III.4 Geografie della vita quotidiana
III.4.5 Paula e Mario. Legami e distanze
Paula e Mario sono fratelli cresciuti a distanza che hanno dovuto iniziare in tempi e con modalità molto diverse il proprio percorso di integrazione nella città. Paula vi è arrivata bambina e alcune agenzie educative hanno costituito un punto significativo tra la famiglia e il gruppo di amici italiani. Mario è arrivato dopo molti anni, ormai cresciuto. Ripercorre la strada della sorella ma le condizioni di partenza e le forme del suo disagio sono più accentuate.
Mario ha diciotto anni, è arrivato da Lima nel 2005, parla un italiano stentato con un forte accento latino americano, potendo scegliere preferisce esprimersi in spagnolo. Sua madre è giunta in Italia nel 1996 per lavorare e contribuire così al mantenimento della famiglia: pensava di fermarsi per uno o due anni, superare un momento difficile della sua vita e poi ritornare in Perù, ma “la distanza ha allontanato ancora di più i miei genitori, che litigavano sempre. Io, mio padre e mia sorella che era piccola vivevamo insieme a Lima, ma dopo un anno, quando mia mamma si era sistemata, è tornata e si è portata via mia sorella qui a Torino”. Poi ha incontrato un uomo italiano e sono andati a vivere con Paula; Mario invece ha continuato a crescere in Perù, col padre e la famiglia allargata. “Io sentivo mia madre al telefono, ma ogni volta mi sembrava più lontana, in un altro mondo, mi raccontava di Torino e mi diceva che potevo venire quando volevo”.
Finite le scuole Mario ha deciso di venire in Italia, per trovare nuove opportunità di vita. A Lima per i ragazzi è difficile studiare, ma anche trovare un lavoro. La delinquenza è dilagante, così come la droga, è quasi impossibile non entrare in circoli viziosi. Così Mario è partito per l’Italia: in dieci anni aveva visto sua mamma tre volte e quando è arrivato qui per lui era praticamente una sconosciuta. All’impatto con un nuovo mondo si somma anche quello con una nuova famiglia: “in casa sto il meno possibile, mi sembra così strano... Non mi sento bene a casa”.
Per una madre è naturale conservare il legame con il proprio figlio, anche quando anni e chilometri li separano; Mario invece sembra spaesato, come un ragazzo adottivo che deve ricostruire i suoi legami affettivi, le sue certezze, i suoi spazi di movimento e azione. Con Paula non va d’accordo, non si sente legato, perché sono cresciuti in due mondi lontani e forse, soprattutto, perché le loro storie sono troppo diverse e intrecciate. Paula è stata scelta per essere portata in Italia,
mentre Mario è rimasto in Perù per tutti gli anni della sua infanzia. La città di Torino non gli piace, “non ha niente di buono, la gente alle sette di sera fa silenzio, non fa niente. Nella mia città le persone si incontrano per strada, almeno fino a mezzanotte! Qui c’è troppa calma, non mi piace per niente”. Se Paula si muove con disinvoltura nella sua città, Mario è un ragazzo sospeso fra due mondi entrambi distanti: non può tornare indietro e fatica ad andare avanti.
Ritrovarsi nel monastero
Paula è cresciuta qui, ha sedici anni e della sua vita in Perù ricorda poco, anche se è tornata per visitare il padre, il fratello e i nonni due estati fa per la prima volta. La sua percezione del Perù è quindi molto diversa da quella di Mario che si sente legato a questa terra. Per Paula l’interesse per il Perù è un interesse teorico, una sorta di orgoglio per le radici della sua famiglia più che un’idea chiara e concreta del paese d’origine.
Studia e ha tanti interessi tra cui la pallavolo e il ballo. Da pochi mesi frequenta un’associazione peruviana nel monastero di via Cumiana a due passi da casa, a Borgo San Paolo. “Di solito veniamo la domenica, tutti insieme… ci sono quelli che giocano a calcio, quelli che giocano a pallavolo… e poi sotto si va a ballare, si può mangiare tutti insieme, soprattutto peruviani ma anche marocchini, albanesi e rumeni”. Fino a due anni fa abitava in centro in via Garibaldi, nella casa del compagno della madre che era diventata troppo piccola. La casa di Borgo San Paolo è più grande ed ha una stanza anche per Mario. “Con le mie compagne di scuola in centro mi trovavo bene, erano molto aperte. Qui invece, forse perchè faccio fatica io, ma le mie compagne stanno più sulle loro, non ci vediamo fuori da scuola, i miei amici li incontro al convento e all’associazione”.
