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Oltre il paradigma dell’adattamento

Alle seconde generazioni dell’immigrazione è presto chiara quell’impasse esperienziale che il sociologo Franco Cassano ha definito

“la consapevolezza che ogni tentativo di proiettarci nell’altro non ci fa mai uscire da noi stessi: per quanto si possa trasmigrare in un altro corpo, in un’altra anima, in un altro punto di vista, alla fine proprio per rispetto all’irriducibile alterità dell’altro anche lo sforzo più fantasioso e generoso non potrà che apparire che una stazione del nostro interno”

(Cassano, 1989/2003). Il primo sforzo è quello di ricostruirsi come soggetto dialogante con un ambiente sociale radicalmente nuovo, un altrove che si è costretti a fare proprio e che spesso comprende anche i propri genitori, con i quali, proprio in conseguenza della scelta migratoria, magari non si è potuta condividere che qualche frazione della propria infanzia e adolescenza. Ma la fatica – e la sfida – ulteriore è quella di veicolare questa nuova soggettività all’interno di relazioni in cui si possa comunicare in un clima di riconoscimento e rispetto reciproci, non soltanto nella sfera dei legami forti, ma anche – e forse

9 È ancora attuale e pregnante al riguardo la lucida analisi di Alessandro Dal Lago (Dal Lago, 1999): in Italia – come del resto in molti altri paesi europei – la macchina riproduttrice dell’immaginario collettivo si alimenta soprattutto di paure e finisce con il rafforzare implicitamente (quando non esplicitamente) processi di stigmatizzazione sociale.

soprattutto – in quella dei legami deboli. Quest’ultima aspirazione implica però anche la capacità, da parte della società nel suo complesso, di coltivare attivamente il terreno perché possano realizzarsi questi percorsi di avvicinamento e di identificazione in un corpo sociale di cui ci si sente parte riconosciuta: un processo in cui entrano in gioco politiche attive di inclusione, una precisa assunzione di responsabilità in tal senso da parte dei mass media, prassi educative aperte alla dialettica interculturale nelle principali agenzie di socializzazione ecc.

Ma nel quotidiano il ruolo chiave lo giocano le scelte e i comportamenti dei singoli individui, o meglio, parafrasando ancora Cassano, la loro capacità di approssimazione. Nell’accezione del termine che proponiamo in questa analisi, l’approssimarsi è un processo di attiva – benché non sempre consapevole – erosione del proprio etnocentrismo per avvicinarsi empaticamente all’altro, facendone propri atteggiamenti e codici espressivi, costruendo un certo grado di identità condivisa, o meglio: coltivando – cammin facendo10 - una consapevolezza sempre maggiore degli elementi che caratterizzano dissonanze e consonanze tra la propria esperienza e quella di un “altro” che si giunge a comprendere, al quale si può voler o meno assomigliare, ma che non si potrà mai essere: per quanto intima si faccia la relazione, “io non sono il mio prossimo”. Posso però conoscerne e comprenderne gesti, parole, sentimenti, valori, aspirazioni, e riconoscerle come legittima parte integrante di un ambiente di vita che condivido, con cui convivo, a cui sento anch’io di appartenere.

10 Il riferimento qui è alla geniale riflessione del sinologo e filosofo francese François Jullien sulla tensione filosofica che scaturisce dal confronto dialettico tra alcune idee portanti del pensiero occidentale (essenzialmente quelle riconducibili alla sua matrice greca) e del pensiero cinese. Nella visione di Jullien la percezione dell’alterità (riferita a un concetto filosofico, ma anche all’universo culturale da cui trae origine) si costruisce, la si elabora “a partire dal dispositivo riflessivo instaurato tra la Cina e l’Europa, inanellato maglia dopo maglia, cammin facendo, non a partire da posizioni di principio (Jullien, 2007, p. 81) fissate a priori. Se l’esteriorità, “ l’altrove” rappresentato dalla tradizione filosofica cinese rispetto a quella greca rappresenta un dato di fatto, “l’altro, lo si sa almeno fin dal Sofista di Platone, è lo strumento di una grammatica filosofica;

esso è lo strumento necessario per qualsivoglia elaborazione dialettica. (…) L’altrove lo si constata, mentre l’alterità, se un’alterità esiste, è da costruire, e lo si fa portando avanti una operazione di riflessione – riflessione senso proprio del termine – tra i due campi considerati. È a questa costruzione progressiva dell’alterità che mi sono dedicato” (Jullien, 2007, p. 86, corsivo dell’autore, traduzione di D. Cologna)

Cassano proponeva l’approssimazione come esercizio filosofico e necessità etica. Per i giovani immigrati che non sono nati in Italia (il riferimento è dunque alle cosiddette generazioni 1,75 - 1,5 - 1,25), costretti a misurarsi con un altro da sé che è soprattutto11 socio-culturalmente ed economicamente maggioranza dominante, si tratta invece, da un lato, di una indispensabile strategia di adattamento al nuovo contesto; dall’altro, di una sorta di sfida che ci si assume anche in virtù di una propria di appartenenza e, perché no, di riscatto da una condizione minoritaria che può anche essere percepita come costrittiva.

