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III. Nota metodologica 16 

3.3 Azioni di sabotaggio e accuse di terrorismo 130 

Non ci sono gruppi violenti isolati, questo vogliono farlo credere per spezzare il movimento ma chi combatte insieme ed è così generoso non sarà mai isolato perché fa parte di Noi. Loro hanno perso perché con le loro manganellate e la loro prepotenza violenta ci hanno unito ancora di più. Hanno fatto capire anche agli altri che non c’è libertà e giustizia ma potere e prepotenza del padrone.

(Attivista di Chianocco)

Quand le gouvernement viole les droits du peuple, l’insurrection est, pour le peuple et pour chaque portion du peuple, le plus sacré des droits et le plus indispensable des devoirs.171

I processi di mobilitazione, per come li abbiamo descritti – ossia nel loro contrapporsi alla dominazione sui tempi e luoghi dell’abitare, da parte di un sistema economico e politico – implicano una risposta dell’apparato repressivo dello Stato172, atta a mantenere il proprio

status di egemonia (culturale) ed un determinato controllo sociale. Come scrive Melucci

(1977) «il controllo è già iscritto e istituzionalizzato nelle strutture della società, attraverso la socializzazione e l’interiorizzazione delle norme, attraverso la codificazione dei ruoli e la distribuzione disuguale delle risorse. Al di là di questo, c’è un intervento diretto per controllare il processo di mobilitazione». Tale intervento può comprendere tanto il processo di manipolazione del consenso – attraverso strumenti di concertazione top down, come l’Osservatorio Virano, finalizzati alla pacificazione del conflitto e meccanismi di stigmatizzazione del dissenso – quanto il ricorso all’uso della violenza istituzionalizzata.

L’economista cileno Rodrigo Rivas (2011) sostiene che lo «Stato non sceglie – né può scegliere – la nonviolenza. Non può farlo mai perché, per esistere, ha bisogno di avere permanentemente a disposizione i gruppi di “uomini armati” che costituiscono i suoi eserciti e polizie. Perché lo Stato è Stato nella stessa misura in cui dispone della forza violenta più potente su di un territorio». Esso è detentore del monopolio della violenza legittima e «per qualsiasi movimento che intende mettere in discussione l’ordine esistente e le sue istituzioni, il problema della violenza equivale a decidere sul rispetto del monopolio statale della violenza. Evidentemente, questo monopolio deve essere messo in discussione se si cerca un cambiamento politico e sociale radicale, ma esistono diverse forme per farlo»173. Il movimento No Tav, attraverso le azioni dirette e ancor di più mediante la sua delegittimazione del potere costituito – che si concretizza nella dichiarazione di una libera repubblica all’interno di uno Stato sovrano – esercita una pressione su tale monopolio, sottoponendolo al giudizio pubblico, nella misura in cui è raffigurato come prova tangibile dell’esistenza di un processo di dominazione.

171 «Quando il Governo vìola i diritti dei popolo, l'insurrezione è per il popolo e per ciascuna parte del popolo il

più sacro dei diritti e il più indispensabile dei doveri». Articolo 35 della costituzione repubblicana francese del 1793, essa venne presentata ma non entrò mai in vigore.

172 Per Max Weber per Stato «si deve intendere un’impresa istituzionale di carattere politico in cui e nella misura

in cui l’apparato amministrativo avanza con successo una pretesa di monopolio della coercizione fisica legittima in vista dell’attuazione degli ordinamenti». Cfr. Weber M., Economia e società, Edizioni di Comunità, Milano 1961.

173 Per una lettura integrale dell’articolo di Rodrigo Rivas «Quando la gioventù schiacciata va in piazza contro la

violenza dello Stato» http://domani.arcoiris.tv/quando-la-gioventu-schiacciata-va-in-piazza-contro-la-violenza- dello-stato/

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Dall’altra parte, la violenza politica (che sarebbe praticata dai movimenti) è rievocata sempre più di frequente nel dibattito pubblico contemporaneo – specie quella che inneggia a potenziali collegamenti, o ad un passaggio di testimone con gli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso –, con il fine, più o meno dichiarato di attribuire connotati negativi a determinati episodi di conflittualità sociale, i quali vedono come protagonisti movimenti sociali, che nel loro agire superano i limiti di compatibilità del sistema.

