• Non ci sono risultati.

Purezza, pluralità, confusione, mutismo Le tappe del cammino del lin guaggio a partire dalla lettura di Genesi

Walter Benjamin e la lingua pura fra inizio paradisiaco e la sua parodia

4.2. Purezza, pluralità, confusione, mutismo Le tappe del cammino del lin guaggio a partire dalla lettura di Genesi

‹‹Adamo, primogenito di una pura creazione, ha la tristezza creaturale››123

Walter Benjamin

Benjamin ha avuto premura di sottolineare un ulteriore passaggio che fa luce sul “caso del linguaggio umano-divino” – questo, come abbiamo visto, trae la sua ragion d’essere da un quadro di riferimento più ampio, che come attesta lo stesso titolo del saggio si riferisce alla “lingua in generale” – indirizzando la sua analisi sull’interpretazione del passo biblico di Genesi 3, ove notoriamente ritro- viamo il racconto del peccato originale e della conseguente caduta dell’uomo. Si tratta di un passaggio che occupa poche pagine nel saggio del 1916, ma, a mio avviso, merita una trattazione separata rispetto al discorso che abbiamo appena esposto, dal momento che arricchisce il ragionamento attorno al concetto di

122 Cfr. H. Schweppenhäuser, Nome/Logos/Espressione. Elementi della teoria benjaminiana della lin-

gua, in Walter Benjamin tempo storia linguaggio, Editori Riuniti, Roma 1983, pp. 51-64, p. 55.

83

confusione linguistica che tanta parte ha occupato nelle pagine di questo mio elaborato.

Parlo di un arricchimento in quanto Benjamin ci offre l’esposizione di una pas- saggio intermedio che finora mancava, sia nel momento in cui abbiamo tentato una breve esegesi del mito di Babele, sia nel descrivere il posto che la mistica del linguaggio scholemiana ha occupato in questo contesto. Ovvero, finora ab- biamo parlato della pura lingua divina, del suo esprimersi nell’atto del creare – purezza che con una congiunzione mistica adeguata e con un’esatta fenomeno- logia dei simboli potrebbe essere riconquistata e compresa per i mistici –, della sua disfatta a seguito della punizione divina inflitta all’uomo per la bramosia di conquista e per l’idolatria di cui la torre di Babele è il simbolo.

La descrizione che ci riporta Benjamin invece è più sottile: egli vuole indicare il passaggio avvenuto dalla lingua dell’uomo alle lingue degli uomini. Per far ciò immaginiamo di avere davanti una scala a tre rampe: Dio è in cima, a seguire troviamo l’uomo e poi sul fondo è collocata la natura. Bene, in questo scenario, spiegando come si scenda da una rampa all’altra, si vuole presagire ciò che Ba- bele ha concretizzato solo poi sottoforma di simbolo. Quell’arricchimento di cui parlavo consiste proprio nel descrivere l’articolazione fra “pluralismo” e “con- fusione” della lingua, ma risulta anche dalla descrizione dell’ultimo passaggio che il linguaggio subisce collegando l’uomo alla natura e viceversa.

Ciò che ci appare illuminante è come la descrizione della scena abbia tratto dal- lo sfondo uno spessore non per quanto riguarda il carattere dei personaggi –

84

Adamo, Eva, il serpente -, ma per quanto concerne invece il ruolo che il lin- guaggio, prediletto protagonista della mia ricerca, ha assunto.

Infatti, la lingua paradisiaca è intesa, lo abbiamo visto, come lingua perfetta- mente conoscente, la quale permette di essere al corrente anche della presenza nell’Eden dell’albero della vita e dell’albero della conoscenza e del conseguente divieto di nutrirsi dei loro frutti. L’arrivo del serpente, la più astuta di tutte le bestie, coincide esattamente con l’introduzione della tentazione di poter accede- re ad una “conoscenza senza nome”, come la definisce Benjamin, la quale non è altro che “un’imitazione improduttiva del verbo creatore” volendo conoscere il bene e il male (ovvero facendogli acquisire la conoscenza del tutto). Lasciandosi affabulare l’uomo perde il paradiso.

