La lingua pura sconfitta dalla Différance
2.1. Ontoteologia e logocentrismo alla berlina
«Verbum autem dei manet supra me in aetermum»
Agostino, Confessioni XI, 6, 13
Cosa ha a che fare Babele con Derrida nello specifico dei suoi testi, nel “suo” pensiero oltre che nella sua opera di traduzione della traduzione di Benjamin?
Sicuramente, come abbiamo visto nel capitolo precedente, il mito di Babele è stato utile per decostruire la posizione del traduttore che Benjamin aveva trac- ciato, ma Babele, a mio avviso, per Derrida è il modo, il mezzo, per abrogare tutto quello che prima di Babele era stato narrato e anche e soprattutto, tramite la sua attività decostruttiva per sventare tutto ciò che la religione e la mistica desidera e crede che possa ricondurre a quell’Eden originario. Non si vuole nar- rare della classica relazione causa-effetto, peccato-caduta, per Derrida c’è quella che abbiamo chiamato “caduta”, già da sempre esistente però. Di Babele salva solo il “post”, salva solo la confusione, e la pretende da sempre presente. Babele è uno dei tanti esempi, delle tante metafore per metter in luce il suo pensiero, non c’è messianesimo, non c’è escatologia, non c’è paradiso, non c’è origine, non c’è logos puro: ma perché?
135
Per dare una risposta concreta prestiamo ora attenzione a come egli promuova l’abolizione di ciò che Kirchamyr definisce “i passe-partouts metafisici”208, i qua- li, grazie al loro carattere onirico, producono particolari effetti sul reale e parti- colari manipolazioni sulla ragione: giacché, come avrebbe detto Goya, “il sonno della ragione genera mostri”. Si tratta in sostanza di smontare tutte le parole chiave della metafisica, e dunque anche il “pre-Babele”, grazie ad una serie di strumenti critici che Derrida rintraccia già nello stesso sistema metafisico, per il semplice motivo che non funzionano più, e il mezzo che gli consente di far ciò è, appunto, la decostruzione:
«Io credo – dice Derrida – che nella decostruzione non vi sia che transfert: pensiero del transfert, in tutti i significati che questa parola assume in più di una lingua, e in primo luogo nel senso del transfert tra più lingue. Se mai dovessi azzardare, e Dio me ne scampi, una sola definizione di decostruzione, breve, ellittica, economica come parola d’ordine, direi, fuor di frase: più di una lingua»209.
Procedendo per gradi la prima cosa che va abolita tramite lo strumento della decostruzione è proprio l’idea della possibilità d’esistenza del “monolingui- smo”. Lo schema dei perché di tale affermazione può partire da motivazioni tratte dalla sfera biografica dello stesso Derrida.
208 R. Kirchamyr, op. cit., p. 155.
136
Com’è risaputo, vestendo i panni di ebreo-francese-d’Algeria210 egli si sente, po- tremmo dire, un “apolide della lingua”, nel senso che parla una lingua che non è la sua. La lingua madre non esiste, infatti, nel suo caso parla la lingua madre dell’altro, questa non sarà mai un possesso ma sempre un prestito, e quindi an- cora un debito. Ne Il sogno di Benjamin211 Derrida, paragonandosi ad Adorno,
circa il problema della ricerca di una lingua simile, materna, scrive:
«Quel che infatti di Adorno comprendo meglio e condivido di più con lui, fino alla compassione, è forse il suo amore per la lingua, ma anche una sorta di nostalgia per quella che è comunque stata la sua propria lingua. Nostalgia originaria, nostalgia che
210 Cfr. J. Derrida, Il monolinguismo dell’altro, Raffaello Cortina, Milano 2004; Laura Odello, Parla-
re, tradursi, in «aut-aut», n. 334, 2007, pp. 174-180.