Il convento di via Cumiana rappresenta un punto fermo nella vita del quartiere e nella geografia della comunità peruviana di Torino, come il parco della Pellerina e il parco Ruffini, i ristoranti e i negozi sparsi un po’ in tutti i quartieri ed in particolare a San Salvario e a Borgo San Paolo. È sede dell’Associazione Latinoamericana, che promuove svariate iniziative e i ragazzi peruviani si ritrovano per passare parte il tempo libero. Qui si incontrano anche gruppi folkloristici come il Mi Tierra e il gruppo Nuova Generazione, per provare spettacoli e canzoni.
La domenica il cortile del monastero si anima, di banchetti, di danze e di musica, è un luogo di ritrovo più sicuro e più tranquillo del parco, più
adatto ai bambini, che possono giocare indisturbati, e dove accanto al piacere dello stare insieme giocano un ruolo fondamentale anche le tradizioni condivise.
L’oratorio e il convento di via Cumiana assumono la funzione di anello di congiunzione tra l’esperienza privata della casa, quella semi-privata del cortile e l’esperienza della città coi luoghi pubblici di svago, quali il cinema, il bowling, la pizzeria e il pub. Forse per questo è molto amato da Paula, una terra di passaggio, nel tempo della crescita.
Borgo San Paolo: la dimensione del vicinato
San Paolo ha ancora il sapore del borgo e ha ancora l’ardire di definirsi tale. Paula lo sta conoscendo poco a poco, il cortile di casa non ha più misteri, ma ha ormai perso per lei ogni interesse. La sua via la conosce bene e anche i negozi peruviani, la parrocchia, il tragitto da casa a scuola, le case delle amiche, i giardinetti vicino a casa, il parco Ruffini dove i compagni di scuola giocano a calcio tutti i pomeriggi. Del suo quartiere le piace il silenzio delle vie laterali, sentire il rumore dei passi, ma anche la varietà dei suoi abitanti, i suoi vicini di casa che ha cominciato a conoscere. Ci sono molti anziani e molti immigrati nel quartiere, ma non ci sono problemi. Forse anche in questo caso la natura operaia del quartiere, la sua storia di convivenza contribuisce a smorzare gli attriti inevitabili, le molte forme di malintesi e di conflitti che si creano nella coabitazione di popolazioni differenti.
Anche il borgo San Paolo ha una profonda identità operaia. È quartiere d’immigrazione, è anch’esso una barriera, un borgo fuori porta, dove a partire dalla seconda metà dell’Ottocento si sono sviluppate le prime industrie torinesi. Negli anni Venti dal nulla il quartiere ha superato i ventimila abitanti, quasi tutti operai e impiegati nelle fabbriche del quartiere. È l’altra Torino, quelle delle prime migrazioni dalla campagna, e solo dopo dal meridione. Prima e dopo la guerra era un quartiere povero, estremamente popolare, dove gli ambienti delle corti e quelle delle strade erano un tutt’uno. I ragazzi delle prime migrazioni, i figli degli operai vivevano il quartiere come uno spazio di gioco, senza confini e barriere, ringhiere, cortili, androni e le strade prive di macchine, deserte durante le ore di lavoro e affollate ai cambi di turno.
La comune povertà e il ritmo quotidiano del lavoro e della fabbrica costituivano il collante di un quartiere che continuava a nominarsi come borgo. Oggi le fabbriche non ci sono più, sono chiuse o andate
altrove, le enormi lettere sul palazzo degli uffici della Lancia sono state tolte perché pericolanti, gli operai, precocemente pensionati, guardano con malinconia e attesa il loro quartiere che cambia lentamente. Il cambiamento arriva e ha molte facce. Una più eclatante investe i margini del quartiere. L’interramento della ferrovia e la realizzazione della spina centrale, l’ampliamento del Politecnico. Ma la metamorfosi del quartiere, quella forma di trasformazione meno visibile, dall’interno, quella che non si manifesta in uno stravolgimento delle forme, ma in una lenta trasformazione sociale e degli usi, ha come cuore le vecchie case operaie. Corti, ringhiere, facciate che lasciano intravedere la storica povertà negli intonaci, fanno il fascino discreto di questo quartiere, fatto di case vecchie e ancora poco appetibili dal mercato. La riqualificazione urbana non ha ancora innescato il processo di valorizzazione immobiliare, o quanto meno i suoi effetti non sono ancora evidenti.
Gli stranieri sono diventati, da alcuni anni, i nuovi inquilini delle case operaie. Per la particolarità del contesto, la sua identità popolare, ma anche per la natura delle sue case, il quartiere rappresenta un’opportunità accessibile. Anche per questo Paula e la sua famiglia abitano qui. Le strade non sono forse più luoghi di gioco per i ragazzi del quartiere, lo spazio dell’incontro si è ristretto, si è polarizzato negli interni, negli spazi protetti e nei grandi parchi, nella scuola.
