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5. La parola nel linguaggio drammatico di Racine e di Beckett

5.3 La parola come racconto e come commento

5.3.1 Il récit

Per quanto riguarda i racconti come veicolo di informazione all’interno dei drammi, D’Aubignac distingue tra le narrazioni che trattano di ciò che è successo prima dell’apertura del sipario e quelle azioni che, invece, avvengono fuori dal palcoscenico durante la rappresentazione teatrale. Anche Alfred Bouchard definisce il récit come “la nécessité d’expliquer au spectateur des faits qui se passent hors de sa vue, ou qui se sont passés avant le commencement de l’action et qui l’explique”258

. Mentre le narrazioni di ciò che è accaduto “avant le commencement de l’action” si trovano solitamente nel primo atto e sono funzionali alla comprensione dello spettatore riguardo al punto di partenza della tragedia, preparandolo alla peripezia, ciò che è appena avvenuto fuori scena viene narrato verosimilmente poco dopo che il fatto si è compiuto e generalmente riguarda il racconto della morte di un personaggio che, per le regole delle bienséances, non può essere mostrata al pubblico. Come ammette Racine nella prima prefazione di Britannicus: “une des règles du théâtre est de ne mettre en récit que les choses qui ne se peuvent passer en action”259

, alludendo alla necessità di una “raison puissante”260

che giustifichi il racconto stesso.

Grazie al racconto per eccellenza della tragedia classica, cioè quello riguardante la morte dei personaggi, che sviluppa l’azione evocandola nell’immaginazione degli spettatori, “l’invisible acquiert une valeur tragique”261

. Questo tipo di racconto, si presenta solitamente sotto forma di tirade, durante la quale, come fa notare Hawcroft, il “personaggio-messaggero” acquisisce il ruolo di oratore, distaccandosi temporaneamente dal ruolo primario di personaggio, poiché questi racconti, richiamando eventi passati, sono estranei rispetto a ciò che sta succedendo in scena. Inoltre, Jacques Scherer evidenzia come il récit risponda a delle regole precise, oltre a quelle convenzionali della retorica. Esso deve essere ricco di dettagli che diano al pubblico un’immagine precisa di ciò che è accaduto all’esterno e di solito si sviluppa come segue:

exclamations du récitant; questions de l’auditeur; annonce du fait; exclamations, commentaires et nouvelles questions de l’auditeur; justification et préambule du récit; récit proprement dit, coupé d’exclamations de commentaires de l’auditeur, qui peut encore, après le récit, faire de nouveaux commentaires.262

258

A. Bouchard, La langue théâtrale, Slatkine, Paris, 1982, p.223.

259 J. Racine, Britannicus, op. cit., p. 39.

260

J. Scherer, op. cit., p. 233.

261

Ibid., p. 145.

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Lo sviluppo vero e proprio del racconto può anche contenere degli elementi accessori come il preambolo, domande, esclamazioni o una giustificazione. Ad esempio in Iphigénie, Ulysse inizia il récit spiegando perché sia proprio lui a farlo affermando: “je répare la douleur que je vous ai causée”. Infatti il drammaturgo deve trovare il personaggio giusto a cui affidare il

récit: se in Iphigénie si è scelto Ulysse, perché colui che sembrava essere il maggior

sostenitore del sacrificio dell’eroina, in Britannicus, invece, l’unico a poter farsi carico della narrazione è Burrhus, poiché confidente di Néron e sostenitore di un equilibrio pacifico tra i due fratelli.

Analizzando la scena del racconto di Burrhus (Appendice 2), vediamo come l’organizzazione teorizzata da Scherer venga effettivamente rispettata: Burrhus introduce il fratricidio intimando ad Agrippine di fuggire dalla corte e soprattutto dall’imperatore che, evidentemente si è rivelato un uomo pericoloso; Agrippine interroga Burrhus per avere più informazioni riguardo all’accaduto e, solo allora, il confidente di Néron cede alla narrazione. Nel suo récit non manca la retorica: si noti come gli atti che precedono l’uccisione vengano elencati attraverso un’accumulazione che produce attesa rispetto a ciò che segue e come il trapasso di Britannicus venga esposto attraverso un eufemismo metaforico “la lumière à ses yeux est ravie”. Il récit de mort, poiché fondamentale per lo sviluppo dell’intreccio e per il

dénouement, è sempre una narrazione molto dettagliata che comprende le reazioni dei

personaggi presenti e i discorsi riferiti indirettamente, come le parole che Néron utilizza per offrire la coppa avvelenata all’ignaro Britannicus, che producono un forte senso di pietà e terrore nello spettatore. È una sorta di prosopopea che Bovet definisce “oblique” e che corrisponde “à la catégorie narrative du discours transposé en style indirect”263

