democrazia: partecipazione e politica ai tempi dell’anti-politica
3. uniti per che cosa? Le dimensioni culturali dell’esperienza associativa
3.3 L’attivismo critico
Il secondo gruppo di intervistati è alquanto consistente: quasi un terzo del campione (28,0% – tab. 3.3). Questo ampio strato di cittadini ritiene che l’associazionismo sia una leva che, a certe condizioni, può trasformare la realtà sociale. Dietro a tale convinzio-ne non è difficile scorgere la storia di questi associati: persoconvinzio-ne abituate a mobilitarsi nell’agone della politica per combattere contro il volto iniquo della società. Per tale ragione non è improprio parlare di attivismo critico.
Il protagonismo civico di questi italiani emerge con chiarezza dai dati raccolti nella ricerca; il 61,8% (+23,3% rispetto al totale del campione) dichiara, infatti, di essersi impegnato negli ultimi dodici mesi in una o più delle seguenti forme di partecipazione politica: firma di petizioni o adesione a referendum; coinvolgimento in una campagna elettorale; segnalazione alle autorità competenti di problemi riguardanti il proprio quar-tiere o città; partecipazione a comizi, riunioni e assemblee politiche; invio di lettere a politici e giornali; discussione con amici e parenti per persuaderli a votare un candidato elettorale; donazione di denaro a sostegno di un partito o candidato. Insomma, un ricco repertorio di azioni con una valenza politica.
Tab. 3.3 Attivismo critico (28,0 %): visione della società e profilo socio anagrafico
Variabile Modalità % nel
gruppo % nel campione La visione della società
La religione cattolica è l’unica religione
che deve essere insegnata nelle scuole Per niente d’accordo 42,4 22,9 E’ giusto concedere dei diritti alle coppie
omosessuali Molto/abbastanza
d’ac-cordo 57,1 37,1
Occorre dare il diritto di voto alle elezioni comunali agli immigrati in possesso del
permesso di soggiorno Molto d’accordo 38,7 23,0
Eventi più preoccupanti che avvengono
Dovendo scegliere è meglio avere… Più tasse e più servizi 66,8 46,4 Gli immigrati che vengono nel nostro
paese… Sono una risorsa per le
imprese 53,3 39,8
Collettività territoriale di appartenenza L’Europa e il mondo intero 48,3 30,2 Rapporto con la politica Sono politicamente
impe-gnato/mi tengo informato 83,6 70,8 Segue
Orientamento politico Di Sinistra 13,9 9,2
Di Centro-sinistra 21,4 15,8
Forme di partecipazione politica
conven-zionale Sì (ultimi 12 mesi) 61,3 38,0
Partecipazione a manifestazioni di piazza
e scioperi autorizzati Sì (ultimi 12 mesi) 41,5 27,7
La società deve essere cambiata azioni
politiche e sociali radicali Poco/per niente d’accordo 50,9 33,9 In Italia, per risolvere le emergenze del
paese… Ci vuole un accordo tra
maggioranza e opposizione 50,4 38,1 Fonte: Isfol 2008
Senza alcun dubbio questi associati si avvalgono di molteplici canali convenzionali per far udire la loro “voce” nell’agorà democratica. Inoltre, non esitano ad aderire alle ma-nifestazioni di protesta e agli scioperi (41,5%, +13,8%). In altre parole, sono sempre pronti a rivendicare i loro diritti o a battersi per una causa sociale. Non stupisce pertanto che si considerino politicamente impegnati o informati sulle vicissitudini della propria nazione (83,6%, +12,8%).
Più in generale, questi membri delle APS criticano i lati oscuri del capitalismo globale.
