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Le gradazioni dell’esperienza urbana

II.3 Sinottica dei valori di una sensibilità in divenire

III.1.2 Le gradazioni dell’esperienza urbana

Lo spazio che ci circonda, i luoghi interni ed esterni, la casa, la strada, il quartiere, la città, sono ambiti esperienziali che definiscono le identità, circoscrivono le appartenenze, contestualizzano le esistenze di ogni persona dalla nascita fino alla morte. L’espressione stessa “venire alla luce” descrive il passaggio da uno spazio protetto e sicuro, chiuso, ad un luogo aperto, esposto, nell’esperienza della nascita. Il bambino impara gradualmente a muoversi nello spazio circoscritto della culla, poi della sua stanza e della casa in cui abita. Passa quindi dalla propria casa ad altre case, alla scuola in cui viene accompagnato; impara a muoversi nella via e nel quartiere, memorizzando prima brevi percorsi e poi tragitti più complessi, fino a comprendere la conformazione della sua città. La mente del bambino e in seguito dell’adolescente si appropria di un mondo prima limitato e poi sempre più esteso e articolato. “Avere un mondo è qualcosa di più del semplice essere al mondo.

Tutte le cose sono al mondo, ma il corpo è al mondo come colui che ha un mondo, come colui per il quale il mondo non è solo il luogo che lo ospita, ma anche e soprattutto il termine in cui si proietta. Al limite possiamo dire di essere al mondo solo perché siamo impegnati in un mondo” (Galimberti, 2003, p. 226).

Impegnarsi nel mondo, nello spazio, ha un significato molto importante nella crescita e nel passaggio da una condizione infantile, subordinata, ad una condizione adulta, autonoma. La curiosità, l’interesse, la motivazione a conoscere, muovono il ragazzo a scoprire ambiti sempre più allargati, circuiti più complessi, intrecci di persone e di luoghi. La curiosità tipica dell’adolescente lo porta a uscire da casa per conoscere il mondo esterno, cercare nuovi spazi di aggregazione, nuovi stimoli, a volte nuovi pericoli che mettano a repentaglio la condizione ingenua del bambino. Una esigenza che cresce insieme alla maturità della persona e ne esprime la sua vitalità. “Il giorno in cui questo impegno cessa, in cui cessa la nostra presa sul mondo, il corpo non si riconosce più, non si sente più vivo e perciò si congeda dalla terra. Questo congedo è preparato da un progressivo disinteresse per il mondo, da una caduta di significati, da una progressiva cecità che non consente

più di vedere un senso nelle cose che pur si vedono” (Galimberti, 2003, p. 226).

Ma perché è così significativa l’esperienza dello spazio nella vita di una persona? Perché sono così rilevanti la memoria che conserviamo dei luoghi, le percezioni che essi suscitano, le emozioni che vi si accompagnano? Cosa significa visitare una città come turista, oppure andare a viverci per un periodo limitato, o ancora nascerci o decidere di metterci le radici?

Diverse sono le forme di conoscenza che l’esperienza dello spazio mette all’opera, lungo un crescendo che rende sempre più profonda e intima la relazione con la città.

Lo sguardo dall’alto. Un primo modo di conoscere una città è, potremmo dire con una metafora, “guardarla dalla torre” (Ferraro, 1998); uno sguardo dall’alto è quello che utilizziamo quando visitiamo una città sconosciuta e cerchiamo il punto più esposto dal quale guardarla.

Come quando osserviamo una carta geografica o una pianta perché ci serve un’immagine sintetica, che ci consenta di abbracciare la totalità della città. Scrive David Harvey in un famoso libro che si intitola appunto L’esperienza urbana: “Chi tra di noi, giunto in una città sconosciuta, rifiuterebbe la possibilità di salire su un punto abbastanza alto, e di guardare, laggiù, il complesso panorama di strade e di edifici, e il movimento incessante di attività umane che vi si svolge? Perché ci sentiamo così curiosi di fare qualcosa cui chi abita da tempo in una città raramente pensa, salvo quando riceve visite? […] È interessante esaminare il rapporto tra una simile visione “divina” della città e la turbolenza della vita nelle strade. Entrambe le prospettive, anche se diverse, sono reali” (Harvey, 1998). Si sale sulla torre, dal basso, per provare lo stupore della complessità urbana, per sentire la limitatezza delle azioni individuali.

