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Dal mito di Babele alla teoria mistica del linguaggio

3.3. Rapporti fra parola e scrittura come rapporto fra umano e divino

Dire mistica del linguaggio è per i cabbalisti sinonimo di mistica della scrittu- ra87. Tant’è che parlando si creano, si incidono nello spirito le forme, le linee sante delle lettere che si utilizzano di consueto e il cabbalista trae dall’analisi di tali incisioni la materia prima per il suo lavoro.

Scholem, riferendosi alla teoria del linguaggio di Isacco il cieco, sempre nel te- sto del 1970 che abbiamo preso in analisi nel paragrafo precedente, con l’immagine principalmente utilizzata della Tradizione, descrive il mondo delle sefiròt – cui abbiamo già fatto riferimento nelle pagine precedenti, definendole parole creatrici – come un grande albero88, i cui rami sono composti dall’espandersi di tali lettere divine che creano il Nome di Dio, inteso proprio come struttura, radice di tale arbusto. Essendo Dio e il suo nome radice, origine di ogni dove, nel suo parlare, scrive, ed è così che la “lettera diviene un elemen- to di scrittura cosmica”.

Ma anche la stessa Torah è composta da impronte grafiche, da caratteri scritti, nei quali i mistici leggono il solidificarsi del Nome di Dio. Lettura che non av- viene mai a senso unico nel corso del tempo, ma, parlando per immagini: ‹‹co- me la fiamma non ha un’unica forma e colore, così anche il rotolo della Torah non possiede nei suoi versetti un unico senso››89. Scholem accenna però al fatto

87 Questo argomento sarà oggetto di particolare attenzione nella seconda parte di questo elabo-

rato, nella sezione dedicata a Derrida.

88 Cfr. Scholem, Il nome di Dio …, op. cit., pp. 47-48. 89 Ivi, p. 66.

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che, per molti cabbalisti, il primato assunto dal Tetragramma, come Nome dei nomi, può essere riposizionato ad un livello pari agli altri nomi di Dio, poiché ognuno di questi indica una porzione precisa di governo che Egli applica al mondo. Appunto per tale motivo ‹‹i nomi divini sono al tempo stesso luci intel- lettuali e suoni››90 e ‹‹il linguaggio umano nasce proprio dal farsi suono della scrittura e non viceversa››91.

Si scopre ora l’obiettivo principale che i cabbalisti leggono nel linguaggio uma- no, ovvero ritrovare il Nome di Dio all’interno della loro stessa lingua. Quest’ultima è soggetta a delle differenziazioni, giacché nel linguaggio esterno che collega uomo ad uomo la comunicazione è fluida, basata su una grammati- ca, al contrario nella sua parte interna, invisibile, non vi è grammatica alcuna, ma solo lettere e Nomi. Cercare di decifrarne il senso può essere anche compito della preghiera nella mistica del linguaggio. Tant’è che per realizzare tale con-

In un altro testo da lui scritto Scholem riporta una citazione tratta da un frammento di testo di rabbi Eliyahu – predicatore e cabbalista ascetico del ‘700 – nella quale viene indicato come il ro- tolo della Torah dovette essere scritto senza interpunzione e senza vocali: ‹‹davanti a lui [Dio] c’era una serie di lettere che non erano congiunte in parole, come accade ora, poiché la disposi- zione vera e propria delle parole doveva avvenire secondo il modo e la maniera in cui si sarebbe comportato questo mondo inferiore. A causa del peccato di Adamo ordinò le lettere così da formare davanti a sé parole che descrivono la morte degli oggetti terreni.[…]La Torah non con- tiene nessuna vocale, nessuna interpunzione, nessun accento per ricordare che questa origina- riamente formava un mucchio di lettere non ordinate››, sarà Dio quando lo riterrà opportuno ad insegnare agli uomini a leggere quel testo secondo una nuova sistemazione delle lettere, che a loro volta racconteranno un’altra storia dell’uomo e per l’uomo. Cfr. G. Scholem, La Kabbalah …,

op. cit., pp. 95-96.