La rievocazione di un passato con cui non si è riusciti o non si è voluto fare i conti fino in fondo, analizzandone oltre il limite delle ideologie e delle deformazioni del potere il significato e la portata del conflitto sociale, viene strumentalizzata e piegata alle stesse logiche di dominio che interpretano il conflitto come una patologia del corpo sociale. La stessa letteratura sociologica che faceva riferimento agli studi del collective behavior174 si proiettava inizialmente, con l’approccio parsoniano175, su un funzionalismo in cui non era presente una trattazione specifica e sistematica dell’azione collettiva, all’interno della quale non venivano applicate distinzioni tra comportamenti devianti e azioni conflittuali. La società, attraverso la teoria funzionalista classica, veniva intesa come una globalità di strutture sociali e culturali in relazione tra loro, la cui funzione era quella di contribuire a preservare le condizioni essenziali per l’esistenza del sistema sociale.

I conflitti sociali venivano analizzati attraverso le lenti della devianza che a sua volta era considerata il sintomo di una patologia nell’istituzionalizzazione delle norme, era cioè il segno che le stesse norme non erano state interiorizzate in modo corretto. All’interno di questo quadro le condotte collettive, relative ad un determinato contesto conflittuale, erano la derivazione di una situazione di squilibrio e di insufficiente funzionalità dei processi di integrazione del sistema.

174 Gli studi sul collective behavior assumono un approccio secondo cui le credenze degli attori sono la chiave di

spiegazione delle condotte collettive, accomunando all’interno della stessa categoria i comportamenti occasionali di una folla e una rivoluzione politica.

175 Talcott Parsons fra il 1930 ed il 1960 fu una figura dominante all’interno della sociologia americana, le sue

opere principali – da La struttura dell'azione sociale (1937) a Il sistema sociale (1951) a Teoria sociologica e

società moderna (1967) – hanno esercitato una profonda influenza anche sulla sociologia europea del Secondo

dopoguerra. Il suo approccio viene chiamato struttural-funzionalista e concepisce la società come un insieme di parti interconnesse tra di loro. Per l’autore la struttura di una società è l’insieme delle relazioni che collegano fra loro i diversi elementi della società, in modo tale che il significato di ciascuno di questi elementi non è comprensibile isolatamente, poiché è determinato dai rapporti che intrattiene con gli altri e dalla funzione che svolge per l’insieme (Jedlowski 2009). In The Social System Parsons ci scrive di un sistema composto da gruppi che condividono un insieme di simboli culturali attraverso i quali vengono definite le aspettative reciproche, le norme che regolano le relazioni tra i vari gruppi e quindi i ruoli a esse corrispondenti. Tendenzialmente, gli individui si conformano alle aspettative legate al loro ruolo. Per lo studioso infatti l’esito dell’interazione delle forze presenti in un sistema sociale è l’equilibrio. Questa tendenza verso l’ordine sociale si sviluppa attraverso il processo di socializzazione, nel quale gli individui interiorizzano gli orientamenti di valore e le norme per conformarsi alle aspettative poste dal ruolo che occupano nel sistema sociale. La socializzazione avviene soprattutto nell’infanzia (e quindi all’interno della famiglia), quando il bambino interiorizza valori e norme grazie al meccanismo di ricompense-punizioni impartite dai genitori, in un complesso rapporto di legami affettivi e direttivi. Il sistema di motivazioni (cioè la personalità), il sistema di posizioni e ruoli (la società) e il sistema dei valori (la cultura) non sono quindi in antitesi ma tendono all’integrazione reciproca. Naturalmente, questa integrazione può non risultare perfetta: ecco quindi, accanto alla conformità, la possibilità della devianza, del mutamento, che per Parsons rimane residuale e quasi patologica. Il giudizio sulla sua opera è controverso e le critiche principali riguardano i limiti del suo funzionalismo che non comprende i conflitti sociali e di riflesso concettualizza con difficoltà il mutamento sociale, che riduce entro una prospettiva evoluzionistica.

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Al fine di introdurre l’analisi degli eventi, che caratterizzano l’ultima fase della mobilitazione No Tav, forniamo alcuni elementi definitori, inerenti il concetto di violenza.

