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II.3 Sinottica dei valori di una sensibilità in divenire

III.2.3 Camminare senza una meta

Prendere il largo, fare esperienza della strada, della varietà e della mescolanza delle attività che la animano è tuttavia, anche quando può rivelarsi esperienza dolorosa, una dimensione esistenziale che attrae.

Per i ragazzi immigrati l’esperienza della strada assume significati molteplici. Uscire di casa non implica necessariamente avere una meta, raggiungere la casa di qualcuno, un locale, un luogo di aggregazione. Si

esce di casa anche soli, si esce anche solo per uscire, per camminare. La strada, luogo di transito, diviene così luogo di riflessione, di svago o evasione, una modalità di intrattenimento anomala per i torinesi, ma molto diffusa invece tra questi giovani abitanti che attribuiscono alla città nuove forme e funzioni. Uscire per vagare ha anche, a volte, una motivazione economica, non tutti possono permettersi di andare al cinema o comprare dei vestiti, ci si limita così a guardare le vetrine, risparmiando i soldi. “Nessun luogo così composito, esposto, infido come la strada parrebbe poter essere fonte di cura, di raccoglimento e financo di consolazione. Eppure, è oltre il recinto, oltre le stanze, oltre il giardino, oltre il cortile che, mettendoci in cammino (e non solo metaforicamente), possiamo capire di più quel che siamo e vogliamo, che chiediamo a noi stessi” (Demetrio, 2005, p. 31).

Mettersi in cammino consente di entrare in relazione con se stessi, con il proprio mondo interiore, come racconta Irina, come hanno raccontato moltissimi dei ragazzi e delle ragazze intervistati, “a me piace molto uscire, andare da sola, mi piace stare sola, pensare. Non mi piace pensare in realtà ma devo pensare. Esco da sola, le discoteche non mi piacciono. Passeggio in centro da sola e penso. Ho da pensare, te lo dico, perché in due giorni sono stata capace di distruggere una relazione e perdere il lavoro. Mi fa stare male tantissimo e per questo sto pensando. Sto ragionando su di me, su cosa non va bene” (ragazza rumena di 21 anni, nata a Covasna, in Italia dal 2004). Nei momenti di difficoltà, di delusione nell’amicizia o nell’amore vagare per la città, per strade ignote, camminare senza meta può essere fonte di consolazione.

La strada è di tutti, ci passano vecchi e giovani, adulti e bambini;

collega le case dei ricchi alle case dei poveri, i quartieri degradati a quelli d’élite; ospita persone di fretta e persone che vagano lentamente senza una meta, agonisti che fanno footing e carrozzelle di disabili, autoctoni e forestieri… “La strada come palcoscenico su cui presentare, attraverso la facciata delle case, un’immagine di sé e la strada come

‘nastro di scene’ ne hanno fatto un formidabile collante urbano: il luogo per eccellenza dell’unità nella diversità. (...) Così la strada urbana ha svolto una fondamentale funzione educativa; essa ha affermato l’opportunità dell’equilibrio fra diritto all’individualità e ricerca di una identità collettiva; e insieme ha mostrato come ciò richieda regole precise ma anche generosità” (Consonni, 2000, p. 78).

La strada registra le differenze dei corpi, corpi “normalmente torinesi” e corpi stranieri. I ragazzi di seconda generazione portano in giro ed espongono corpi “diversi”, tratti fisici che rimandano ad un altro paese, ad un’altra origine magari presente solo nel DNA e nei racconti dei genitori. Dalle interviste emerge spesso l’esperienza della strada come occasione in cui a parlare sono soprattutto i tratti somatici, sottoposti a sguardi curiosi, a volte indiscreti, a volte diffidenti. Così racconta Angela, “Però essendo cinese (di origine), ci sono persone che giudicano che sei cinese… Ti capita? Sì. Anche persone della tua età? Anche compagni? Anche a scuola. E cosa ti dicono? Dicono che sei cinese… Ti giudicano… Anche per strada ti guardano male, come per dire: cosa ci fa questa qua, qui…” (ragazza cinese di 14 anni, nata in Italia). Così racconta Zhuliang, “quando passeggio sulla strada, ci sono delle persone che mi guardano con occhi strani” (ragazza cinese di 13 anni, nata a Wenzhou, in Italia dal 2001).