L’adattamento al nuovo contesto può anche dipanarsi all’interno di percorsi di “assimilazione verso il basso” (downward assimilation, cfr.

Portes, 1995), che spesso si caratterizzano per un certo grado di esclusione – quando non di segregazione – sociale e generalmente segnalano una incapacità/impossibilità di rapporto con tutti i principali universi espressivi con cui sono chiamati a misurarsi. Famiglia, scuola, lavoro, ma anche il contesto più ampio del proprio ambiente di vita: la città e i suoi spazi pubblici, i suoi servizi, i suoi negozi – ciascuno di questi ambienti richiede conoscenze e competenze specifiche per essere compreso ed agito, una dimestichezza comportamentale oltre che linguistica, ed esprime aspettative implicite cui non sempre il giovane immigrato è in grado ottemperare.

Ma anche quando non ci si vede forzati a ripiegare sul famigliare o sull’immediatamente accessibile, anche se si riesce ad elaborare un proprio percorso, capace di veicolare un certo grado di accettazione e di riconoscimento sociale, con o senza il sostegno dei propri famigliari o connazionali, che si segua o meno la “carriera migratoria” che ha caratterizzato l’esperienza dei propri genitori, non lo si fa necessariamente in virtù di una propria volizione, ma perché quel percorso sembra essere l’unico praticabile, date certe condizioni di partenza. Sociologi delle migrazioni influenti come Alejandro Portes e Rubén Rumbaut hanno mutuato all’economia il concetto di path dependency proprio per illustrare la ricorrenza di “percorsi tipo” (cfr.

Portes, 1995, Portes e Rumbaut, 1996, 2001a, 2001b), condizionati dal concatenarsi di determinati fattori chiave (condizione economica ed

11 Ma non completamente: l’altro da sé con cui i giovani immigrati sono chiamati a misurarsi non è solo l’italiano, ma anche il coetaneo o compagno di classe straniero di altra provenienza.

estrazione sociale dei genitori, spessore dei legami comunitari etnici, immagine sociale, statuto giuridico dello straniero, successo scolastico, ecc.), nell’evoluzione delle biografie dei figli degli immigrati di prima generazione e spiegarne la forte variabilità. Al cuore della teoria della

“assimilazione segmentata” (segmented assimilation) stanno dunque essenzialmente fattori che tratteggiano lo schizzo di un orizzonte possibile per le seconde generazioni, a fronte dell’imperativo sociale di conformarsi a un presente dato, sul quale si ha poca possibilità di agire.

Ora, cercando di intercettare la propensione ad approssimarsi dei giovani immigrati si vuole tentare di sondare il potenziale di cui i ragazzi nati o cresciuti in emigrazione dispongono per poter trascendere almeno i limiti simbolici posti al proprio presente e al proprio futuro dalle difficoltà di rapporto con le loro molteplici sfere di relazione e di appartenenza cui possono accedere proprio in virtù del loro essere figli di immigrati.

Questo potenziale, per poter essere espresso pienamente, richiede qualcosa di più dell’adattamento. Occorre piuttosto una pulsione positiva all’acculturazione, un moto verso l’altro motivato intrinsecamente, che muove dall’acquisizione e dal mantenimento di abilità comunicative plurime, dalla scoperta dell’impraticabilità, per sé, di un’integrazione il cui prezzo è la potatura drastica di alcuni rami portanti del proprio esistere a spese di quelli nuovi e “necessari”. Todorov – e con lui altri autori che hanno voluto trattare questa delicata materia12 - sostiene che