«La spiegazione più semplice sull’origine dei movimenti sociali è quella fornita dalla classe dominante. Nell’ideologia dell’ordine costituito l’azione collettiva è definita come irrazionale e suppone sempre una cospirazione o un contagio. La teoria della cospirazione vede sempre nell’azione collettiva una maggioranza “buona” guidata, con l’inganno o con suggestione, contro i propri interessi, da una minoranza di agitatori. […] Il problema teoricamente più interessante è quello di spiegare da che cosa nasce la violenza, quali sono le condizioni che rendono possibile l’apparizione di condotte violente piuttosto che di altre forme di azione collettiva. […] L’analisi storica della violenza collettiva mostra che essa è in larghissima misura risposta alla violenza del potere (Tilly 1975). Il ricorso alla violenza nei conflitti sociali comincia quasi sempre ad opera degli agenti del controllo sociale. La difesa di diritti tradizionali a cui non si intende rinunciare, o la presentazione di domande che non possono essere rinviate, provocano spesso un intervento degli apparati repressivi, che implica il ricorso alla violenza. La violenza è stata giustamente definita da questo punto di vista “una tecnica e uno strumento del controllo sociale” (Rose 1968) »176.

Nella vicenda No Tav la retorica della cospirazione di pochi soggetti eversivi, che strumentalizzano la campagna di protesta con l’obiettivo di attuare piani sovversivi, estranei al vero senso della mobilitazione dei cittadini, è un leitmotiv ricorrente su una buona parte dei canali informativi ufficiali e nelle affermazioni di molti politici di governo. Il messaggio lanciato alla popolazione, non solo valsusina, è che ci si trovi davanti al “nemico pubblico” No Tav, a maggior ragione ancora più pericoloso perché capace di contagiare. La paura del contagio – intesa come propagazione del conflitto – costituisce una minaccia all’ordine sociale prestabilito ed alla stessa governance centralizzata, laddove il passaggio da una dimensione locale della vertenza ad una extraterritoriale diffusa potrebbe aprire la strada ad una rottura del patto d’ubbidienza/protezione177 tra cittadini e Stato. La messa in discussione della violenza istituzionalizzata comporta una delegittimazione del potere statale, nell’ordine in cui non è più garante di diritti e libertà ma “dominatore” sui territori. La retorica della paura del contagio di un’eversione che distribuisce violenza e delinquenza si reitera, ogni qual volta se ne presenti l’occasione, nell’evocazione del terrorismo di quelli che sono stati definiti “anni di piombo”, che manifesta il tentativo di tracciare una sorta di “continuità criminosa” tra frange di vecchi e nuovi movimenti. Analizziamone qualche esempio.

La Repubblica titola un articolo del 2011: «Gli ex terroristi arruolati tra i No Tav»178 descrivendo un filo che collegherebbe il terrorismo rosso alle vicende della Val di Susa, ipotesi che troverebbe la sua fondatezza nella presenza di ex-esponenti di Prima Linea nel movimento. E ancora, il senatore del PD Stefano Esposito afferma: «I No Tav? Non esistono

176 Melucci A., Movimenti di rivolta. Teorie e forme dell’azione collettiva, Etas Libri, Milano 1976, pp. 22, 53,

54.

177 Il momento fondante dello Stato, secondo Thomas Hobbes, è quello in cui i diversi individui stringono un

patto tra di loro per consegnare tutto il loro potere (e in particolare tutta la loro capacità di esercitare la violenza) a uno solo, a una persona individuale o collettiva che diventa il sovrano. Il monopolio della violenza così acquistata dal sovrano è garanzia di pace e sicurezza per tutti quelli che diventano – mediante il patto – i suoi sudditi. Secondo Hobbes, questo patto deriva “dal mutuo rapporto tra protezione e ubbidienza” (Rivas 2011).

178 Per una lettura integrale cfr. http://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/07/26/gli-ex-

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più. Chi viene in Val di Susa è soltanto il peggio dell’anti-Stato, dove pensano di poter fare quello che vogliono. […] Qui si sta riversando il peggio di chi vuole fare la guerra contro lo Stato. […] Le proteste violente in quella zona non sono mirate a impedire i lavori della Torino-Lione. Questo non c’entra più nulla. Dietro le manifestazioni di violenza si nasconde ben altro, è solo un pretesto la costruzione della linea»179.

Quest’aspetto viene interpretato dal movimento come parte di una strategia repressiva dello Stato, che ricorrendo alla rievocazione di eventi passati vuole legittimare l’uso della propria violenza fisica e giudiziaria contro l’opposizione popolare.