In tal senso va letta, ad esempio, la preoccupazione per lo strapotere delle multinazio-nali e dei gruppi finanziari (23,9%, +10,8%). Ad ogni modo, non si è di fronte ad una carica antagonista che rigetta completamente la globalizzazione. In questo gruppo di intervistati è, infatti, piuttosto accentuato un orientamento tipicamente cosmopolita:
il 48,3% afferma di sentirsi parte dell’Europa o del mondo intero (+18,1% rispetto al dato generale). Si evidenzia, inoltre, anche un rifiuto alquanto palese nei confronti del radicalismo: il 50,9% è poco/per niente d’accordo con l’ipotesi di cambiare la società con azioni politiche e sociali traumatiche (+17%). Sarebbe, dunque, sbagliato voler as-similare questi cittadini alle frange più irrequiete del movimento “no-global”. Piuttosto, essi vorrebbero correggere il tiro di un modello economico giudicato per molti aspetti insostenibile. In effetti, il libero mercato non crea automaticamente benessere, quindi lo Stato deve intervenire per ridurre le disuguaglianze sociali (44,5%, +8,4%). Quest’opi-nione appare quanto mai attuale oggi, nel vortice di una crisi che ha rimesso in discus-sione i fondamentali dell’economia planetaria. Dopo un ventennio in cui ha mietuto consensi quasi unanimi, il neoliberismo non viene più considerato la ricetta risolutiva per risolvere i problemi del globo. Anche i supporter più entusiasti del capitalismo senza freni hanno vacillato dinnanzi al default dei colossi bancari americani ed europei. La recessione è arrivata puntuale all’appuntamento con la storia alquanto travagliata di questo inizio di millennio. In Italia, i contraccolpi più acuti del caos finanziario si sono avvertiti tra la fine del 2008 e gli inizi del 2009: l’amaro risveglio degli operai e dei “col-letti bianchi” che finiscono in cassa integrazione; il silenzioso allontanamento (senza tutele) dei giovani dai loro lavori precari; lo scivolamento in condizioni di povertà per un numero crescente di famiglie dei ceti popolari e medi; le piccole e medie imprese che arrancano di fronte al congelamento dei consumi e delle commesse. Qualcosa non torna
nelle formule semplicistiche propugnate dai teorici della scuola di Chicago: gli automa-tismi del mercato creano vistosi squilibri sociali; nel nostro paese, a farne le spese, sono soprattutto gli strati più deboli della cittadinanza. Ci vorrebbe così uno sforzo unitario da parte della classe politica per uscire dallo stato di impasse in cui si trova il belpaese;
gli “attivisti critici” non hanno incertezze in proposito: il 50,4% pensa che per risolvere le emergenze della società italiana sia necessario un accordo tra maggioranza e opposi-zione (+12,3%). Questa intesa non dovrebbe, tuttavia, culminare in un compromesso al ribasso, almeno sul nodo cruciale del welfare. La rete di assistenza pubblica non si tocca:
dovendo scegliere, sarebbero disposti a pagare più tasse pur di avere più servizi da parte della pubblica amministrazione (66,8%, + 20,4%). Il sostegno ad uno stato sociale più efficiente è quindi netto, specialmente in una congiuntura economica negativa come quella odierna.
Se si sposta lo sguardo sulla dimensione valoriale, si delinea un quadro assai preciso.
La laicità e il pluralismo culturale sono le coordinate etiche fondamentali per questi associati. Non concordano, infatti, con l’insegnamento univoco della religione cattolica nelle scuole (“per niente d’accordo” 42,4%, +19,5%); vedrebbero con favore un rico-noscimento giuridico per le coppie omosessuali (“molto/abbastanza d’accordo” 57,1%, +20,0%); concederebbero volentieri il diritto di voto agli immigrati regolari nelle ele-zioni comunali (“molto d’accordo” 38,7%, +15,7%); anche perché non hanno dubbi sul fatto che i lavoratori stranieri presenti in Italia siano una risorsa per le nostre imprese (53,3%, +13,5%). In breve, questi cittadini mostrano un atteggiamento tollerante nei riguardi delle diversità etniche, religiose e sessuali. Con tutta probabilità, questa forma mentis è anche il portato di un tendenziale schieramento a sinistra dell’arco politico:
il 13,9% (+4,7%) si definisce di sinistra; il 21,4% di centro-sinistra (+5,6%). Non è un mistero che il multiculturalismo sia un tratto portante di quel “popolo” che, fino a poco tempo fa, si raccoglieva attorno all’Unione e che, oggi, fatica a trovare una collocazione tra il PD e la diaspora della sinistra alternativa. Questa chiave di lettura rischia però di essere riduttiva: l’appartenenza ad un’area politico-elettorale non sembra poter incidere più di tanto su orientamenti d’opinione così marcati. I partiti, in Italia come in altre democrazie mature, non fungono più (se non parzialmente) da collettori di ideali; molto spesso appaiono contradditori proprio sulle questioni etiche. Non è più l’era delle grandi narrazioni ideologiche. L’impressione è che questa apertura verso la diversità sia il frutto di percorsi biografici che affondano le radici lontano nel tempo.
Il retroterra sociale di questi intervistati avvalora in parte questa ipotesi di lavoro (tab.
3.4): costoro tendono ad avere un’età compresa tra i 42 e i 64 anni (50,4%, +5,7%) e sono istruiti (il 26,9% è laureato, +9,3%).
