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Scrittura e linguaggio rapporto di compresenza o di derivazione?

La lingua pura sconfitta dalla Différance

2.2. Scrittura e linguaggio rapporto di compresenza o di derivazione?

Proseguiamo seguendo lo stesso schema che ci ha accompagnato nei capitoli precedenti: stabilito il referente polemico – la ricerca dei “fallaci motivi che hanno protratto nel tempo questo (ripetiamolo con Ferraris) narcisistico amore di sé del logos” - ossia l’obiettivo, procediamo con il raggiungimento di una possibile concretizzazione dell’antitesi che si cerca di sostenere. Nel caso di Derrida serve stabilire i criteri di edificazione di una scienza della scrittura, di una grammatologia, che vada oltre le classificazioni consuete di carattere teleolo- gico e filosofico che riempiono le biblioteche.

221 Cfr. J. J. Rousseau, Emilio, Laterza, Bari 2008, pp. 176; 189-205. 222 Maurizio Ferraris, op. cit., p. 52.

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Compare però un elemento capace di ingarbugliare i fili che stiamo cercando di tenere sospesi, per poi sperare di avvolgerli attorno ad una base comune che of- fra una visione ordinata dell’insieme, e quest’elemento di disturbo è una carat- teristica tutta derridiana, ovvero il dover spiegare il suo punto di vista deco- struendo quello altrui: nel nostro caso, per risolvere un primo problema legato alla possibilità di una scienza della scrittura, il riferimento è a Saussure.

Cerchiamo di estrapolare brevemente dalla trattazione abbastanza densa che Derrida fa dei capitoli primo e sesto del Corso di linguistica generale223 i punti principali:

1) Innanzitutto Saussure espone la differenza fra scrittura come fenomeno ristretto rispetto a cui il linguaggio ha una tradizione indipendente che costituisce il principale oggetto di indagine della linguistica, ma anche come fenomeno derivato, ovvero come rappresentativo del significante del significante primo, come “ragion d’essere del linguaggio”.

2) A ciò associa la celebre rielaborazione del concetto di segno per la quale al posto del concetto assume rilevanza il significato e in luogo dell’immagine acustica si stanzia il significante, immotivato rispetto al si- gnificato col quale “non ha legami naturali”: ecco perché si parla di arbi- trarietà del segno. Al contrario il simbolo implica il rudimento di un qual- che legame naturale fra signans e signatum (perciò il simbolo della giusti- zia, la bilancia, non potrebbe essere sostituito a caso).

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3) Saussure propone altresì la distinzione fra langue e parole: quest’ultima è che è sempre di un singolo individuo, è composta da strutture che pos- sono essere viste come "messaggi", formati in base a un dato codice, "se- quenze sintagmatiche" di elementi ricavati dagli inventari paradigmatici, "messa in atto" effettiva, nel discorso, delle possibilità offerte in potenza dalla langue; per langue invece si intende un fatto sociale che esprime idee conosciute attraverso la scrittura. Questa non fa parte di quello che si de- finisce “sistema interno della lingua” ma comunque non è possibile farne astrazione, tanto che ha dato forma a due possibili sistemi: l’ideografico e l’alfabetico.

4) E infine il fatto che la scrittura esista come raffigurazione della parola parlata la porta spesso a prendere il sopravvento su quest’ultima, dal momento che psicologicamente l’immagine grafica ha maggior presa sul pubblico ed è considerata più duratura nel tempo, il che implica un “tra- vestimento” della lingua che porta la scrittura ad esser intesa come male, peccato, come elemento perfido che altro non fa se non creare mostri –, che non fanno parte del gioco naturale della lingua ma che nascono per forze ad esso estranee ed esterne -, cancellando il rapporto puro fra pen- siero e suono: si dice che ciò provochi una “sovversione dell’ordine natu- rale” – ordine che prima aveva negato nel punto 1. Ecco dove si posizio- na la contraddizione per cui si può parlare di “decostruzione prima della decostruzione”.