12 Amin Maalouf, Abdelmalek Sayad, Walter Benn Michaels offrono al riguardo della coesistenza interiore di più voci e delle conseguenze di un loro sovrapporsi o alternarsi lungo il corso di vita prospettive diverse ma complementari, tutte egualmente lucide e preziose. Maalouf sottolinea come l’appartenenza a un dato gruppo non sia ascritta alla nascita, ma venga determinata essenzialmente dal modo in cui una persona reagisce all’influenza altrui: “l’influenza dei ‘vicini’ – genitori, compatrioti, correligionari – che cercano di farla propria, e l’influenza di ‘quelli di fronte’, che si danno da fare per escluderla. Ognuno di noi”, scrive Maalouf (Maalouf, 1998/2005), “deve aprirsi un cammino fra le strade su cui viene spinto e quelle che gli sono vietate o che gli vengono disseminate d’insidie; non è subito se stesso, non si limita a ‘prendere coscienza’ di ciò che è, diventa cio che è; non si limita a “prendere coscienza” della propria identità, la acquisisce passo passo ” (corsivo nostro). Sayad, ricostruendo le vicende dell’emigrazione algerina, narra il travaglio interiore dei migranti di prima generazione che, in ogni occasione di temporaneo soggiorno in Algeria, si trovano costretti a far fronte alle contraddizioni interiori di cui sono espressione vivente: chi è rimasto in patria rinfaccia loro la crescente incapacità di comportarsi secondo gli usi e costumi locali, di non educare i figli (nati in Francia) come si conviene, insomma di non essere

“perdendo la sua cultura d’origine l’individuo non vive una tragedia solo a patto che ne acquisisca un’altra: avere una lingua è costitutivo della nostra umanità, non già avere quella lingua piuttosto che un’altra”.

Questo però è vero solo nella misura appropriarci di una nuova lingua e di un senso di appartenenza a una sfera culturale acquisita ci permette di interagire efficacemente con il nostro mondo, tutto il nostro mondo. Il semplice registro dell’adattamento, non basta a dar conto dello sforzo necessario per conservare percorribili tutte le rotte del proprio periplo esperienziale: l’esule e il migrante di prima generazione, specie quello che finisce con l’accettare la prospettiva del non-ritorno (e sono la maggioranza) possono anche accontentarsi di un livello d’acculturazione al nuovo contesto limitato alla mera funzionalità utilitaristica. Adattandosi al proprio contesto di immigrazione, i migranti di prima generazione possono anche non porsi l’obiettivo di comprenderlo: non sono infatti chiamati – né necessariamente si sentono motivati autotelicamente – a sviluppare un senso di appartenenza per tale contesto. Implicitamente viene richiesto loro di rispettarne le leggi, di non contraddirne i valori, di non violare gli usi e i costumi dominanti, di disporre di una competenza linguistica sufficiente per lavorarvi e per interagire con la burocrazia delle sue istituzioni di

più degli “algerini veri”. Al ritorno in Francia ci si sente così nuovamente “persi, turbati, demoralizzati”, incapaci di riordinare e far coesistere in armonia il proprio sé in emigrazione con quello delle proprie origini, di un universo affettivo e simbolico ancora vivo e presente nel quale ad ogni ulteriore soggiorno-pellegrinaggio al paese d’origine ci si vorrebbe specchiare, solo per accorgersi di quanto l’immagine riflessa ci appaia distorta e confusa (Sayad, 1991/1997). Benn Michaels, infine, è assai critico nei confronti delle posizioni di coloro che vedono nelle società multiculturali una minaccia a “identità culturali” da preservare, a suo parere tale dibattito è solo una cortina fumogena: agitare lo spettro della crisi identitaria servirebbe infatti essenzialmente a distogliere l’opinione pubblica dal ben più urgente e necessario dibattito sulla crescente ineguaglianza economica all’interno delle società occidentali (il riferimento è primariamente agli Stati Uniti d’America). Egli sostiene invece che “nessuna lingua è meglio di un’altra” e “qualunque sia quella che la gente finisce per utilizzare, essa varrà quanto quella che utilizzavano i propri antenati”, fintanto cioè che essa è in grado di assolvere alla propria funzione, che è quella di permettere alle persone di esprimersi e comunicare. Mentre “la scomparsa delle lingue è un crimine senza vittime”, la sperequazione economica produce vittime reali. In questa prospettiva preoccuparsi della preservazione dell’identità culturale degli immigrati è un lusso, mentre la loro esclusione sociale e le discriminazioni sul mercato del lavoro e della casa cui sono soggetti rappresentano questioni assai più urgenti (Benn Michaels, 2006).