Tab. 3.4 L’attivismo critico: profilo socio-anagrafico
Variabile Modalità % nel
grup-po
% nel campione
Professione Impiegato, insegnante 36,2 26,6
Età 42-64 anni 50,4 44,7
Titolo di studio Laurea 26,9 17,6
Momenti di difficoltà nei consumi
primari Mai (negli ultimi dodici
mesi) 73,5 55,8
Frequenza d’uso di Internet Assidua 59,6 34,7
Livello di informazione (quotidiani,
TV, settimanali) Alto 58,8 34,0
Fonte: Isfol 2008
La loro condizione economica li mette al riparo dalla possibilità di patire ristrettezze nei consumi primari (73,5%, + 17,7%), anche grazie ad un “posto sicuro” (impiegati e insegnanti 36,2%, +9,6%). Oltre a ciò, vantano un alto livello d’informazione: leggono con regolarità i quotidiani non sportivi e i settimanali di attualità, seguendo altresì le inchieste televisive e i programmi di approfondimenti politici (58,8%, +24,4%). Infine, malgrado non siano più giovani, hanno imparato ad utilizzare Internet per ampliare il loro orizzonte di conoscenze: navigano tra blog, forum e siti dove circolano notizie su questioni sociali e politiche (con frequenza assidua 59,6%, +24,9%).
Molti sono gli spunti che affiorano da questi dati socio-anagrafici: gran parte degli
“attivisti critici” hanno attraversato la stagione del ’68 e del ’77; alcuni di loro (non pochi a giudicare dal grado di istruzione) hanno vissuto da studenti quel periodo di effervescenza politica e culturale. L’imprinting di quegli anni sembra aver lasciato una traccia profonda nel loro modo di intendere la società: la rottura con l’autoritarismo e la tradizione, l’anelito verso la giustizia sociale, la liberazione dei costumi, la democra-zia partecipativa, il pacifismo, il movimento per i diritti civili. In definitiva, i reduci di quel capovolgimento epocale hanno sperimentato la possibilità di costruire un mondo migliore, credendo fermamente nell’eguaglianza sociale e nelle pari dignità di tutte le culture e identità sessuali. Inoltre, dopo aver abbandonato le aule universitarie, queste persone hanno potuto progettare il proprio futuro in una nazione che ancora offriva la possibilità di prendere l’ascensore sociale, di compiere dei progressi rispetto alle con-dizioni familiari di partenza. Col trascorrere del tempo, essi hanno assistito a profondi cambiamenti economici, politici e sociali, andando incontro sovente a cocenti delusioni.
Nonostante ciò, non hanno smesso di occuparsi dei destini della collettività. Certo, i modi e le forme di questo impegno sono mutati. Ma la volontà di vivere in una società più giusta e tollerante non è stata scalfita dal logorio delle ideologie o dal cinismo delle classi dirigenti che si sono alternate al governo del paese.
Sicché, questi cittadini continuano a coltivare la loro passione democratica. Il dinami-smo politico che li contraddistingue è un segnale inequivocabile di questa resistenza civica. E’ con queste credenziali che essi si sono avvicinati al composito mondo dell’as-sociazionismo sociale (tab. 3.5).
Tab. 3.5 L’attivismo critico: esperienza associativa e partecipazione politica
Variabile Modalità % nel
gruppo
% nel campione Ambito in cui opera l’associazione Temi e problemi legati alla
globa-lizzazione 37,0 16,2
E’ un soggetto collettivo che può
cambiare la politica e la società 28,6 10,1 Un’associazione dovrebbe… Sostenere tutti i cittadini senza
fare distinzioni 68,5 54,9
Rapporto con l’associazione
Sono un membro coinvolto nelle
iniziative dell’associazione 41,2 30,7 Sono un attivista che partecipa
alle decisioni politiche e
organiz-zative 18,1 7,9
Acquisto di prodotti del
commer-cio equo e solidale Sì (ultimi 12 mesi) 63,8 37,8
Consumo critico Sì (ultimi 12 mesi) 47,5 28,9
Temi fondamentali per una cam-pagna di informazione della pro-pria APS
La tutela dell’ambiente 42,4 21,5
Le morti bianche sul lavoro 18,3 11,3 Fonte: Isfol 2008
Per loro le APS non sono peraltro un approdo dell’ultima ora: il 39,5% è iscritto ad un’associazione da oltre dieci anni (+16,6%). Tuttavia, questa membership prolungata non li ha spinti a partecipare più di tanto alle attività dell’organizzazione di appartenen-za (dato fuori tabella); né hanno deciso di cimentarsi nel volontariato (45,8%, +5,5%).
