Testo originale e traduzione: la tangente al cerchio
5.2. Vittoria della libertà sulla letteralità contingente delle varie lingue
Al criterio di sopravvivenza che la traduzione offre all’originale dell’opera d’arte vanno ora aggiunte altre due caratteristiche emblematiche del rapporto fra i due poli della relazione. In primo luogo Benjamin parla di fedeltà critican- done il senso abituale per cui il traduttore deve necessariamente attenersi al vo- cabolo utilizzato nell’originale, il che il più delle volte reca violenza a tale opera piuttosto che renderne il senso pieno. Questo accade dal momento che l’espressione di un’emozione, di un concetto, di un evento, non è solo legata al significato – o inteso – ma anche al significante – o modo d’intendere che dir si voglia –, e la relazione fra le parti può assumere un senso stravolto passando da traduzione a traduzione. Per avvalorare questa asserzione Benjamin sottolinea come le parole abbiano con sé una loro tonalità affettiva che si perde nella tradu- zione qualora si voglia essere fedeli alla letteralità dell’originale. Quella che si spaccia per fedeltà diviene allora paradossalmente truffa.
Questo è uno dei motivi per cui non ci si deve fermare all’ossequio della lettera, ma si deve indagare lo spirito dell’opera in questione. Solo così entra in gioco la seconda caratteristica che una traduzione, degna di definirsi tale, porta con sé per Benjamin: la libertà. Se ne espone l’esigenza con una citazione:
«Come i frammenti di una vaso, per lasciarsi riunire e ricomporre, devono susseguirsi nei minimi dettagli, ma non perciò somigliarsi, così, invece di assimilarsi al significato dell’originale, la traduzione deve amorosamente, e fin nei minimi dettagli, ricreare nel-
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la propria lingua il suo modo d’intendere, per far apparire così entrambe – come i cocci frammenti di uno stesso vaso – frammenti di una lingua più grande»148.
E’ così che la lingua usata dal traduttore non deve essere legata alle catene della comunicazione, anzi deve liberarsene, impadronendosi di quella libertà della forma in nome del senso, al quale si sarà fedeli solo nel momento in cui il tra- duttore sarà in grado coniugare la lingua portatrice d’intenzioni dell’originale con la sua. Per rendere possibile una mossa metodica simile il punto di partenza e di evoluzione deve essere la parola singola da analizzare e non la trasposizio- ne sintattica nella propria lingua della proposizione intera.
Benjamin descrive la vera traduzione come una luce che non copre l’originale, ma che la rafforza rischiarando quella parte del suo nucleo profondo che era rimasta fino ad allora nell’ombra149. E’ questo nucleo ad essere composto “dall’inteso” di tutte le lingue – dove ogni forma di comunicazione e di inten- zione si sgretola -; è questo nucleo che per opera della traduzione si schiude e rende possibile trasformare il “simboleggiante” in “simboleggiato”150.
In nome di questa libertà d’azione del traduttore, che valore ha alla fine di que- sto ragionamento il “senso” dell’opera originale?
«Come la tangente tocca la circonferenza di sfuggita e in un solo punto, e come questo con- tatto sì, ma non il punto, le prescrive la sua legge, per cui essa continua all’infinito la sua via retta, così la traduzione tocca l’originale di sfuggita e solo nel punto infinitamente pic-
148 Ivi, p. 49. 149 Cfr. ibidem. 150 Cfr. ivi, p. 50.
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colo del senso, per continuare, secondo le legge della fedeltà, nella libertà del movimento linguistico, la sua propria via»151.
E ancora il “senso” nelle Sacre Scritture cessa di essere una divisione fra il lin- guaggio umano e la rivelazione. In questo caso non serve mediazione, ciò che è parola scritta si rende traducibile nell’immediato, la libertà e la letteralità si a- malgamano e si finisce così con lo scoprire la lingua pura, divina, in quella che Benjamin definisce “versione interlineare del testo sacro, come archetipo o ideale di ogni traduzione”152.
Notiamo come la ricerca della lingua pura non sia altro poi che il tentativo di far echeggiare nuovamente la lingua adamitica tanto lodata nel saggio del 1916. E’ in relazione anche a questo proposito che riecheggia il motto di Karl Kraus “l’origine e la meta”.
Quindi nuovamente ritorna il rapporto che nel saggio del ’33 abbiamo descritto come possibile, grazie alla somiglianza immateriale, fra scritto e inteso. Infatti, in questa sede, la scrittura viene concepita come «archivio di somiglianze non sensibili, di corrispondenze immateriali», e per di più «la grafologia ha insegna- to a scoprire, nelle scritture, immagini che vi nasconde l’inconscio di chi scri- ve»153. Alla luce di queste brevi citazioni è possibile capire come anche per Ben- jamin esista un senso profondo nelle Sacre Scritture, che necessita di essere in- dagato.
151 Ivi, p. 51. (Corsivo mio). 152 Cfr. ivi, p. 52. (Corsivo mio).
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Ricordiamo anche brevemente come nel 1917 Benjamin, spiegando in una lette- ra a Scholem il suo rapporto con la Torah – intesa come apertura di possibilità per ognuno di leggere il libro della propria anima lontano da vincoli –, utilizzi la metafora della dottrina come mare ondoso, facilmente comparabile al tentati- vo di esegesi testuale che i mistici, e i cabbalisti in particolare, come abbiamo vi- sto in precedenza, utilizzarono per dar valore al linguaggio divino di carattere simbolico154.
Da questa indagine scaturirà il collegamento fra lingua pura e il messianismo vivo in Benjamin.
5.3. Filosofia della storia e filosofia del linguaggio insieme per descrivere