Si scende la prima rampa di scale: da Dio protagonista ora passiamo ad un uo- mo che si crede tale. Ma soprattutto ‹‹il peccato originale è l’atto di nascita della parola umana, […] è uscire fuori dalla lingua nominale conoscente››124. E’ così che la parola umana perde quella magia immanente che la contrassegnava per divenire estrinsecamente magica: ciò vuol dire che si ha una rottura del beato spirito adamitico e la parola prende a comunicare “fuori” di sé.

La conoscenza del bene e del male si pone, per l’autore del saggio, nello stadio - opposto al “nome” che rendeva conoscibili le cose nella pienezza della lingua – dell’abisso della “ciarla” – intesa letteralmente come un denominare condotto dall’esterno. Esiste un solo passaggio capace di purificare tale stato, ed è insito nel “giudizio” severo e divino. Si mette in scena quel tribunale al cui cospetto

85

la coppia adamitica viene condannata e castigata, ma ci si trova anche da- vanti ad una nuova capacità conoscitiva, ad un giudizio [Urteil] di tipo u- mano, in virtù del pasto costituito dal frutto dell’albero della conoscenza del bene e del male. Allora si intende, nella lettura che Benjamin ci offre, il pec- cato originale come desiderio di introdurre un giudizio propriamente uma- no su ciò che a suo tempo Dio vide già come “buono”. Tale giudizio dovrà supplire alla oramai perduta lingua nominale.

‹‹Il secondo effetto è che dal peccato originale – come ripristino dell’immediatezza, in esso violata, del nome – sorge una nuova magia, quella del giudizio, che non ri- posa più beata in se stessa››125.

Tale umano giudizio, sprovvisto dell’attualità creatrice della parola divina e del fondamento in essa di cui godeva il nome, ripristina sì l’immediatezza – questo è il motivo per cui rimane anch’esso “magia” – ma nella comunicazio- ne “dell’astrazione”, non del concreto: una parodia del giudizio divino, dun- que.

Le caratteristiche dell’astrazione e della magia sono due dei tre aspetti che Benjamin riassume come propri del peccato originale. A questi associa il ruolo assunto dal linguaggio, e parlo di “ruolo” proprio perché si ha una lingua- mezzo, o meglio, una “lingua-segno”, indice della perdita della purezza della lingua dei nomi126.

125 Ibidem.

126 L’interpretazione che offre Benjamin del mito del peccato originale è solo uno dei tanti punti

86

Anche in saggi più tardi come in Per la critica della violenza del 1921 ritorna il tema della punizione divina come sinonimo di “giustizia”, e citare questo sag- gio risulta a noi congeniale per due motivi differenti. In primo luogo, egli ivi si appresta a differenziare la violenza in due voci: il diritto da un lato – aspetto negativo, tanto che dirà: “criticare la violenza è l’equivalente della critica che può essere mossa alla giurisdizione” – e la giustizia dall’altro – intesa come erede del senso divino, e quindi positiva. Ovviamente la faccenda è più com- plicata di come mi limito a riportarla in questa sede, ma per quanto ci è utile basta sottolineare come anche in questo caso il tema del linguaggio faccia ca- polino fra le righe del testo in modo diretto. Benjamin si chiede se esistano dei rapporti la cui gestione possa essere affidata ad una sfera che esuli dal conflit- to e della violenza; tale sfera risulta esistente e coincidente per l’appunto con quella linguistica127.

Accanto a tale riproposizione di una critica verso il pragmatismo della parola e di un’esaltazione del suo aspetto comunicativo, il secondo aspetto utile da estrapolare da questo saggio corrisponde alla caratteristica divina della giusti- zia che evita ogni creazione di diritto128.

al riguardo rimando al testo di Adriano Fabris, Filosofia del peccato originale, Albo Versorio, Mi- lano 2008.

127 «[…] la conversazione [va considerata] come una tecnica di civile intesa. Poiché in essa

l’accordo non violento non è solo possibile, ma l’esclusione di principio della violenza è espres- samente attestata da una circostanza significativa: l’impunità della menzogna.[…] Ciò significa che c’è una sfera a tal punto non violenta di intesa umana da essere affatto inaccessibile alla vio- lenza: la vera e propria sfera dell’intendersi, la lingua. E’ solo tardi, in un processo caratteristico di decadenza che la violenza giuridica è penetrata anche in questa sfera, dichiarando punibile l’inganno», W. Benjamin, Sulla critica della violenza, in Angelus Novus, op. cit., pp. 5-30, p.18.