controllo e di servizio... ma non di eleggere questo nuovo ambito di vita a propria “nuova patria”, non di partecipare alla sua società civile e politica, non di considerarsi a pieno titolo “cittadini in formazione” e di contemplare l’acquisizione della cittadinanza come esito normale della propria esperienza di insediamento stabile in Italia. Nell’immaginario del nostro paese, dove l’incidenza dell’immigrazione straniera supera quella dell’emigrazione italiana da venticinque anni, gli immigrati sono essenzialmente considerati Gastarbeiter, gente ospitata sul suolo patrio per motivi di lavoro. Solo da qualche anno comincia ad aver corso corrente anche al di fuori della ristretta cerchia di chi a vario titolo si confronta professionalmente con l’immigrazione straniera (nel terzo settore, nella scuola, nei servizi, ecc.) anche una retorica del radicamento, dell’inclusione nel corpo sociale veicolata dai figli, “i nuovi italiani”.

È evidente come un regime di adattamento puramente strumentale ed essenzialmente specchio delle esigenze della società dominante come quello sopra descritto per i genitori possa essere giudicato inadeguato da parte dei figli: perfino i giovani nati in Italia, ossia la seconda generazione propriamente detta, quelli per cui l’assimilazione culturale e linguistica è spesso un destino certo, rivendicano presto o tardi come un valore importante la capacità di mantenere vivo un rapporto con l’universo dei genitori e dei nonni che non sia solo mediato dagli affetti, ma di cui possano comprendere il senso e con cui possano dialogare.

Quando questo rapporto si asciuga, se aumenta cioè l’incomunicabilità tra le generazioni, poi non si sa come trovare vie di sfogo per un disagio crescente, a cui si fatica a dare un nome: si possono tentare recuperi tardivi di una propria tradizione, vera o supposta che sia, magari reificandone alcuni aspetti (si pensi al fervore religioso di molti figli e nipoti d’immigrati musulmani in diverse società europee, ai viaggi alla

“riscoperta delle radici” nei paesi d’origine dei genitori dei giovani cinesi, all’adesione alla black culture di matrice angloamericana e caraibica da parte di figli di africani neri ecc.), o viceversa si può giungere a rifiutare in modo netto questo retaggio “scomodo”, perché fonte inesauribile del senso della propria estraneità al contesto dominante, nonché progressivamente inaccessibile. Beninteso, tra questi due estremi esistono infinite modulazioni, ma il disagio di cui sono i poli d’espressione opposti è reale.

Questo disagio è importante, ha delle conseguenze per la società all’interno della quale questi giovani crescono? Se si desidera vedere nei giovani figli dell’immigrazione dei “nuovi italiani”, persone partecipi (e cittadini di fatto, se non giuridicamente) del paese in cui sono nati e/o cresciuti, certamente sì. Questa partecipazione auspicata, spesso data perfino per scontata, non si sviluppa senza un’ispessimento e una dilatazione del propria sfera delle appartenenze, tale da riuscire a includere anche una società tuttora piuttosto propensa a escludere - o comunque a guardare con un certo sospetto - le componenti nuove della propria popolazione apportate dai movimenti migratori internazionali degli ultimi trent’anni. L’integrazione della società, quando al suo interno cresce il pluralismo culturale, non è mai un destino: non è qualcosa che “va da sé”, ma è piuttosto il portato di scelte individuali e collettive consapevoli.

È in questo senso che si rivela preziosa la prospettiva dell’approssimazione. Pur senza farsi illusioni rispetto a quanto tale processo sia in buona misura eterodiretto, qualcosa dunque a cui si è in certa misura costretti in un ambiente in cui le agenzie di socializzazione sposano – implicitamente, quando non espressamente – un modello di integrazione sociale assimilazionista, è opportuno sottolineare come per i ragazzi esso possa anche essere vissuto come pulsione autotelica, spinta cioè da una motivazione interiore, un desiderio di conoscenza, esplorazione e “messa alla prova” di se stessi in un contesto di cui non si dominano ancora appieno i connotati espressivi. A modulare i termini e i modi di quest’appartenenza dialogante, costantemente in fieri, che si declina in modo complesso in più direzioni (il proprio ambiente famigliare, il rapporto con i pari, la società locale e quella nazionale, il proprio rapporto con il paese di origine) sono esperienze e orientamenti che variano di individuo in individuo, condizionati a loro volta da esperienze collettive cui si partecipa o in cui si è coinvolti proprio malgrado (a partire dalla scelta stessa di emigrare, maturata dai genitori, ma non sempre condivisa dai loro figli). Se è vero che il processo di approssimazione rappresenta una necessità e una sfida soprattutto per i ragazzi immigrati in Italia a seguito di ricongiungimenti famigliari, esso appartiene però anche al vissuto di chi in Italia e a Torino ci è nato: in questo caso un registro plurale dell’esperienza si perpetua infatti nella tensione tra l’ambito famigliare e quello extrafamigliare.