, in quanto la prosopopea dà voce a colui che non può parlare perché assente o defunto e, infatti, è spesso interrotta dall’inciso “dit-il”, come in questo caso. Racine decide poi di sottolineare l’atteggiamento abominevole di Néron e Narcisse attraverso l’opposizione con il comportamento della maggior parte dei presenti. “Jugez combien ce coup frappe tous les esprit” si contrappone a Néron che “d’aucun étonnement il ne paraît touché” e Narcisse di cui la “perfide joie éclate malgré lui”. Interessante, infine, è la conclusione del discorso di Burrhus che sottolinea il suo struggimento non solo riguardo alla morte di Britannicus, ma anche in relazione alle sorti dello stato e di Néron che, come detto, con questo fratricidio, ha

263

J. Bovet, “Les espaces interdits: la voix de la prosopopée dans la tragédie classique”, in Revue des sciences

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deciso il suo destino. Qualsiasi replica di Agrippine viene però frenata dall’arrivo di Néron, con il quale ella brama avere un colloquio.

Come accennato, oltre al récit de mort la tragedia classica contiene altri racconti che servono per informare gli spettatori su ciò che è accaduto prima che si aprisse il sipario e che potremmo chiamare “racconto iniziale”, “un modèle de préparation”264

nel quale “si legge il rapporto dell’individuo con la storia”265

. La tragedia di Iphigénie, ad esempio, si apre su un dialogo tra Agamemnon e il suo confidente Arcas al quale si ricorre proprio per dare informazioni sul punto di partenza della pièce e sulla posizione che i diversi personaggi hanno preso riguardo al nodo centrale, cioè il sacrificio di Iphigénie. Significativa è la prima battuta di Agamemnon che quasi si presenta al pubblico dicendo “oui, c’est Agamemnon, c’est ton roi qui t’éveille”, ma è ad Arcas che è lasciato il compito di introdurre la situazione. Nel suo intervento Agamemnon è presentato come re, padre e marito, introducendo fin da subito i differenti ruoli che questo personaggio deve sostenere e ai quali deve far fronte. Inoltre Arcas ci rivela che le truppe del re sono in procinto di salpare per Troia, ma la mancanza di venti favorevoli glielo impedisce.

Dopo aver introdotto la situazione di partenza, viene annunciato attraverso un racconto il primo sviluppo che dà inizio all’azione, ovvero la notizia dell’oracolo di Calcante. Da notare è l’esposizione di questo récit che rispetta pienamente la progressione teorizzata da Scherer; infatti si ha l’introduzione da parte di Agamemnon, seguita dall’intervento – seppur breve – di Arcas, interrotto dal protagonista, che prende la parola per narrare tutto l’avvenimento, comprese le parole stesse di Calcante (rientrando nella prosopopea). Dopo essere stato interrotto a sua volta dall’esclamazione del confidente “Votre fille!”, può concludere la sua tirata enunciando le principali reazioni all’oracolo, in particolare quelle di Ulysse e di Clytemnestre, così come il suo dilemma riguardo al destino della figlia di cui piange “mille vertus, une amour mutuelle […], un respect qu’en son coeur rien ne peut belancer,/ Et que j’avais promis de mieux récompenser”.

Allo stesso modo, poi, Racine introduce nella prima scena del secondo atto il personaggio di Eriphile, attraverso – ancora una volta – uno scambio di battute con la confidente. In effetti, la figura del confidente viene introdotta proprio per giustificare dialoghi che si possono definire informativi o per evitare l’uso incondizionato dei monologhi;

264

J. Sherer, op. cit., p. 29.

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insomma, a giustificazione dei discorsi dei protagonisti. Tant’è che i confidenti prendono parola solo quando si trovano soli con il personaggio, mentre, quando questo è impegnato in uno scambio verbale con altri protagonisti, il/la confidente rimane un testimone silente. D’altronde, la presenza del récit va giustificata e, come propone Kerbrat-Orecchioni, gli stratagemmi possibili sono fondamentalmente due: “mettre en scène un personnage ignorant” o “si tous les personnages en scène sont également au courant du fait problématique, l’astuce consiste à tirer parti du statut bien particulier des présupposés266.

Per quanto riguarda, invece, le due principali opere beckettiane En attendant Godot e

Fin de partie, si può notare come i récit di morte non siano presenti; in effetti, l’unico

personaggio a perire è Nell, che – come detto – anche se non visibile agli spettatori, perché dentro il bidone, muore in scena nella completa indifferenza degli altri personaggi che ne constatano semplicemente il decesso: “la fine […] manca di ogni carattere di evento”267. Neppure i racconti informativi iniziali compaiono; il sipario si apre nel bel mezzo dell’azione, a sottolineare che ciò che viene rappresentato non dipende da un momento particolare, ma la situazione sarebbe la medesima in qualsiasi momento il sipario si aprisse, per questo ogni racconto a presentazione dell’intrigue sarebbe superfluo. Come afferma Sirkoska “the opening scenes in themselves, challenge conventional openings. The reader is immediately thrown into the middle of the story”268

.