Il loro impegno “nel sociale” è, dunque, estemporaneo. La ragione è comprensibile: le energie di questi italiani vengono profuse nell’arte del possibile, ossia in quell’ardore politico che non è mai venuto meno. Nonostante ciò, sentono di far parte dell’asso-ciazione, in qualità di membri (41,2%, +10,5%) o addirittura di veri e propri militanti (18,1%, +10,2%). Pur non avendo molto tempo da dedicare a queste organizzazioni81, non se ne disinteressano, se non altro a livello cognitivo: pensano forse di poter giocare
81 In effetti, questo gruppo di associati è pressato da molteplici impegni lavorativi ed extralavorativi (dati fuori tabella): nel 70,7% dei casi si tratta di persone che svolgono un’occupazione su basi continuative, con una famiglia da mandare avanti (il 54,6% vive in coppia con figli, +8,2%). A ciò si aggiunge la partecipazione alla vita dei sindacati (19,2% +8,4%), delle organizzazioni di categoria (12,8%, +5,5%) e dei partiti (11,1%, +6,3%). L’agenda degli attivisti critici è quindi piuttosto fitta: la casa, l’ufficio, le sedi di partito o del sindacato, senza contare la mobilitazione politica nella società. Non gli resta presumibilmente molto tempo da investire nelle attività delle APS.
un ruolo non secondario, magari influendo sul dibattito interno di questi enti. Le APS sono del resto un’importante palestra democratica per questi intervistati: il 28,6% è del parere che sono soggetti collettivi con cui si può ancora tentare di trasformare la stessa politica e la società (+18,5%).
Dunque, lo spazio associativo è un terreno fertile dove rinnovare la propria militanza a favore della giustizia sociale e delle pari opportunità; infatti, in esso si possono riaffer-mare i valori fatti propri durante la gioventù: il 68,5% crede che con le associazioni si possano sostenere tutti i cittadini senza fare distinzioni di censo o di etnia (+13,6%).
Qualche volta l’associazionismo può anche contribuire alla crescita civile del paese: può essere sufficiente organizzare una campagna d’informazione per denunciare la tragedia delle morti bianche sul lavoro (18,3%, +7%) o per riproporre all’attenzione pubblica l’esigenza di tutelare l’ambiente (42,4%, +20,9%). Queste azioni circoscritte possono dare nuova linfa alla critica nei confronti delle storture più vistose della società globale.
Non è un caso che queste persone aderiscano in prevalenza ad APS che si occupano di cultura ed educazione civica (40,8%, +11,2%) o di problemi legati alla globalizzazione (37,0%, +20,8%): l’ambientalismo, il pacifismo e la cooperazione con i paesi poveri del mondo; la difesa dei diritti di minoranze, donne, bambini, ammalati, utenti e con-sumatori; la promozione del consumo critico e del turismo sociale; la valorizzazione della cultura in ogni sua forma; l’educazione come bene comune. Questi sono ambiti di intervento attraverso cui l’associazionismo, al di là delle differenze, cerca di rispondere alle sfide della società contemporanea. Oggi è necessario confrontarsi con gli scompensi di un pianeta sempre più interconnesso a livello economico e frammentato nei legami sociali82. Le tradizionali lotte per l’uguaglianza non sono più sufficienti per costruire un mondo migliore: i diritti acquisiscono dimensioni inedite, chiamando in causa la salva-guardia della natura, la tutela giuridica di ciascuno di fronte alla legge, la valorizzazione di stili di vita che privilegiano la sobrietà e le identità locali. Gli “attivisti critici” non sono dei nostalgici; come si è detto, sono nati e cresciuti nell’epoca delle ideologie e delle subculture politiche; ma, in seguito, hanno aggiornato i registri del loro civismo.
Per questo sono entrati in sintonia con quelle APS che tentano di elaborare modelli alternativi di convivenza sociale. Primo fra tutti il consumo responsabile, che è diven-tato una pratica molto frequente per questi intervistati: quasi la metà (47,5%, +18,6%) boicotta i prodotti delle multinazionali che si rendono artefici di comportamenti assai discutibili dal punto di vista morale; mentre poco meno di due terzi (63,8%, +26,0%) acquista i beni del commercio equo e solidale, per sostenere le produzioni dei contadini e degli artigiani del Sud del mondo. L’utopia della rivoluzione dei costumi si è di certo esaurita, ma non la speranza di sovvertire l’ordine costituito delle cose con le “piccole rivolte del quotidiano”. In silenzio, con la maturità di chi ha oltrepassato da tempo la linea d’ombra della giovinezza, questi attivisti continuano a ribellarsi contro l’egoismo sociale e le sopraffazioni.
82 Cfr. Alain Touraine, La globalizzazione e la fine del sociale. Per comprendere il mondo contemporaneo, Milano, Il Saggiatore, 2008.