Fare luce sulle risorse cui l’individuo può attingere per liberare il proprio potenziale d’approssimazione e rendere concretamente praticabile lo sviluppo di appartenenze plurime assume dunque un’importanza cruciale. Pur trattandosi di un processo autotelico, che muove da una commistione di urgenza (di rispondere alle sollecitazioni di una sfera di relazioni culturalmente e linguisticamente complessa) e desiderio (di capire meglio il mondo in cui si vive, di appartenere a pieno titolo ai gruppi di persone in cui ci si riconosce, al di là delle appartenenze ascritte o prescritte), è anche vero che per dispiegarsi necessita di alcune risorse chiave. La disponibilità di alcune di queste risorse chiave può essere desunta dai dati raccolti sul campo. Premesso che la consapevolezza dei ricercatori nei confronti del potenziale d’approssimazione è nata in corso d’opera, man mano che si rendevano accessibili i dati quantitativi e qualitativi del lavoro sul campo, si è cercato, a partire degli esiti di tale lavoro (e dunque scontando anche le limitazioni di questionari e tracce d’intervista che avevano carattere esplorativo, non focalizzato su tutti gli aspetti salienti del concetto sviluppato in sede di analisi dei dati) di elaborare un’indice che potesse fornire indicazioni sulla misura in cui tale potenziale fosse presente nei giovani oggetto della rilevazione nelle scuole torinesi.

Per la costruzione di questo indice, abbiamo tratto ispirazione dall’indice di adattamento sviluppato da Emilio Gregori e Daniele Cologna nell’ambito di una ricerca sui giovani immigrati in Alto Adige condotta dalla società di ricerca Synergia nel 2005 (Osservatorio provinciale sulle immigrazioni della Provincia Autonoma di Bolzano, 2006), introducendo però dimensioni ulteriori e criteri che potessero

“premiare” la capacità di un individuo di approssimarsi a una pluralità di contesti relazionali, non soltanto a quello italiano. Così, se il citato indice di adattamento assegnava generalmente un punteggio elevato ai giovani nati in Italia, in virtù della loro buona capacità di rapportarsi alla società italiana, l’indice di approssimazione delinea un quadro diverso: se in un giovane nato in Italia la buona competenza linguistica, l’alto livello di gradimento espresso nei confronti del proprio ambiente di vita torinese, l’intensa socialità con i coetanei italiani si manifestano a discapito della propria capacità di parlare la lingua dei genitori, di intrattenere rapporti di amicizia con coetanei del medesimo gruppo nazionale d’origine, allora l’indice di approssimazione gli assegnerà un punteggio inferiore a quello che assegnerebbe a un giovane

appartenente alla medesima classe generazionale, ma che è in grado di parlare sia l’italiano che la lingua dei genitori e passa il suo tempo libero sia con amici italiani che con amici di origine straniera. Vedremo che questo profilo si adatta più facilmente ai giovani di generazione 1,5 che a quelli nati in Italia.

Per costruire il nuovo indice si sono utilizzate alcune delle variabili già presenti nel dataset della rilevazione operata nelle scuole torinesi, ricodificandole opportunamente, a partire dalle quali si sono creati degli indici intermedi. Questi ultimi sono stati successivamente rielaborati per ottenere l’indice di approssimazione vero e proprio. Il criterio guida è stato sempre quello di valorizzare la duttilità relazionale, privilegiando per esempio la poliglossia o la capacità di socializzare con coetanei di diversi gruppi nazionali d’origine13. Considerato il numero piuttosto elevato di indici intermedi che si sono ottenuti dalle variabili tratte dalle domande del questionario somministrato nelle scuole, si

Per costruire il nuovo indice si sono utilizzate alcune delle variabili già presenti nel dataset della rilevazione operata nelle scuole torinesi, ricodificandole opportunamente, a partire dalle quali si sono creati degli indici intermedi. Questi ultimi sono stati successivamente rielaborati per ottenere l’indice di approssimazione vero e proprio. Il criterio guida è stato sempre quello di valorizzare la duttilità relazionale, privilegiando per esempio la poliglossia o la capacità di socializzare con coetanei di diversi gruppi nazionali d’origine13. Considerato il numero piuttosto elevato di indici intermedi che si sono ottenuti dalle variabili tratte dalle domande del questionario somministrato nelle scuole, si