La scuola come spazio di relazioni
La scuola insieme alla casa è il primo spazio fisico in cui i ragazzi incontrano la città. Una porta sulla realtà, un ambito che genera riferimenti spaziali e possibilità di esplorazioni nel contesto del quartiere. Il percorso fra casa e scuola segna solitamente il passaggio all’indipendenza del bambino: gli spazi attorno alla casa e attorno alla scuola sono quelli più conosciuti e più frequentati, quelli in cui si muovono i primi passi verso una esperienza autonoma e personale della città.
Paula ha fatto tutto il suo percorso scolastico a Torino, dalle scuole elementari alle superiori, e attualmente frequenta un istituto turistico commerciale. Le piacerebbe lavorare nel campo del turismo, fare e organizzare viaggi, poter vedere il mondo oppure lavorare semplicemente in una agenzia turistica a Torino. La scuola per lei, così come per i ragazzi stranieri arrivati in Italia molto piccoli, ha
rappresentato il principale luogo di integrazione, non solo culturale e linguistico, ma soprattutto sociale. I compagni di classe, gli insegnanti e, quando presenti, i mediatori culturali sono dopo la famiglia le persone con cui il bambino si relaziona più direttamente, nel nuovo contesto.
È nella scuola che il bambino prende confidenza con la diversità del nuovo mondo in cui vive, ma è nella scuola che si registrano anche dinamiche perverse di gruppo che possono sfociare in episodi di razzismo o di violenza. L’essere o il sentirsi osservati, il dover emergere ed affrancarsi rispetto agli stereotipi e agli atteggiamenti di esclusione del diverso, rappresentano una sfida quotidiana, una palestra di integrazione, mediata dalla struttura e dall’istituzione scolastica, con le sue regole e strutture educative. Nei racconti dei ragazzi ed anche in quello di Paula sono ricorrenti i rimandi ai momenti di passaggio, in cui non è scontato riuscire a ricostruirsi una propria immagine, un proprio ruolo nella nuova classe in cui si viene inseriti. Paula racconta ad esempio che avere un cognome straniero a scuola può costituire un problema che si ripropone tutte le volte che si fa l’appello. “Quando ho cambiato scuola alle medie il primo giorno ero rimasta lì, senza sapere dove andare. Poi mi hanno accompagnato classe per classe a vedere se c’era il mio nome… e io mi vergognavo. Abbiamo trovato la mia classe e già tutti erano seduti… e io sono entrata facendo la scena che si vede (nei film) della ragazza nuova che arriva e tutti la guardano”. La storia di Paula è una storia piuttosto felice, la disinvoltura con cui racconta la sua vita nella città dà l’idea di un percorso positivo di integrazione che anche a scuola le ha permesso di vivere con serenità la sua identità e le sue origini. Non è così per tutti i ragazzi di origine straniera nati o cresciuti nelle scuole torinesi. La scuola può diventare il luogo in cui si accentuano le differenze, lo specchio di una società razzista e ingiusta, l’espressione del disagio che accompagna la crescita di molti ragazzi, specialmente in alcuni quartieri. È di poche settimane fa la notizia del suicidio di un ragazzino torinese di origine filippina: era il più bravo della classe, lodato e apprezzato dagli insegnanti, ma non è riuscito a sopportare le pressioni dei compagni di classe che lo avevano preso di mira a motivo della sua vera o presunta omosessualità, a motivo forse delle sue origini diverse.
Mario è arrivato a Torino che aveva già finito la scuola superiore e racconta che il primo anno è stato molto difficile per lui. La pesantezza
dello stare in casa e l’assenza di altri luoghi, di altri contesti in cui orientarsi, di altre porte di ingresso alla città. La ricerca di un lavoro, il girovagare per la città, in cerca di uno spazio in cui collocarsi quando spesso è la scuola a creare l’opportunità di una compagnia, di un gruppo di amici. “Ero andato via da un posto dove non sapevo cosa fare e mi sono ritrovato in un altro posto uguale”. La decisione di iscriversi ad un corso di italiano per stranieri, un corso serale, tre sere alla settimana presso una scuola del quartiere ha costituito per Mario una svolta. “Ha insistito mia madre, ha detto che se non avessi fatto il corso non mi avrebbe più tenuto in casa a fare nulla”. Tornare a scuola è stato per Mario una opportunità per ripensare a quello che voleva fare, ma anche un luogo in cui incontrare altri giovani stranieri, parlare e condividere i problemi, uscire da una situazione di sospensione.
“Adesso ho qualche amico con cui uscire. C’è anche un ragazzo peruviano che ha due anni più di me e lavora. Con lui mi vedo spesso, adesso sta cercando di comprare un furgone e fare una piccola impresa di trasporti e mi ha detto che se voglio lo posso aiutare”. Mario non ha ancora deciso cosa farà, se lavorare e studiare, se cogliere questa occasione o aspettare, ma comincia a intravedere anche per sè una collocazione dentro la realtà torinese.