90 Cfr. ivi, p. 60. Se ora intendessimo la scrittura in senso metaforico, il gesto che Dio fa, di im-

primere nell’anima dell’uomo il suo nome, di soffiare sull’uomo il suo spirito divino e il suo movimento linguistico, rendendolo così essere vivente, potremmo avvicinare – tenendo conto delle dovute differenze di grado -, dice Scholem seguendo il pensiero di alcuni cabbalisti (cita il “gruppo ‘Iyyun” per l’esattezza), il nome dell’uomo a quello di Dio. Ciò sarebbe possibile in quanto nome ed essenza divengono inseparabili anche sul piano umano, come vale in senso di- vino.

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giunzione uomo-Dio un gran numero di preghiere – aspetti comunicativi, cor- redati a volte da rituali precisi privi però di sfondo magico, dal momento che non tendono a modificare, o meglio, a invocare la modifica del corso degli even- ti - divengono in traduzione, spiega Scholem, “spartiti musicali”, dove ad ogni nota si cerca di associare graficamente un Nome di Dio, per permettere agli ini- ziati di scoprire il loro vero senso attuando quasi una parafrasi della propria a- nima, dalla quale dovrebbe emergere poi il lato divino che Dio ha impresso in essa92.

Un altro punto di vista è rintracciabile in una riproposizione per stadi dell’evoluzione subita dal linguaggio che ha cura di decifrare in particolar mo- do l’ultimo stadio, quello della scrittura, che Scholem descrive facendo riferi- mento al cabbalista spagnolo Abulafia. Egli appartiene, come è riportato ne Le grandi correnti della mistica ebraica93, all’espressione estatica della Qabbalah, la qua-

le indica come suo vero obiettivo quello di ricondurre l’uomo alla contempla- zione dell’unità originaria, eliminando ‹‹quei sigilli che normalmente precludo- no la luce celeste del puro intelletto›› – sigilli apportati dall’osservazione che

92 Anche Franz Rosenzweig descrive la funzione assolta dalla preghiera nella sua seconda parte

de La stella della redenzione in modo più dettagliato. Semplificando parecchio, con preghiera qui si intende il rivolgersi dell’anima amata – credente – all’amante – Dio -; si intende il realizzarsi di una relazione che ha alla base un’accettazione fiduciosa dell’amore che Dio ha espresso in un suo comando (parlare di comando quando si parla d’amore parrebbe un paradosso, ma è lo stesso Rosenzweig a giustificare questa affermazione, sottolineando che per comandamento si può intendere una richiesta di relazione/rivelazione che Dio propone all’uomo, atteggiamento che non ha la pretesa né grammaticale né reale di blandire la superiorità del soggetto nei con- fronti dell’oggetto in suddetta relazione: l’uomo può dire anche “no”). Il problema subentra nel momento in cui si può rischiare di rendere unicamente biunivoco il rapporto amante-amato, creando una relazione che divenga refrattaria ad ogni altro al di fuori della coppia e che non trasformi il linguaggio utilizzato nel dialogo in linguaggio comunitario: questo è il pericolo se- gnalato come possibile da Rosenzweig nel “misticismo” esclusivo ed escludente.

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l’uomo compie sulle cose naturali, sulle immagini, che creano dunque degli “stampi naturali” capaci di sovrapporsi e occultare le tracce che Dio lasciò a sua volta nell’anima umana.

‹‹Giacché i cuori degli uomini sono per Dio ciò che per noi è la pergamena: questa è la materia che accoglie la forma delle lettere tracciate sopra di essa con l’inchiostro. Allo stesso modo per Dio i cuori sono le tavolette da scrittura, le anime sono l’inchiostro e il discorso che va da Lui alle anime, cioè la conoscenza, è come la forma delle lettere inci- se sulle tavole dell’Alleanza da entrambi i lati […] e sebbene il discorso di Dio non ri- cada sotto quelle categorie linguistiche in cui si esprime il cuore che le accoglie, esso è tuttavia discorso››94.

Intento nobile, ma come attuarlo?