128 Citando Benjamin leggiamo che: «[…] alla violenza del mito si oppone quella divina, che ne

87

E’ questa forma di giudizio che purifica restando giusta, quella che espelle dal Paradiso l’uomo. Non a caso in Genesi 3,22 ‹‹Dio il Signore disse: “Ecco, l’uomo è diventato come uno di noi, quanto alla conoscenza del bene e del male. Guar- diamo che egli non stenda la mano e prenda anche del frutto dell’albero della vita, ne mangi e viva per sempre”››.

L’albero della vita avrebbe perpetuato una condizione di impurità che invece non doveva durare. Infatti, la conoscenza del bene e del male, anziché avvici- narci a Dio, come aveva promesso il serpente, ci ha fatto smarrire la nostra pu- rezza e ci ha separati da Lui. Avendo cominciato a inseguire le nostre voglie e le nostre paure, non solo non abbiamo più potuto camminare in obbedienza alla sua parola, ma abbiamo cominciato a fare delle cose in vista di altre, senza ave- re più la grazia e l’innocenza dei bambini. Abbiamo cominciato a immaginare e a conoscere le nostre immaginazioni (e anche quelle dei nostri simili). In vista di ciò, Benjamin spiega, è l’albero della conoscenza che si erige a simbolo del giu- dizio divino.

Il concretizzarsi di questa legge divina l’abbiamo vista all’opera anche nei capi- toli precedenti circa la descrizione della punizione per la costruzione della torre di Babele. Infatti - e questo è il passo che si allaccia perfettamente al filo logico del nostro discorso - Benjamin afferma che:

quella pone limiti e confini, questa distrugge senza limiti, se la violenza mitica incolpa e castiga, quella divina purga ed espia, se quella incombe, questa è fulminea, se quella è sanguinosa, que- sta è letale e senza sangue», ivi, p. 26.

88

‹‹Dopo la caduta non c’era che un passo alla confusione delle lingue. Poiché gli uomini a- vevano offeso la purezza del nome, bastava solamente che si compisse il distacco da quella contemplazione delle cose ove la loro lingua entra in quella dell’uomo, perché fosse tolto agli uomini il comune fondamento del già scosso spirito linguistico. I segni devono confondersi dove le cose si complicano. […] In questo distacco dalle cose, che era l’asservimento, sorse il piano della torre di Babele e con esso la confusione delle lin- gue››129.

Badiamo bene però al fatto che ora si scenda anche la seconda rampa di scale su indicata e si arrivi al piano della natura. Questo avviene poiché Dio già dalla narrazione della caduta maledice non solo l’uomo ma anche la terra; questa non darà più frutti spontaneamente e sarà privata dell’abbondanza paradisiaca. Benjamin descrive come anche la natura stessa si trovi in una condizione di “tri- stezza” che le perviene tanto dal suo esser muta e dal suo non saper esprimere il proprio essere spirituale in modo spontaneo – cosa di cui non era in grado ne- anche precedentemente -, quanto dall’impossibilità di trovare nel nome proprio che Dio e uomo gli conferivano nello stato paradisiaco uno stato di realizzazio-

129 W. Benjamin, Sulla lingua …, op. cit., p. 67. (Corsivo mio). Una citazione in linea con quanto

sto cercando di descrivere si può trarre da Elias Canetti, La provincia dell’uomo. Quaderni

d’appunti 1942-72, Bompiani, Milano 1989, pp. 22-23: ‹‹Che ci siano lingue diverse è il fatto più misterioso del mondo. Vuol dire che per le stesse cose ci sono nomi diversi.[…]Dietro ad ogni scienza del linguaggio si nasconde l’aspirazione a ricondurre le lingue ad una sola. La storia della torre di Babele è la storia del secondo peccato originale. […]Per questo fu loro tolto ciò che avevano conservato ancora dopo il primo peccato originale: l’unità dei nomi. […] La confusione dei nomi fu la confusione della sua [di Dio] stessa creazione››.