Una citazione che rende al meglio il suo complesso rapporto/non-rapporto con l’ebraismo, vis- suto in modo radicalmente diverso rispetto ai filosofi citati nei capitoli precedenti, potrebbe es- sere la seguente: «Come se mi fosse sempre risultato necessario guardarmi dall’ebraismo per mantenere in me qualche cosa che soprannomino l’ebraicità: […] guardati dall’ebraismo, guar- datene per custodirlo, per conservarti ebreo o per conservare l’Ebreo in te», J. Derrida, Abramo,
l’altro, Cronopio, Napoli 2005, pp. 40-41. Ma non si tratta solo di religione, il problema per Der- rida consiste nel fatto che qualunque posto si occupi nel mondo si è sempre due volte estranei, estranei per gli altri e per sé stessi, poiché anche ciò che crediamo nostro è poi solo un debito: «Le ampie meditazioni di Derrida sulla sepoltura, sul nome, sulla memoria, sulla follia che abita il linguaggio, l'esilio e la soglia, "sono altrettanti segnali rivolti alla domanda del luogo, che invi- ta il soggetto a riconoscere d'essere per prima cosa un ospite". Svolgendo quella che chiama "il teatro invisibile dell'ospitalità", il filosofo ripercorre alcuni tratti dell'elaborazione di Lèvinas, in particolare quelli in cui afferma che "il soggetto è un ospite" o che "il soggetto è un ostaggio"», cfr. G. Ricci, Derrida multietnico, una riflessione sullo straniero nella nostra società, in «Avvenire», 18 Marzo 2000.
211 J. Derrida, Il sogno di Benjamin, Bompiani, Milano 2003. Questo testo è tratto dal discorso te-
nuto da Derrida nel settembre del 2001 a Francoforte a seguito del premio ricevuto dalla città medesima, il premio Adorno. Il breve discorso vuole così essere un elogio ad alcuni tratti dello stesso Adorno accostato ai maggiori temi, trattati trasversalmente, che hanno occupato l’indagine filosofica derridiana.
137
non ha atteso la perdita storica o effettiva della lingua, nostalgia congenita. Come se questa lingua fosse stata persa fin dall’infanzia, fin dalla prima parola […]»212.
Allora se grazie a questa citazione, che funge da esempio, riusciamo a vedere come Adorno abbia bisogno di considerare il tedesco come contenente in sé tan- to la radice di ogni termine filosofico quanto valide proprietà oggettive e scien- tifiche, notiamo anche che Derrida, pur concedendo ad Adorno la liceità di con- tinuare ad amare la propria lingua tedesca, non risparmia colpi di sciabola ver- so quelli che potremmo definire “i fantasmi onto-teologici-politici di una sovra- nità indivisibile”213, nonché verso ogni presunta metafisica della lingua.
Così la traduzione pare l’unico modo per insinuarsi in ogni presunta molteplici- tà cercando di portarla, anche solo per un istante all’unicità. Ma non è il tradut- tore incapace nel suo lavoro, né tantomeno è il francese che sull’avenue des Champs-Élysées dialoga con un estraneo a non essere in grado di cogliere il ve- ro e pieno senso di questa lingua pura o lingua madre. No, non è questione di inettitudine, si tratta invece di scoprire la non esistenza di una lingua simile. Questa vorrebbe essere l’origine e la meta, ma dimentica la dissimmetria che la costituisce, dimentica che richiede di essere tradotta ma che è intraducibile: per questo è folle per Derrida; per questo si spiega in parte come decostruzione possa significare “più di una lingua”, per questo vediamo già da ora Babele è presente ed è irredimibile.
212 Ivi, p. 20.
138
Ma soprattutto per Derrida andare contro il monolinguismo - e quindi applicare la decostruzione - significa opporsi ad una sovrastruttura che tiene insieme vari concetti, varie posizioni fra cui la stessa vana pretesa di unicità linguistica: tale struttura delle strutture è ciò di cui Derrida rintraccia la presenza in tutta la sto- ria della metafisica occidentale e alla quale dà il nome di “Ontoteologia”, “Logo- centrismo” – o in altri momenti, e giustificheremo poi il perché, parlerà di “Fallo- gocentrismo”. Si tratta di un profondo dissenso nei riguardi di quella metafisica della scrittura fonetica, aspetto che ha segnato l’intero percorso della storia della metafisica in generale da Platone a Husserl214, bandendo il valore della scrittura a semplice mezzo e assegnando il primato e il privilegio di veridicità esclusi- vamente al logos. E’ a questo che si rifà esattamente la citazione di Agostino che ho riportato in esergo a questo capitolo, ed è esattamente questa aureola sacrale con la quale è stato rivestito il logos che deve sparire.