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Affianchiamo a questi punti la decostruzione derridiana – ovvero quell’attività che, come direbbe Brecht, annuncia i limiti di ciò che pare ovvio - in maniera altrettanto schematica, invertendo leggermente l’ordine dei punti su espressi e sperando di esser più chiari:

- vs 1) Occorre affermare che anche il linguaggio finisce poi per svelarsi come scrittura, ed è stato il voler intendere ad ogni costo la scrittura co- me storia di una tecnica che ha finito con il sospendere ogni riflessione capace di far notare come alla fine il “fuori”, la scrittura è già da sempre “dentro”, è già da sempre linguaggio, e il perché è giustificato nei punti successivi.

- vs 2 e 3) In questo caso l’opposizione è solo parziale, dal momento che anzi la distinzione fra significato e significante è il punto chiave capace di smontare la trappola del logos. Questo perché anzitutto non vi dovrebbe essere distinzione fra segno linguistico e segno grafico, dal momento che definendo la scrittura come “istituzione durevole di un segno” sarebbe paradossale pensare all’istituzione di un qualcosa che non prevedesse di già la possibilità della scrittura; in più si rifiuta anche l’ulteriore defini- zione di scrittura come “simbolo naturale della lingua relegata all’esterno del sistema linguistico” in ossequio a quanto riportato nella definizione di “arbitrarietà del segno” da Saussure stesso espressa. Ecco dove Derri- da rintraccia il tallone d’Achille saussuriano, ovvero nella ricerca anche da parte sua di un significante trascendentale puro. Allora si potrebbe riassume il tutto affermando che i “linguisti altro non sono che criptoteo-

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logi”; non per nulla è ancora un riferimento a Nietzsche che potrebbe ri- solvere in un’ulteriore sintesi il tutto, giacché quest’ultimo, nel Crepuscolo degli idoli, indica che “crederemo in Dio finché crederemo nella gramma- tica”.

Se tutto ciò viene criticato è perché il meccanismo decostruttivo permette di identificare all’interno della grafia una “traccia istituita” o “architrac- cia” che si mostra - e qui riprende il sopravvento il Derrida maestro dei paradossi - come “assenza nella presenza di una traccia” contro ogni po- sizione metafisica.

- vs 4) Dunque non si tratta di un’usurpazione effettuata dalla scrittura nei riguardi della lingua, quanto piuttosto di una radice comune fra i due e- lementi che va ricercata e il primo passo per farla risalire alla luce è quel- lo, da parte di Saussure, di negare lo stesso elemento che gli aveva, fal- samente, permesso di eliminare la scrittura, ovvero, deve venire meno il rapporto naturale fra senso e suono, per cui si dirà che: “l’essenziale del- la lingua è estraneo al carattere fonetico del segno”; il suono sarà un ele- mento materiale che la lingua adopererà e il significante linguistico sarà formato dalle differenze che divideranno la sua immagine acustica da tutto il resto.

Da questa breve e sicuramente irrispettosa sintesi circa la complessità dell’argomento si trae però la conclusione alla quale aspettavamo di giungere, per la quale il linguaggio naturale-originale non è mai esistito, ma è da sempre stato scrittura o meglio “archiscrittura”, “architraccia” – chiamata ancora volgar-

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mente scrittura quando invece si mostra come una totalità di differenze e non può essere ridotta alla forma della presenza, né tanto meno può essere definita un’origine224, dal momento che questo è un termine prettamente metafisico225. Si tratta, sempre paradossalmente parlando, di un’origine che cancella l’origine, perché è già da sempre, non c’è un cominciamento assoluto, tutto è un gioco di differenze e di rimandi. E’ fuori e dentro insieme al sistema linguistico, è inac- cettabile dalla logica dell’identità dal momento che prosegue il suo percorso grazie alla pratica della “barratura dei concetti”: abbiamo barrato il verbo esse-