Occorre concentrare l’attenzione meditativa dell’uomo sull’oggetto da cui sia- mo partiti in questo paragrafo: le lettere scritte, l’alfabeto ebraico. Solo attraver- so la metamorfosi combinatoria – che non è una grammatica, ma una “guida metodica” alla meditazione senza tenere come punto di riferimento ferreo quanto riportato nelle Sacre Scritture - di queste si può raggiungere la cono- scenza del movimento di Dio, la beatitudine. Badiamo bene però al fatto che una mal diretta congiunzione delle lettere può evocare, anziché il Nome di Dio, Satana, indice della materialità della natura, emblema dell’opera pratica della magia, dalla quale si deve sfuggire. Infatti, esiste sì un aspetto magico nella teo-

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ria del linguaggio descritta da Abulafia, ma questo va inteso solo come “qualco- sa di non comunicabile, che si irradia dalle parole”95.

E’ ora da notare come ogni singola lingua possa cercare di applicare questi pre- cetti, dal momento che persiste, come abbiamo più volte ricordato, in ogni lin- gua una scintilla di trascendente, di lingua sacra - dispersa rispetto alla sua tota- lità a causa della colpa dei costruttori della torre di Babele.

L’attenzione si concentra proprio sulle lettere, spiega Scholem, dal momento che Abulafia intende la creazione come “l’atto dello scrivere divino” nella sua prima fase; infatti, continuando il suo percorso, Dio intinge il suo linguaggio96 con quello umano e la sua scrittura con quella naturale attraverso lo stesso pro- cesso con cui la ceralacca prende la forma del timbro che viene spinto con forza in essa. E’ solo così che ogni lettera rappresenta un simbolo della creazione, è solo combinando diversamente le varie lettere che la profezia si compie e la par- te nascosta dell’animo umano può arrivare a contemplare pienamente Dio. Si tratta allora di un’unione tanto intellettuale quanto linguistica e il senso di que- sto ragionamento è racchiuso in una delle immagini, a mio avviso più profonde fra quelle che il testo scholemiano sul Nome di Dio contiene:

95 Cfr. ivi, pp. 87-88.

96 Senza pretendere di addentrarci troppo nell’argomento rischiando di andare oltre i nostri in-

teressi, indichiamo però che Scholem riporta come Abulafia ritenga la lingua divina collegata alla sfera dell’intellectus agens, espressione della potenza cosmica da cui ogni cosa visibile ha preso forma – concetto ripreso dalla filosofia di Maimonide. La vera profezia si svela allora quando il pensiero umano abbraccia tale potenza, tenendo presente però che tale congiunzione, per Abulafia, non è solo intellettiva ma anche linguistica.

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‹‹Come chi scrive tiene la penna in mano e da essa fa cadere gocce di materia, l’inchiostro, e in mente sua delinea la forma che vuol dare a questa materia – per cui la mano è come la sfera vivente, e muove la penna inanimata che le serve la strumento e si ricongiunge con essa per versare le gocce sulla pergamena, la quale rappresenta il corpo, disposto a portare la materia e la forma -, allo stesso modo si compie la creazio- ne […]››97.

Ricordiamo però anche come in un testo del 1935, I segreti della creazione98, Scho-

lem indicava quali fossero le linee principali seguite nello Zohar99, testo del XIII

secolo rilevante nella Qabbalah castigliana, nel quale era ravvisabile un intento teosofico: ovvero, suo obiettivo era indagare e godere dei segreti del mondo della divinità, analizzando i risvolti simbolici che le Sacre Scritture contenevano, vi- sibili soprattutto nel processo della creazione. In questo caso Scholem non man-

97 G. Scholem, Il nome di Dio …, op. cit., pp. 75-76.

98 G. Scholem, I segreti della creazione, Adelphi, Milano 2008. Ma una sintesi precisa delle caratte-

ristiche complessive che lo Zohar assume nel suo contesto è offerta da Scholem anche ne Le

grandi correnti della mistica ebraica, op. cit., pp. 167-256.

