riguardanti San Salvario.

È nel quartiere, inteso come la scala più utile a descrivere le nostre relazioni di prossimità, di vicinato, che avviene l’incontro tra modalità e stili di vita differenti, tra diverse appartenenze culturali e religiose. Il quartiere è la dimensione nella quale “l’alterità è a portata di mano”

(Dal Lago, 1995, p. 65).Sennet osserva che gli abitanti urbani sono persone “sempre al cospetto dell’alterità” (Sennet, 1990, p. 23). È a questa scala quotidiana, fatta di incontri che si rinnovano ogni giorno, di visi che si incontrano e si rincontrano, che nascono i conflitti o al contrario si può fare la più diretta esperienza dell’altro, del diverso e imparare a convivere. In queste riserve naturali della città, nelle quali ancora sopravvive una dimensione primaria, di strada e di vicinato, si può provare a sovrapporre all’indifferenza la strategia dell’attenzione (Sorgi, 1991, p. 120) che continuamente ripropone il dilemma di scegliere tra ignorare l’altro o riconoscerlo (Taylor, 1993).