224 Il dovere di rispettare Nietzsche in quanto modello e guida per Derrida mi spinge a riportare

brevemente una considerazione che di certo Derrida qui non espone in maniera diretta, ma che sembra avere comunque presente in modo ben definito. Sto riferendomi al sottile lavoro filolo- gico che Nietzsche riporta nel suo breve e inteso testo Su verità e menzogna in senso extramorale circa il termine “origine”. Il punto di partenza è una citazione che recita quanto segue: « In un angolo remoto dell’universo scintillante, diffuso in innumerevoli sistemi solari, c’era una volta un astro sul quale animali intelligenti inventarono la conoscenza. (Fu il minuto più tracotante e più menzognero della “storia universale”; ma fu solo un minuto. […]) Questa superbia legata al conoscere e al sentire, che ricopre gli occhi e i sensi degli uomini di una nebbia abbacinante, li inganna sul valore dell’esistenza […]».Lo scandalo dissacrante sta ora nell’affermare che la co- noscenza fu inventata. Si apre così una breve analisi etimologica dei termini origine [ursprung] e invenzione [erfindung]. Con Foucault in Nietzsche, la genealogia, la storia leggiamo che il “genea- logista ha bisogno della storia per scongiurare la chimera dell’origine”, e che se con l’origine si cerca di cogliere l’essenza della cosa/del fatto, nella sua unità originaria, partendo dall’alto, sa- rebbe sempre equivalente alla narrazione di una teogonia. Dall’altro lato, invece, l’invenzione, associata ad altri termini quali la “provenienza” e l’”emergenza” (il momento della nascita), svela l’inizio delle cose in un mondo dominato dal caos, per cui si parte dal basso, contro un i- nizio solenne si pensa alla piccolezza della fabbricazione per gradi delle cose. Ma più di tutto si nota che l’inizio è dato dall’interstizio fra dominati e dominatori. Detto brevemente ciò pare proprio che Derrida lasciando da parte l’invenzione si scagli esattamente contro lo stesso peri- colo indicato da Nietzsche dell’origine. I testi di Nietzsche cui ho fatto riferimento corrispondo- no a : F. Nietzsche, Su verità e menzogna in senso extramorale, BUR, Milano 2009, pp.125-126 e M. Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Il discorso, la storia, la verità, Einaudi, Torino 2001, pp. 43-64.

225 Prima però di proseguire ulteriormente nella nostra analisi mi preme aprire un breve inciso

indicando per correttezza come l’aggettivo “paradossale” tante volte già associato a Derrida fi- no ad ora possa essere inteso anche in maniera diversa: Ferraris ne riporta la trattazione per cui non si dovrebbe parlare di un Derrida oscuro, piuttosto di un Derrida idiomatico per il quale la decostruzione non è solo un tema ma è soprattutto uno stile, una firma di autenticità da apporre ai suoi lavori. Cfr. M. Ferraris, op. cit., pp. 81-83.

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re, la parola origine e ora anche la parola esperienza, poiché rimanda al rappor- to con un’altra presenza sotto uno stadio cosciente, dunque è qualcosa di trop- po ontoteologico per rimare immune da critiche.

Ma se la condizione di possibilità della nostra conoscenza, così come del parlare e dello scrivere sono contenute in questa struttura che non ha tempo (dicendola con Ferraris ancora una volta: «Le categorie che secondo Kant mediano il nostro rapporto con il mondo sono trasposte da Derrida nella nozione di “archiscrittu- ra”»), nozione che quindi vorrebbe portare alla ribalta tutta quella serie di segni utili per una costruzione del reale rimossi sistematicamente dalla storia del lo- gocentrismo226.

Eppure, ci spiega Derrida, l’unico modo per comprendere a fondo l’”archi trac- cia” o l’”archiscrittura” è definirla col suo nome principale: la Différance.

2.3. La Differance

Proprio in relazione all’ultima citazione riportata Ferraris, che definisce Derrida il sostenitore di una “critica della ragion impura”(dal momento che occorre eli- minare ogni pretesa di purezza e di unità nella lingua, nelle lingue, e indossare le lenti della decostruzione che portano innanzi all’osservatore una realtà sem- pre e comunque duplice, dove le coppie d’opposti non possono mai trovarsi scisse) possiamo affrontare il problema che sorge laddove non si tratta solo di

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definire, nell’attività decostruttiva, la storia di coppie di concetti, ma di “fasci di differenze”:

«La decostruzione deve in primo luogo portare alla luce queste relazionalità, il fatto che un termine non può esistere senza l’altro proprio come, nella dialettica di Hegel il signore non esiste senza il servo, o l’identità senza differenza, e dunque in ultima i- stanza ne dipende. La differenza è allora implicazione, complicità nascosta»227.