99 Walter Benjamin in una lettera dell’ottobre del 1935, nel suo periodo di residenza parigina,

scriveva all’amico Scholem alcune righe d’elogio a seguito della lettura di un capitolo dello Zo-

har che da questi aveva ricevuto in allegato ad una missiva precedente. Di sicuro il rapido giu- dizio che offre Benjamin dell’attività di traduzione del testo apparirà più chiara in seguito, dopo aver spiegato dettagliatamente le motivazioni e gli interessi di Benjamin stesso verso le teoria del linguaggio e della traduzione. Tuttavia mi limito a far riferimento al fatto che nella sopraci- tata lettera, Benjamin si complimenta per la traduzione che Scholem ha effettuato di un “testo così ermetico” poiché, al di là delle note tecniche circa le quali Benjamin si riconosce ignorante, a livello invece del senso che si vuole comunicare anche una mente “non addestrata, armata so- lo della sua attenzione” si può ben comprendere la profonda umanità di cui il lavoro è caratte- rizzato. Ma l’elogio prosegue dal momento che non si tratta solo di tradurre ma anche di com- mentare, ed è questo che spinge la riflessione oltre i limiti della materia testuale tradotta. (Un accenno è rivolto anche al valore che possiede il concetto di “somiglianza spirituale”, nello Zo-

har riferito ai suoni che paiono sistemazioni dell’ordine cosmico e che non si accorda con la teo- ria della mimesi che occuperà il centro di un breve ma inteso lavoro di Benjamin, Sulla facoltà

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ca di sottolineare100 come si tratti di un metodo antitetico rispetto alla filosofia pratica dell’estasi che Abulafia mette in risalto. Infatti, nello Zohar le lettere, le parole scritte nei Testi Sacri, assumono un volume nuovo che eccede la morfo- logia, la sintassi e qualsiasi arte combinatoria e apre la strada ad una nuova ver- sione del nome di Dio. Questo implica l’intendere la parola come simbolo che dirige l’attenzione sull’aspetto cosmogonico, leggibile ora anche come la vita nascosta di Dio che opera, che crea, che segue un percorso di evoluzione della parola che da muta diventa articolata e differenziata.

Qui il nome di Dio viene associato al suo carattere di inconoscibilità, perciò lo si chiama En-Sof, il “Senza fine”, “l’Infinito”, ed è attraverso la creazione che viene fuori questo lato nascosto di Dio. Tale sua parte vivente, spiega Scholem, si con- cretizza in un mondo complesso di quelle dieci potenze, le sefiròt, originanti il linguaggio, intese come frammenti di forza creativa che solo l’uomo comprende a livello simbolico, essendo Dio indivisibile per essenza. Ritorna anche in que- sto contesto la visione delle dieci sefiròt che compongono i rami dell’albero della potenza divina, la cui radice e linfa è qui sconosciuta, in quanto coincide con l’En-Sof, che è a sua volta radice dell’universo intero.

Allora anche in questo caso, come dicevamo poc’anzi, ogni parola è parola di Dio, essendo le sefiròt l’articolazione letterale del nome YHWH, o l’esposizione in crescendo, per gradi della rivelazione divina101.

100 Cfr. ivi, p. 217.

101 Nelle pagine introduttive alla traduzione dei passi sulla creazione nel suo testo sullo Zohar,

Scholem, esamina il percorso che viene tracciato passando fra le varie sefiròt. Mi limito a riporta- re brevemente il contenuto di tale analisi: all’interno della prima sefirah si legge l’aspetto di Dio che dall’”in sé” inizia a schiudersi verso l’altro ma non si rivela ancora nella sua totalità: questo

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In continuità con quanto abbiamo sottolineato in apertura del secondo paragra- fo di questo capitolo – dove abbiamo esposto il problema dello svelarsi della parola di Dio nel linguaggio umano a causa della mestizia e della passività re- cettiva dei tempi in cui si viveva -, Scholem fa il punto della situazione sulle te- orie che ha esposto nelle pagine di questo suo testo ed è proprio in relazione al- la conclusione che trae che risulta possibile aggiungere un tassello in più al no- stro discorso iniziale. Precedentemente avevamo indicato solo la presenza di un problema in cui il mistico incorreva, ora, consapevoli delle analisi compiute nel corso del tempo per spiegare come sia possibile che linguaggio divino e umano abbiamo una relazione effettiva, possiamo capire con una citazione di Scholem perché quegli ostacoli nel ‘900 furono così ostici da valicare. Meglio ancora, possiamo ritrovare nelle sue analisi conclusive la prova del fatto che la soluzio- ne che il mistico del linguaggio ha cercato di proporre rispetto al dramma babe- lico, nel ‘900 perde ogni possibilità di realizzazione. Egli scrive infatti che la pa-