Dall’altra parte il movimento interpreta il contagio, inteso in questo caso come avvio di relazioni di cooperazione con altre realtà territoriali, come un successo, poiché uno tra gli obiettivi principali della resistenza No Tav è proprio quello di aprirsi al contagio con altre lotte e fungere da catalizzatore di un processo di superamento delle singole vertenze locali.

Noi non siamo i terroristi che giornali e televisione raccontano, siamo gente che ha imparato ad alzare la testa e chiedere il giusto. Tutti dovrebbero farlo per darci una speranza di un mondo davvero migliore. Quando giro per l’Italia e racconto la mia storia non chiedo mai di seguirmi a sostenerci in Valle, ma dico che è importante trovare nel proprio territorio una causa da difendere e da dove partire per cambiare le cose. Il sostegno alla Valle si da così, resistendo sui propri territori. Chi viene qui ci dà molto ma può farlo per piccoli periodi invece chi lotta sul proprio territorio può creare cambiamenti importanti. Non dico che non è importante venire, ma che è ancora più importante fare anche in altri posti, per poi congiungerci ed essere più forti.

(Attivista di Bussoleno)

In quest’ottica, soffermandoci sulla volontà di far dialogare e stringere su un fronte comune esperienze di resistenza appartenenti a diversi territori, potremmo leggere un primo tentativo di proiettarsi sul superamento della settorialità delle lotte, un tentativo, seppure embrionale, di rottura del “parroquianismo de las luchas” – provincialismo delle lotte – (Susana Roitman, Ximena Cabral 2012).

Siamo il nemico pubblico, ce la raccontano così. La verità è che hanno una gran paura che gli scoppino altre Valsusa in Italia, pensa se davvero ci fossero altre due, tre Valsusa distribuite per l’Italia, non potrebbero riuscire a mantenere tutte queste militarizzazioni e poi la gente comincerebbe seriamente a chiedersi se non vale davvero la pena di lottare tutti insieme. […] “Il pericolo del contagio”, come lo chiamano loro esiste davvero, per questo vanno giù duro con la repressione e cercano in tutti i modi di farci passare per delinquenti e terroristi.

(Attivista di Chiomonte)

Dunque, all’interno della mobilitazione No Tav, il problema della violenza è sollevato da entrambe le parti in causa: il movimento ne denuncia l’uso indiscriminato delle forze dell’ordine e lo Stato insieme alla Procura di Torino sostiene l’esistenza di frange violente interne alla campagna di protesta. Il risultato è un radicalizzarsi del conflitto che conduce, da una parte, alla sperimentazione di nuove pratiche di resistenza, quale appunto il sabotaggio, e dall’altra ad un uso sproporzionato di metodi e strumenti coercitivi, tra cui rientra di fatto il

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ricorso massiccio a procedure giudiziarie. Il 2013, in questo senso, è un anno emblematico sia da un punto di vista di condivisione delle pratiche “ammesse” alla lotta, che per quanto concerne l’intensificarsi del sistema repressivo e dell’azione di criminalizzazione del movimento.

Ne analizziamo di seguito, attraverso la ricostruzione di alcuni dei momenti più salienti, gli effetti prodotti sulla mobilitazione e sull’organizzazione del movimento.

Nella notte tra il 13 ed il 14 maggio si verifica un “attacco” al cantiere, ad opera di militanti No Tav, con l’intenzione di mettere in pratica un’azione di sabotaggio, il cui esito consiste di fatto nel danneggiamento di un compressore. Successivamente, il 15 dello stesso mese l’Assemblea popolare, tra gli applausi dei presenti, legittima gli atti di sabotaggio al cantiere TAV. Durante la discussione pubblica si argomenta sulla volontà, da parte dello Stato, di abbattere un simbolo (la resistenza No Tav) che funge da elemento di contagio per le altre realtà in lotta in Italia; un simbolo creato anche attraverso l’intensa propaganda, ad opera di media e partiti di governo, messa in pratica per creare un nemico comune, che dev’essere percepito dall’opinione pubblica come una minaccia per l’ordine precostituito.