Urge una chiarificazione formale a questo punto, che è poi la chiarificazione classica che riporta chiunque intenda cimentarsi con Derrida: che differenza passa fra le différence e la différance? Come nel caso del titolo del saggio sulla tor- re di Babele, ancora una volta la confusione regna sovrana nel campo linguisti- co proprio perché anche in questa circostanza la fonetica francese porta a legge- re le due parole tramite il dittongo en, che vocalmente diviene an. Ma se pro- nunciare “différance” è corretto, scriverlo è un errore ortografico? Derrida ri- sponderebbe dicendo forse che si tratta di un orrore per la tradizione più che di un errore per i linguisti, necessario nella forma in cui appare, lontano da ogni critica grammaticale.

Veniamo però alle giustificazioni di questa posizione tratte dal testo di una con- ferenza pronunciata da Derrida nel 1968 alla Società francese di filosofia228. In- nanzitutto non è corretto definire la différance né un concetto né un parola, dal

227 Ivi, p. 61.

228 Ora il testo si trova nella traduzione italiana in J. Derrida, La différance, in Margini della filosofi-

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momento che le daremo un’unità che non possiede: si tratta di un “fascio”229 contenente lo sviluppo della tradizione sociale-fonetica-grafica. Ma così è anco- ra troppo complesso. Si può parlare allora di différance secondo due accezioni: 1) nel senso del differre latino per cui si tratterebbe di un differire espresso in luogo di un tener conto del tempo e delle forze delle differenze, con la “e”, che ne sono il prodotto, che si avvicendano, rimandando sempre più in là un qual- siasi tipo di conclusione o di origine, frutto di un forte desiderio che cerca sod- disfacimento, semplicemente perché tutto ciò che si voleva compiuto in modo definito e definitivo non poteva esistere: tutto questo si riassume nel termine temporeggiamento.

2) Ma ancora si può intendere la nostra différance secondo il classico “non essere identico all’altro”, essere appunto “altro”: e tutto ciò con un nuovo concetto si definisce spaziatura, definizione intermedia fra unità e molteplicità linguistica230. Ma per quanto ci si sforzi di leggerla o di scriverla risulta sempre e comunque non comprensibile all’intelletto. Tuttavia cosa ci consente di distinguere i fone- mi e i grafemi l’uno dall’altro? E’ un ordine, ci dice Derrida, che sfugge al bipo- larismo sensibile-intelligibile tradizionale, che non è mai presente – ricordiamo

229 «La parola fascio sembra più propria a rimarcare che la raccolta proposta ha la struttura di

un groviglio, di una tessitura, di un incrocio che lascerà che i differenti fili e le differenti linee di forza riprendano la loro strada così come sarà pronto ad annodarne degli altri», ivi, p. 30.

230 Ferraris a suo modo semplifica ulteriormente la valenza assunta dal nostro “neo-mostro-

logismo” scrivendo che: «In francese differenza, il fatto che due cose siano differenti, si scrive

différence, con la “e”, anche se le due parole sono omofone. Il neologismo, che sembra un errore di grammatica, trasforma la différence in un gerundio, ossia sottolinea l’atto del differire, del rin- viare. L’alterazione ortografica esprime in modo economico il pensiero di Derrida: i termini del- le coppie oppositive che fanno parte della nostra tradizione non esistono autonomamente ma si generano l’uno in relazione all’altro, e il tempo è chiamato a mostrare la complicità che sta sotto l’opposizione», M. Ferraris, op. cit., p. 61.

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la barratura del verbo essere già applicata precedentemente contro il veleno dell’ontoteologia -, che porta avanti un gioco guidato da una “tattica cieca” e da un “calcolo senza fine”231. Si tratta di utilizzare la différance anche in modo eco- nomico, giacché la différence non è capace di contenere nel suo insieme tutte le sfaccettature finora esposte, ed è così che quest’ultima finisce con l’essere de- terminata come un momento della prima, come uno dei suoi effetti.