primo movimento è indicato nel suo nome “Io sarò”, Ehyeh. La seconda sefirah è quella sfera che contiene il punto originario, yod, dal quale emerge la potenza creatrice, che troverà la sua dimo- ra nella terza sefirah, nota come il Palazzo, che viene costruito dal pensiero originario e dal qua- le, posto che contenga il seme di ogni cosa, la creazione inizia a fluire. Questa terza sefirah è quella che corrisponde alla he del nome YHWH, ma che nella Torah assume un altro nome di Dio, noto come Elohim. Quarta, quinta e sesta sefirah, indicano le potenze che forgiano i giorni da cui tutto ha origine, luce, tenebre. In più sarà possibile nella sesta identificare un primo suo- no emesso dalla voce divina, senza articolazione esatta ma comunque udibile e inoltre si farà rappresentante della waw di YHWH. Facendo un salto è la nona sefirah che assume un aspetto indispensabile poiché in questa si condensa la forza segreta della creazione che sfocia poi nella decima sefirah dove Dio diventa volontà attiva e si mostra sotto l’aspetto della Šekinah, ovvero una sorta di fulcro nel quale tutte le forze suddivise fra le varie sefiròt si ricompongono per far sì che la creazione effettiva del mondo si perpetri. Quest’ultimo passo è l’analogo della he finale di YHWH e il nome di Dio che gli corrisponde è Adonay. Cfr. G. Scholem, I segreti della creazione,

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rola di Dio si riflette sì nel nostro linguaggio, che risulta una semplice eco del suo parlare infinito, ma:

‹‹i raggi – o i suoni – che noi captiamo di essa non sono tanto comunicazioni quanto piuttosto appelli. A possedere significato, senso e forma non è la parola stessa, ma la tradi- zione della parola, il suo mediarsi e riflettersi nel tempo››102.

Ebbene, si dà il caso che questa “tradizione della parola” nel ‘900 abbia perso la sua forza d’appello, sia diventata un “lieve sussurro” non più udibile, e ciò ha portato la tradizione e il linguaggio stesso in piena crisi. E allora ‹‹quale sarà la dignità di un linguaggio dal quale Dio si è ritirato?››103, forse ancora solo i poeti sanno trovare un senso nel segreto divino del linguaggio, ma ai mistici, spiega Scholem, di certo non è concesso. E’ proprio in questo passo delle sue Tesi asto- riche sulla Qabbalah che Scholem riprende a suo modo quello che Benjamin disse nel saggio Su la lingua in generale e sulla lingua dell’uomo - e che noi avremo modo di analizzare fra breve -, ovvero espone chiaramente “un’estensione ontologica” del mito di Babele, dal momento che l’uomo non è più capace di intendere ciò che le cose hanno da dire ma, a loro volta, anche le cose sono diventate mute, tristi, come disse Benjamin. Si tratta di quelle stesse cose, di quegli oggetti, che contengono, secondo i mistici, scintille di divino che non brillano più agli occhi dell’uomo, e, se volessimo rendere lo stesso concetto con delle categorie benja- miniane, diremmo che l’uomo iperdenominando non comprende più l’essenza

102 Ivi, p. 89. (Corsivo mio). 103 Ibidem. (Corsivo mio).

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spirituale delle cose espressa un tempo attraverso la simbiosi associativa fra tale loro essenza e la capacità umana che tramite la lingua divina era in grado di ri- nominare ciò che Dio già nominò,salvaguardando alla perfezione a ciò che le cose volevano esprimere, essendo anch’esse parte del nome di Dio potremmo aggiungere con Scholem.

La congiunzione fra il problema storico e il problema linguistico è il punto prin- cipale che ci permette di collegare l’analisi di Scholem a quella di Walter Ben- jamin. Si tratta soprattutto di capire che tipo di risvolti siano stati indicati come possibili da Benjamin, alla luce dei suoi interessi ebraici, sul tema del linguag-