La strada sottolinea anche le differenze di genere: l’esperienza del camminare non avviene nello stesso modo per i ragazzi e per le ragazze d’origine immigrata. Come bene descrive Cassano, riprendendo Flaubert, passeggiare di notte per una città è una esperienza tipicamente maschile. “Quelle lunghe passeggiate costituiscono una pagina importante dell’educazione del giovane, un modo di vivere la città che però in quella forma è dato soltanto agli uomini. (…) Queste sensazioni, che provocano improvvisi ‘trasalimenti d’anima’, questa esaltazione ed euforia, questa educazione sentimentale è possibile soltanto ad un uomo. Una donna da sola non potrebbe girare di notte e non riuscirebbe mai a lasciarsi andare, girando senza meta e dietro soltanto al filo dei propri pensieri e dei propri sentimenti. Per lei è possibile vivere la città di notte solo subordinandosi agli uomini, offrendosi o accompagnandosi ad essi: quindi non può conoscere quel girovagare, quel trasalire, quell’affacciarsi libero sulla città addormentata, il contrappunto tra il proprio interno e le strade vuote.

Le donne possono girare da sole ma accompagnate dalla paura. Ci sono spazi e tempi della città che esse non possono conoscere se non a rischio di essere assalite: se violano questi confini spazio temporali l’esperienza più probabile non è quella di conoscere nuovi luoghi e nuove sensazioni ma solo la paura. Quando capita a qualcuna oggi di dovere affrontare brevi tratti di percorso a piedi esistono regole ben precise cui attenersi: camminare, se il marciapiede è troppo stretto, al

centro della strada, se si incrocia qualcuno tenersi ben lontana ed eventualmente cambiare marciapiede, non mostrare mai curiosità e non avere mai comportamenti che possano essere interpretati equivocamente” (Cassano, 2003, p. 65-66).

Ripetutamente le interviste mettono in evidenza questa paura da parte delle ragazze e delle loro famiglie di muoversi in un ambiente spesso sentito come ostile, ancor più quando alcuni dettagli culturali di distinzione sono evidenti (come nel caso del velo per le ragazze musulmane) o legati ai tratti somatici (esperienza comune a ragazzi e ragazze).

Ohara, originaria di Tirana, esprime bene la paura di tornare a casa da sola, “Preferirei vivere in centro, in una zona meno isolata, però lì è bello, c’è il giardino… Poi con il motorino non è neanche un problema.

L’unico casino è la sera, perché non mi fanno uscire col motorino, se lo prendo devo tornare presto oppure devo farmi accompagnare da qualcuno, ma chi vuoi che mi accompagni lassù... Per cui se devo tornare tardi o dormo fuori o mi faccio accompagnare da qualche anima buona. Per me non è un problema tornare da sola, però loro si preoccupano” (ragazza albanese di 17 anni, nata Tirana, in Italia dal 1991).

La città vissuta “al maschile” invece è uno dei temi del best-seller

“Londonstani” di Gautam Malkani, londinese di origine pakistana, secondo cui alcuni ragazzi di origine asiatica per evitare di essere giudicati negativamente a motivo del loro aspetto e del loro comportamento (hanno la pelle scura, non bevono, non si vestono bene, non spendono tanti soldi…) spesso ostentino una identità iper-mascolina in modo da accentuare la l’appartenenza di genere e nascondere l’appartenenza etnica, di status sociale e culturale, più difficile da gestire. “I ragazzi asiatici hanno cominciato ad autosegregarsi. Sono diventati rudeboys, macho, i cui modelli sono rapper neri con la retorica del rispetto, del body building, del materialismo, l’omofobia, la misoginia” (Malkani, 2007).

La strada diviene così luogo d’esposizione dei corpi, radiografa le scelte identitarie dei ragazzi che si possono unire a gruppi omogenei, bande etnicamente connotate, per affermare un’identità ritrovata o creata dal nulla. Oppure possono cercare di occidentalizzarsi il più possibile, di

“bianchizzarsi”, curando anche il minimo dettaglio dell’abbigliamento e

indossando vestiti all’ultima moda, americana o italiana. Alcuni decidono di accentuare la propria appartenenza etnico-religiosa o di esporre anche esteriormente il connubio tra appartenenze culturali differenti come il velo e il piercing, per le ragazze musulmane.

Camminare senza una meta diventa dunque un modo, quotidiano, per orientare la propria giovane età verso una definizione di sé, personale o convenzionale.