Nel nostro movimento non ci sono frange eversive, non ci sono terroristi che vogliono fare guerra allo Stato. È una costruzione loro del nemico da abbattere, ed il nemico è tutto il movimento. La gente ha risposto davvero bene a queste accuse, ma perché c’è stato tutto un cammino che abbiamo fatto insieme e che ha fatto crescere una coscienza di ciò che è il dominio, la militarizzazione e la vera violenza, quella che ci hanno buttato addosso. Qui la violenza ha la divisa ed è in quel cantiere militare, che rappresenta il simbolo del potere. […] I sabotaggi, le passeggiate, anche il taglio delle reti hanno, se vuoi, un forte significato simbolico per tutti noi. Fanno vedere che anche se c’è l’esercito la resistenza non arretra di un passo ed è forte, senza usare la loro stessa violenza fisica e giudiziaria. Ci chiamano criminali ma il movimento non ha mai fatto uso di violenza, nemmeno nei momenti più esasperati. Forse loro contavano proprio su questo, ci hanno massacrato sperando che cadessimo nella trappola, in modo che potevano dire ecco dove stanno i violenti! Abbiamo dimostrato una grande maturità, ma è venuto anche spontaneo perché il progetto è un altro ed è collettivo.

(Militante di Bruzolo)

Ritornando all’assemblea, questa prosegue con l’intervento di Alberto Perino che introduce alcune considerazioni sul sabotaggio descrivendolo, attraverso una rilettura gandhiana, come «una delle misure di carattere estremo, che prevede un danno ad un qualcosa che è superato dal danno che quel servizio apporta alla collettività». Il servizio in questione è il progetto TAV, con tutte le conseguenze che apporterebbe sulla qualità dell’abitare, sulle vite delle persone della Valle e sul dispendio di denaro pubblico. Continua dicendo che «boicottaggio, disubbidienza civile e sabotaggio vengono considerati pratiche non violente, laddove l’obiettivo di quest’ultimo dev’essere mirato, ed in nessun caso deve nuocere ad essere viventi, ma agli affari politici ed economici della controparte». L’intervento si conclude con il riferimento alla violenza usata alle forze dell’ordine che «sparano i lacrimogeni in faccia alla gente», e alla non legalità del cantiere che manca del progetto esecutivo e viene difeso attraverso una militarizzazione che ha invaso “abusivamente” un’area molto più vasta rispetto a quella approvata dal CIPE. La domanda di chiusura è sul perché la magistratura in questi casi non reagisca.

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Analizzando la linea discorsiva, seguita durante il momento assembleare, bisogna sottolineare come il processo di legittimazione delle pratiche di sabotaggio passi attraverso la delegittimazione della controparte, che si delinea mediante la raffigurazione di uno Stato che esercita un dominio, di una magistratura consenziente e la constatazione dell’esistenza di un cantiere illegale ed abusivo.

Il 9 dicembre dello stesso anno, in riferimento all’azione di sabotaggio del 13 maggio, vengono arrestati quattro militanti, appartenenti all’area anarchica – Claudio Alberto, Niccolò Blasi, Mattia Zanotti e Chiara Zenobi – accusati di attentato con finalità terroristiche, per cui i PM contestano anche l’aggravante dell’articolo “270 sexies”180 del codice penale. Un’accusa che, secondo i pubblici ministeri ed i giudici cautelari, trova giustificazione nell’idoneità del fatto contestato ad arrecare un grave danno al Paese – il quale si concretizzerebbe nel blocco del cantiere italiano imposto con la violenza terroristica, che a sua volta avrebbe ripercussioni sul sistema comunitario dei trasporti – , nel danno all’immagine – riferito alla “credibilità” dell’Italia in ambito europeo – e nell’obiettivo di intimidire i poteri pubblici e la popolazione valsusina.

La gravità del processo è costituita dal tipo di imputazione che i PM Antonio Rinaudo e Andrea Padalino hanno scelto per qualificare i fatti in questione: attentato con finalità di terrorismo, atto di terrorismo con ordigni micidiali ed esplosivi, detenzione di armi da guerra e danneggiamento; laddove il danneggiamento di alcuni macchinari equivale ad un reato con finalità terroristiche.

Le pesanti accuse hanno avuto come conseguenza immediata l’espletarsi della misura di custodia cautelare per l’intera durata del processo, dal dicembre 2013 al dicembre 2014, sottoponendo i 4 militanti, per mesi, al regime duro. In seguito la Corte di Assise di Torino si