E’ da notare come il filo conduttore del nostro discorso non accenni a spezzarsi per il semplice fatto che come fino ad ora si è parlato di linguaggio e traduzio-
214 Non mi dilungo sul perché Derrida abbia utilizzato come referenti questi due filosofi, perché
si entrerebbe in un campo minato troppo arduo da attraversare senza rischiare di allontanarci troppo dal nostro tema principale. Perciò rimando alle pagine in cui è Derrida stesso a offrirne una spiegazione più precisa: J. Derrida, Della Grammatologia, Jaca Book, Milano 2006, pp. 38-48. Ma una spiegazione sintetica e precisa può essere desunta una citazione Maurizio Ferraris: «In fin dei conti tutti i decostruiti da Derrida sono dei decostruttori, quasi che l’essenza della deco- struzione consistesse nel mostrare che il decostruito è in realtà il decostruttore. E’ così da Plato- ne a Husserl: se la decostruzione consiste nel mettere in luce delle rimozioni presenti all’interno della tradizione metafisica, e se le rimozioni sono strutturalmente evidenti, cioè non sono mai perfettamente realizzate e si manifestano attraverso lapsus filosofici, allora la decostruzione in- comincia già nella tradizione, per esempio nel momento in cui Platone condanna la scrittura e poi sostiene che l’anima assomiglia a un libro. Dunque abbiamo una decostruzione prima della decostruzione, nel pieno della tradizione metafisica», cit. da M. Ferraris, Ricostruire la decostru-
139
ne, di confusione e di ricerca della lingua pura, di due facce della medaglia, una positiva e una negativa, e ancora adesso pur cambiando leggermente i sostanti- vi del vocabolario in gioco, resta comunque la stessa contrapposizione fra ele- mento divino ed elemento umano: il problema è che ora per Derrida ciò che era inteso come divino, e quindi positivo, diventa negativo e viceversa, quasi come se dicesse che prima di Babele vi era solo negatività, o meglio che non c’è mai stato un prima rispetto a Babele in quanto il reale è da sempre, ancora, solo la confusione.
Parlare della traduzione implicava fra le righe il riferimento all’attività dello scrivere che alterava, abbiamo detto, il senso dell’originale non riuscendo mai a renderlo nella sua pienezza. Ciò avvenne, ribadisce Derrida, semplicemente perché quella pienezza era una menzogna. Ora questa stessa riflessione viene applicata ai due termini - parola e scrittura - protagonisti dello scritto derridiano per eccellenza, Della Grammatologia.
Circa la differenza/uguaglianza del rapporto parola e scrittura che andremo delineando fra breve riporto delle brevi domande poste in un’intervista a Silva- no Petrosino, nella quale egli presenta un suo libro, e in cui vengono anticipati i punti caldi della nostra analisi in modo molto elegante e chiaro:
«Lei nel suo libro tratta il linguaggio e la scrittura, questi "infiniti intrattenimenti", sempre come simili. Dove è la differenza tra parola e scrittura?
"Qui è importante la lezione di Derrida. La scrittura non è una grafica. La scrittura è quella di un uomo sempre concreto, legato alla materialità. Nelle mie lezioni dico sem-
140
pre che se un uomo dice a una donna ti amo e le dà un bacio, ecco che non c'è un ti amo che non si scriva e il bacio, la carezza sono la scrittura del ti amo”.
Lei sostiene anche che nel linguaggio è insita una distanza, rispetto alla realtà: per- ché la parola non esaurisce mai la distanza infinita rispetto alla realtà?
"Il linguaggio è un atto mancato rispetto alla realtà. L'uomo è limitato non perché ca- rente: la realtà eccede sempre la rappresentazione. Giustamente Blanchot parla di infi- nito intrattenimento. Il dire "ti amo", per restare all'esempio, sempre si ridice. Come in letteratura, questa distanza inerisce alla fecondità, non è défaillance".
Ed è questo che rende possibile la parola?
"La rende possibile e fa sì che si continui a ridire. L'idea dell'esperienza come atto man- cato c'è perché è l'esperienza del reale che sempre eccede"»215.