Camminare. Poi c’è una forma di conoscenza che attiviamo “camminando”

attraverso le vie, dentro le piazze. È una forma di conoscenza diversa che interpella i sensi, la vista, la percezione. La città è come un grande libro da imparare a leggere, comunica attraverso segnali, simboli, forme, colori, suoni, odori. Camminare per strada insieme ad un bambino o a qualcuno che proviene da un altro paese al quale facciamo visitare la nostra città è un’esperienza che tutti abbiamo fatto e che ci “fa vedere”

con occhi nuovi strade, monumenti, che magari vediamo ogni giorno. I

ragazzi intervistati raccontano con vivacità della sorpresa nel vedere i monumenti di Torino, le piazze, i parchi, la varietà delle vetrine del centro. Immagini che prima si erano formati solo sui racconti di chi li aveva preceduti nel viaggio o attraverso cartoline e film.

Dare nomi alle cose. Il bambino impara a dare nomi agli oggetti, agli spazi della sua casa, per essere in grado di muoversi serenamente nel suo spazio, “perché dei bisogni lo incalzano e perché un mondo lo attrae, il bambino impara a camminare e a parlare, cioè a ridurre le sue distanze dalle cose, a riempire l’angoscioso silenzio che le circonda chiamandole per nome” (Galimberti, 2003, p. 223). Allo stesso modo l’adolescente o l’adulto appena giunto in una nuova città, impara a dare nomi agli spazi esterni per superare l’angoscia di un ambiente anonimo, privo di riferimenti, di spazi conosciuti, di luoghi significativi. Dare nomi ai luoghi è un’attività spontanea allo stesso tempo semplice e complessa di trasformazione di spazi incogniti in spazi famigliari sempre più estesi.

Un appartamento diviene “casa” nel momento in cui non viene più giudicato in termini dimensionali o strutturali, ma viene colorato e modellato sulle persone che lo abitano. Così anche la città diviene “la propria città” solo nel momento in cui lo sguardo esterno, magari curioso ma distante, si trasforma in sguardo che si appropria degli spazi e dei luoghi, li giudica, attribuisce loro un valore, privilegia alcuni aspetti e non altri, sceglie, definisce, crea una mappa per orientarsi. “I luoghi dello spazio, infatti, non si definiscono come posizioni oggettive in rapporto alla posizione oggettiva del nostro corpo, ma iscrivono intorno a noi la portata variabile delle nostre intenzioni e dei nostri gesti. Abitare una casa non significa disporre di un certo numero di metri quadrati, ma ‘avere nelle mani e nelle gambe’ le distanze e le direzioni principali caricate di quell’intenzionalità corporea che fa di uno spazio geometricamente misurabile un dominio famigliare. Il corpo abita la casa perché la casa s’è modellata sulle sue abitudini. L’abitudine è un sapere che è nelle mani, nelle gambe, un sapere che si affida solo allo spazio corporeo, dilatando e facilitando le sue possibilità di abitare il mondo” (Galimberti, 2003 p. 225/226).

I ragazzi imparano in fretta i nomi, sanno dove si può andare a divertirsi, dove si può stare in solitudine e dove in compagnia, sanno dove si spaccia, dove è meglio non andare perché diviene pericoloso; sanno dove c’è una discoteca in cui non possono entrare i ragazzi della propria etnia, sanno dove c’è un parco popolato solo da connazionali o da

“tamarri”; sanno dove è meglio andare solo di giorno e dove si può andare anche di notte. Viene spontaneo dare nome ai luoghi, soprattutto in una città come Torino dove i nomi restano attaccati ai luoghi come una pelle, portatori di immagini, di storie, di paure.

“Pensiamo alla eventualità che i nomi dei luoghi in cui viviamo vengano cancellati dalla nostra ed altrui memoria. Perdiamo la presa su di essi.