La maggior parte dei racconti che si trovano nelle opera beckettiane, esulano dalla rappresentazione, trattando di qualcosa di completamente diverso. Essi sembrano essere funzionali solo ad occupare il tempo. È il caso, ad esempio, dell’ “histoire du tailleur” di Nagg che appare quasi come una barzelletta e che evidenzia tutto il comico grottesco della situazione, oppure della storia raccontata da Hamm. In questo caso Hamm ha bisogno di un interlocutore che lo ascolti e sveglia il padre che assume un ruolo molto simile a quello del confidente nel teatro classico. Il fatto stesso che Nell venga obbligato all’ascolto in cambio di una misera ricompensa, sembra quasi essere una parodia proprio del rapporto protagonista-confidente che si trova nel teatro classico. È lo stesso Nell a sottolinearlo, affermando: “[…] tu m’as fait réveiller pour que je t’écoute. Ce n’était pas indispensable, tu n’avais pas vraiment besoin que je t’écoute.” ; e il finale “d’ailleurs je ne t’ai pas écouté” sembra rivelare una certa comicità dell’episodio. Il racconto di Hamm è molto particolare: egli lo costruisce

266

C. Kerbrat-Orecchioni, Pour une approche pragatique du dialogue théâtral, cit., p. 52.

267

A. Cascetta, Il tragico e l’umorismo, cit., p. 96.

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nel momento stesso in cui lo narra, pertanto è ricco di riformulazioni e commenti su ciò che sta dicendo e su come sta procedendo la narrazione, che è in linea con i romanzi beckettiani in quanto si sviluppa come un flusso di pensieri raccontati in prima persona che, però, non giungono ad un fine, avanzando in modo disordinato.

Tuttavia, è possibile rintracciare taluni racconti che permettono agli spettatori di venire a conoscenza del background della rappresentazione, ma ancora una volta la modalità attraverso cui questo racconto viene proposto, si distacca da quella classicista. Ciò appare chiaro se si pensa alla predizione che Hamm fa riguardo al futuro di Clov che, allo stesso tempo, sembra un chiaro richiamo del suo passato come suggerisce l’incipit:

Hamm: Un jour tu seras aveugle. Comme moi. Tu seras assis quelque part, petit plein perdu dans le vide, pour toujours, dans le noir. Comme moi. (Un temps) Un jour tu te diras, Je suis fatigué, je vais m’asseoir, et tu iras t’asseoir. Puis tu te diras, J’ai faim, je vais me lever et me faire à manger. Mais tu ne te lèveras pas. Tu te diras, J’ai eu tort de m’asseoir, mais puisque je me suis assis je vais rester assis encore un peu, puis je me lèverai et me ferai à manger. Mais tu ne te lèveras pas et tu ne te feras pas à manger.

Come si può notare, ciò che emerge evidentemente da questo “racconto al futuro” è la casualità di finire in disgrazia che in parte richiama la tragedia classica. Non vi è una vera e propria motivazione che spinge il protagonista a passare dalla buona alla cattiva sorte, come rende evidente Pozzo, infastidito dalle domande di Estragon e Vladimir nel secondo atto di En

attendant Godot nel quale Pozzo è diventato cieco e Lucky muto:

Pozzo: Vous n’avez pas fini de m’empoisonner avec vos histoires de temps? C’est insensé! Quand! Quand! Un jour, ça ne vous suffit pas, un jour pareil aux autres, il est devenu muet, un jour je suis devenu aveugle, un jour nous deviendrons sourds, un jour nous sommes nés, un jours nous mourrons.

In questa replica impetuosa, inoltre, emerge ancora una volta il tema del tempo come di un’entità indefinita che sembra riproporsi sempre uguale a sé stessa.

Insomma, in Beckett non ritroviamo i racconti nel significato classico del termine, d’altronde spesso neanche i personaggi sanno dare giustificazioni alla loro situazione e alla loro presenza in scena. Clov si domanda continuamente perché non se ne va, ma non vi è risposta se non quella che non può, una risposta che accetta senza controbattere. In En

attendant Godot si ritrova, invece, una seppur minima volontà di motivare la presenza dei due

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anche il tempo stesso della rappresentazione e dell’attesa dei personaggi, in quanto, nel suo ripetersi, sembra azzerare il tempo per farlo ripartire daccapo:

Estragon: Allons-nous-en. Vladimir: On ne peut pas. Estragon: Pourquoi? Vladimir: On attend Godot. Estragon: C’est vrai.

Utilizzando le parole di Ryngaert, allora si può dire che il dialogo “ha la funzione di fornire al lettore, e in seguito allo spettatore, informazioni su quel che accade, sullo sviluppo dell’intreccio”269

. A questo scambio di battute, quindi, soggiace anche la conferma che l’azione non procede in quanto il dialogo si ripropone sempre uguale. Infatti, come afferma la Restivo, in Beckett la ripetizione è dovuta al fatto che “il senso sfugge in continuazione e si “ripredica” nella differenza, mai presente hic et nunc, in un evitabile ‘pas encore’”270

.