E’ tramite l’analisi provocatoria e il confronto di questi due termini , parola e scrittura, che si può smascherare la menzogna della metafisica e mettere fuori gioco l’ontoteologia dichiarandone l’inganno. Petrosino, sottolineando che la pa- rola non esaurisce mai la distanza infinita rispetto alla realtà, apre le porte alla nostra analisi in compagnia di Derrida. Le risposte date in questo stralcio di in- tervista saranno comprensibili in maniera nitida ad analisi compiuta.
Per ora chiariamo che ho usato l’aggettivo “provocatorio”, riferendomi al me- todo derridiano, perché si trova perfettamente in armonia col modo di rappor- tarsi alla società e alla tradizione che egli utilizza, e per averne una prova è suf-
215 P. Rossi, E il linguaggio si fece carne. Le parole e le cose: linguaggio e limiti della scrittura. Parla Pe-
trosino, in «Avvenire», 4 Agosto 1999. Il testo di Petrosino cui si fa riferimento è Testo, moralità e
141
ficiente leggere il titolo del primo capitolo Della Grammatologia, La fine del libro e l’inizio della scrittura216. All’interno di quest’ultimo sono contenuti tutti i tasselli a noi utili per ricomporre la critica al logocentrismo e offrirne una nuova solu- zione che si possa utilizzare come punto di riferimento in luogo del logos puro che deve essere demolito.
Dunque, per comprendere al meglio il titolo cominciamo con il sottolineare co- me - senza stupore per noi, data la serie di argomentazioni sostenute nei capito- li precedenti -, sebbene il problema del linguaggio abbia costituito l’orizzonte su cui si è mossa l’intera epoca storico-metafisica, l’attenzione si è spostata spesso in questa stessa epoca verso la scrittura, finora intesa però come pellicola esterna in secondo piano, come “significante di un significante pieno” – spiegheremo fra breve il perché dell’uso di questi termini -, che, in quanto mera tecnica, per- mettendo un gioco di parole, poteva solo tradurre la pienezza della parola pie- na presente nel discorso vocale intaccandone appunto la “presunta pienezza“. Da un lato, il privilegiare la “parola parlata”, la “voce”, si direbbe volgarmente, è sempre stato considerato, non come una scelta che si sarebbe potuta evitare, ma come un “momento necessario all’economia dell’essere”217 – ovvero nel sen- so di un’esperienza interiore della sovranità del sé. Si tratta, del cosiddetto s’entandre parler, il sentirsi parlare, per cui la voce è intesa come un significante non esteriore, non mondano e contingente, posto dal lato del trascendentale, ed è proprio su questo sistema fonologocentrico che si è prodotta l’origine del mondo (aspetto che più volte abbiamo sottolineato nei capitoli iniziali).
216 Ivi, pp. 23-48. 217 Ivi, p. 25.
142
D’altro canto però, riducendo la scrittura a tecnica si perde tutto ciò che ci aiute- rebbe a comprenderne il vero concetto. Alla luce di questa critica si rende palese come il titolo su citato La morte del libro e l’inizio della scrittura non abbia come pretesa quella di intendere la morte dei testi e la nascita di un qualche nuovo ti- po di carattere grafico, bensì miri ad indicare come sia giunto il momento di mettere fine all’equazione “verità” uguale “forma libro”, utilizzando la scrittura solo come una certa sagoma estetica capace di chiudere all’interno di pagine ri- legate il significato dell’universo. I libri non cessano di esistere: semplicemente non devono più essere intesi come l’orizzonte su cui pensare la totalità; si tratta dunque di una metafora per indicare solo la chiusura dell’epoca onototeologica. Morte del libro significa propriamente “morte della parola piena”, scomparsa del “pre-Babele”: ma ancora ci si trova in una tappa intermedia, spiega Derri- da, per cui si preannuncia ciò che sarà, ovvero la fine e la morte di questa con- cettualità logocentrica, ma nel frattempo è indispensabile ricercare il modo in cui tale logos possa essere subordinato alla scrittura.
«[…] All’interno della chiusura, bisogna circoscrivere i concetti critici di un discorso prudente e minuzioso, stabilire la condizioni, l’ambito ed i limiti della loro efficacia, di- segnare rigorosamente la loro appartenenza alla macchina che essi permettono di de- costruire; e ad un tempo la falla da cui si lascia intravedere […] il chiarore dell’oltrechiusura»218.