Non ci resta che indicarli con tanti “qui” o “là”. Cominciare a nominarli è un’attività di orientamento. È distendere su di essi il nostro linguaggio o riempire di essi il nostro linguaggio. Questa reciprocità ha peso in un mondo in cui la burocrazia non è ancora la dominazione del quotidiano, e il dare nome ad un vicolo non richiede una seduta comunale, ma la registrazione collettiva di un’attività o di una particolarità che ad essa si accoppia nella memoria” (La Cecla, 2005 p. 50).

Nelle interviste emerge una diffusa chiarezza nella conoscenza dei luoghi, sono gli stessi spazi che vengono descritti da ragazzi di paesi diversi; questo fa pensare che esistano dei circuiti entro i quali i ragazzi stranieri imparano a muoversi, in cui intrecciano relazioni coi coetanei, in cui si sentono sicuri o a cui si sentono di appartenere.

Nell’esperienza dell’adolescente e nell’esperienza di chi è arrivato da altrove assume un ruolo fondamentale la leggibilità del mondo circostante, come una lingua, un codice che deve essere appreso per sentirsi a proprio agio nella realtà.

Costruirsi mappe. Tuttavia la città si rende intelligibile solo quando qualcuno ci aiuta a decodificare quel mondo: costruire una mappa della città è una pratica relazionale, un esercizio per collegare persone o gruppi di persone, ambiti di accoglienza (ad es. le associazioni culturali o etniche), luoghi in cui si è attesi, luoghi in cui si può sostare. Il carattere della città di Torino diviene dunque il carattere dei torinesi, i luoghi più belli sono i luoghi in cui si sta bene con gli altri, i luoghi pericolosi quelli conosciuti perché ospitano malavita e delinquenza. In alcuni casi questo atteggiamento porta addirittura a rifiutare la città per se stessa, considerandola come uno spazio anonimo, una città equivalente ad altre città, significativa solo in quanto “involucro” che contiene gli amici più cari, come nelle parole di Caterina, “Per me la città è indifferente, però siccome ho gli amici qua e per me gli amici sono una cosa molto importante, non li lascerei mai” (ragazza cinese di 17 anni, nata in Italia).

L’esperienza dell’orientarsi in un mondo nuovo o per la prima volta, nel tempo della crescita, è dunque sempre e in primo luogo la definizione di mappe, provvisorie e incerte, fatte di luoghi riconoscibili ma soprattutto di persone. “Orientamento, ad esempio, corrisponde per un individuo o un gruppo di individui immigrati da poco in una città, a tutta quella serie di frustrazioni, tentativi a vuoto, conoscenze, attese,

‘prese sulla realtà’, salvagenti, fatti da persone e da luoghi che poi giorno dopo giorno costituiscono una maglia prima elementare – quei due, tre amici, quegli angoli di strada, il bar, forse il giornalaio, i primi approcci informali sul lavoro – e poi, via via, a imbrigliare gli spazi rimasti ancora sconosciuti, a permettere di riconoscerli, partendo e tornando a luoghi più famigliari” (La Cecla, 2005, p. 16-17). Come afferma Danith si tratta sempre di individuare persone che diventano le

“boe” del proprio cammino, “Sì, certo c’erano quei soggetti che ci sono sempre… quelli negativi, che ti stanno antipatici… indipendentemente dalla lingua, non riesci a comunicare con loro. L’importante è trovare le persone giuste” (ragazza peruviana di 17 anni, nata a Trujillo, in Italia dal 2000). La costruzione di mappe che consentono di orientarsi nello spazio, attiene dunque, certamente ad un’esigenza di tipo cognitivo, cominciare a padroneggiare la nebulosità dello spazio attraverso punti di riferimento che consolidiamo attraverso gesti quotidiani, il tragitto per andare a scuola, il percorso che fa il tram che ci conduce al centro commerciale, la distanza con l’oratorio, ma ha anche una forte componente legata ai processi, alle emozioni, agli eventi che ci accadono nello spazio e alle relazioni significative che i ragazzi intrecciano.