Ritorniamo un attimo ai due significati principali che abbiamo stabilito inizial- mente: différance come temporeggiamento e come spaziatura; il loro legame è rin- tracciabile per Derrida in duplice maniera. In primo luogo grazie alla scrittura, così come l’abbiamo a sua volta definita, ovvero “presenza di un’assenza”, o meglio ancora possiamo dire adesso “una presenza differita”, quindi non c’è più la possibilità di definire la scrittura come elemento secondario e provviso- rio, ma già da sempre preso nel gioco della différance. Utilizzando alcune cate- gorie già chiarite poc’anzi vediamo come questa compartecipazione di significa- ti e di segni infinita, senza la riducibilità ad un’origine era presente fra le righe già in Saussure, dice Derrida, deducibile proprio dal fatto che si parlava di arbi- trarietà del segno e di carattere differenziale di quest’ultimo come un tutt’uno:

«non ci può essere arbitrarietà se non perché il sistema dei segni [intendendo tanto il significato che il significante] è costituito da differenze, non da termini pieni» e da ciò risulta appunto che «ogni concetto è in via di diritto iscritto in una catena o in un si-

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stema all’interno del quale esso rinvia all’altro, agli altri concetti, per gioco sistematico della differenze. Tale gioco è la différance, la possibilità della concettualità»232.

Per una logica che non esiste anche la stessa différance finisce con l’essere presa all’interno di questo suo stesso gioco. Ecco perché dicevamo neanche in questo caso è corretto parlare di origine, sarebbe invece semi-corretto dire che «diffé- rance [è] il movimento secondo il quale la lingua, si costituisce storicamente co- me tessuto di differenze»233. Dico che ciò sarebbe “semi-corretto” poiché anche le categorie di costruzione e produzione devono essere intese, per Derrida, co- me distanti da ogni richiamo metafisico (sarebbe forse dire che devono essere barrate anch’esse?). Ma comunque ogni costruzione occupa un suo spazio e un suo tempo; perciò vediamo ancora come sotto la guida della différance la pre- senza piena è nulla dal momento che ogni istante presente è connesso alla riten- zione verso il passo e alla protenzione verso il futuro e a causa di ciò l’uomo, in quanto essere fratto, si costruisce come un sistema di differenze che retroagi- scono fra loro.

«Ed è questa costituzione del presente, come sintesi originaria e irriducibilmente non semplice, dunque, non-originaria, di marchi, di tracce di ritenzioni e protenzioni che io propongo di chiamare archi-scrittura, archi-traccia o différance»234 e di quest’ultima va

sottolineato inoltre che «non comanda nulla, non regna su nulla e non esercita da nes- suna parte alcuna autorità. Non solo non c’è un regno della différance ma essa fomenta

232 Ivi, p. 37. 233 Ivi, p. 39. 234 Ivi, pp. 40-41.

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la sovversione di ogni regno. Il che la rende evidentemente minacciosa e infallibilmente temuta da tutto quello che in noi desidera il regno, la presenza passata o avvenire di un regno»235.

Grazie a questa definizione riusciamo a comprendere come la presenza di una parola, di un significato, non sarà più “la” forma dell’essere, ma solo uno dei tanti e diversi possibili effetti del gioco che abbiamo descritto.

Affianco alla différance però abbiamo posto anche l’archi-traccia. Questo perché, dire “traccia” è come dire, ancora una volta, sparizione dell’origine? Si tratta più che altro di indicare come tale origine non è scomparsa, solo non è mai esi- stita. E’ ancora un gioco di rimandi come si può vedere, poiché se tutto ha inizio con una traccia, allora non c’è traccia originaria. Ecco perché dire traccia pura è come dire différance236.

Ma non è finita qui. C’è un ulteriore passaggio che permette di collegare l’aspetto temporale – ovvero articolazione - a quello differenziale, e questo con- siste nella ricerca di un vocabolo che condensi ambo due gli aspetti: la fenditura, brisure (parte rotta, frammento, spacco, frattura), la chiama Derrida237. Infatti, dal momento in cui il movimento della différance permette l’articolazione foneti- ca e grafica, è proprio in quest’articolazione che nulla avrebbe senso se non vi fosse una spaziatura: che si tratti degli spazi bianchi fra una parola e l’altra su un