218 Ivi, pp. 32-33. Parlando di “chiarore dell’oltrechiusura” Derrida non può far a meno che col-
legarsi a quello che con Rousseau è stato l’altro suo grande punto di riferimento, ovvero Nie- tzsche. E infatti, proponendosi come colui che annuncia qualcosa che verrà fra breve è come se riprendesse il modo nietzscheano di annunciare ne La Gaia Scienza la nuova luce di cui i filosofi
143
Proprio per questo motivo va sottolineato anche come non si può neanche par- lare di un inizio della scrittura, dal momento che questa non ha un inizio ma esi- ste già da sempre – anticipando aggiungiamo che esiste sì da sempre ma come archiscrittura, ovvero come condizione di possibilità sia del linguaggio che della parola scritta.
Il referente polemico è allora l’origine piena, un assolutamente primo, una pre- senza piena, di cui il logos si fa personificazione, ma che non esiste assoluta- mente, dal momento che il reale per Derrida si costruisce come “sistema di diffé- rance” (lascio volutamente in sospeso la spiegazione di questo strano mostro grammaticale per dedicargli fra breve un chiarimento a sé stante).
Dopo aver indicato quale sia il bersaglio polemico occorre rintracciare, così co- me la tattica decostruttiva vuole, delle contraddizioni già all’interno dell’imperialismo del logos, e per far ciò è necessario mettere fuori gioco tutta una serie di determinazioni metafisiche sulle quali tali logos si è sorretto nel tempo.
La voce è sempre stata considerata “l’essere come presenza”, dice Derrida, e ad attestarlo è ad esempio l’esposizione che ne fa Aristotele nel De interpretazione (1, 16 a 3), per cui siamo ancora davanti ad un lavoro di traduzione in cui il no- stro essere trova un suo primo significante nel logos vicino ai patemi della no- stra anima, per scoprire poi un significante ulteriore nello strumento grafico,
potranno godere dopo aver udito il messaggio della morte di Dio. (Circa il riferimento a Rous- seau, Nietzsche e Gide come suoi maestri e guide rimando all’intervista contenuta in J. Derrida,
144
nella struttura, come mera fissazione di dati (in relazione ad un’interpretazione simile si parla in modo analogo di logocentrismo come fonocentrismo).
Facciamo attenzione però, prosegue Derrida, al fatto che nel momento il cui la scrittura viene utilizzata si ha l’entrata in scena del contraltare del logos, ovvero si parla di “presenza di un’assenza” radicata nel segno, che a sua volta, seguen- do la strada esplicativa tracciata da Ferdinand de Saussure, Derrida suddivide in significante e significato – già in altri luoghi in questo elaborato è stata utiliz- zata questa suddivisione che ora viene giustificata -, divisione che richiama la classica contesa fra sensibile e intelligibile, sottolineando però come (analoga- mente alla reazione chimica che crea una molecola d’acqua i due atomi di idro- geno e quello d’ossigeno da soli non hanno le stesse caratteristiche che assumo- no reagendo fra loro) così anche significato e significante hanno valore solo re- landosi l’un l’altro.
Il problema subentra allora nuovamente nel momento esatto in cui nella storia del creazionismo e dell’infinitismo cristiano si ha avuto la pretesa di indicare la presenza di un significante primo e puro libero dal significato, e tutto ciò è di- venuto il corrispondente della trascendenza cui la metafisica occidentale è de- vota219. Il riferimento che Derrida fa alla storia del creazionismo è stata sottoli- neata più e più volte nei capitoli precedenti, ma può essere sintetizzata ancora con il classico esempio del prologo del Vangelo di Giovanni “in principio era il verbo”, per cui è sempre la “parola” di Dio che crea il mondo; e se abbiamo det- to in precedenza che l’uomo si fa simile a Dio, allora anche per l’essere umano il
145
logos occuperà una posizione privilegiata rispetto ad ogni altro mezzo comuni- cativo, tanto che con Babele l’uomo tramite la stessa parola cosificata nella torre indica di voler muovere guerra a Dio stesso, e la punizione divina colpirà pro-