89

ne, dal momento che ora l’uomo, a seguito della pluralità e della confusione del linguaggio, non nomina più ma “iperdenomina”130.

Potrebbe però anche131 accadere che la condizione linguistica dell’uomo si mo- stri simile a quella della natura: silenziosa. In tal caso, ne Il dramma barocco tede- sco, si parla di silenzio tragico come unica via possibile indicata dal destino; si- lenzio che avrebbe un esito altrettanto tragico come ad esempio l’esclusione dal- la comunità, essendo per antonomasia il logos da Platone in poi ritenuto il vero motore delle relazioni umane132.

Tuttavia, nel parlare che ora l’uomo può compiere, manca quella traduzione di- retta cui abbiamo fatto riferimento in precedenza, manca quel percorso uomo-

130 Per rendere il concetto con termini sicuramente più profondi di quelli da me utilizzati leg-

giamo quanto segue: «[…] è la lingua a prendere il posto dell’oggetto. E’ vero che il suo lato ri- volto verso il soggetto porta la più chiara delle segnature: quella della lingua come organo dei caratteri funzionali dell’espressione, della comunicazione, della rappresentazione. Essa mostra il suo modo strumentale di apparire. Ma la sua essenza si perde nel alto opposto della luce, là ove non penetra lo sguardo concentrato dell’intenzione. Comunque si collochi l’intenzionalità, essa illuminerà solo da un alto e dall’esterno, e persino là dove riesca a penetrare, tornerà a suddividere l’interno in una parte rivolta a sé e in una rivolta altrove», H. Schweppenhäuser, op.

cit., pp. 51-52.

131 Tenendo sempre presente che non si tratta per l’uomo di un aut-aut, o silenzio o iperdenomi-

nazione, ma per lo più di una convivenza di entrambe gli aspetti.

132 Parlare di “inibizione della relazione comunitaria” a seguito della perdita del linguaggio fa

venire in mente un uso analogo di tale concetto posto in un contesto diverso, questa volta di stampo politico. Sto alludendo alle pagine conclusive del capitolo Ideologia e Terrore contenuto ne Le origini del totalitarismo di Hannah Arendt. In questo caso l’uomo che non parla, che non pensa, che non esperisce, viene dipinto come l’uomo del regime. La prima mossa per avere un fantoccio simile consiste nell’isolamento che recide ogni impulso d’azione, quando poi si arriva a perdere anche un contatto con le cose della natura di parla di estraniamento di perdita del mon- do (diverso caso è quello della solitudine in cui si è “due in uno”, si è soli con sé stessi). cfr. op.

cit., Einaudi, Torino 2004, pp. 649-657.

Ancora il concetto di estraniamento ritorna in Benjamin ritorna in Parigi la Capitale del XIX seco-

lo, nella sezione dedicata a Baudelaire o le strade di Parigi, dove egli descrive l’atteggiamento del

flâneur, dell’estraniato, con cui Baudelaire si rapporta alla città, alla società. Egli definisce tale figura come colui che si trova ai bordi tanto della borghesia quanto del grande complesso citta- dino del processo produttivo e delle gallerie, ma ancora nessuno dei due estremi ha avuto la forza di coinvolgerlo. Cfr., W. Benjamin, Angelus Novus, op. cit., p. 155.

90

cosa-conoscenza- nome. Data così la presenza di lingue innominali, di lingue di materiali (lingua della scultura, della pittura, della poesia) l’unico modo per cercare di leggerne i significati si trova nella rilevanza attribuita alla teoria dei simboli133. Facciamo attenzione al fatto che Benjamin definisce assolutamente indispensabile alla teoria del linguaggio, pena la frammentarietà, tale teoria. E- gli fa infatti notare come la tensione che si prova nel raggiungere all'interno dell’esperienza artistica il "simbolo" (e quindi l'unificazione effettiva di cosa, linguaggio e significato) esploda continuamente in "allegoria", ovvero in una dialettica tra quanto è figurato nell'espressione, le intenzioni soggettive che lo hanno prodotto e i suoi autonomi significati. Per questo scacco del simbolico la malinconia diviene, nell'indagine di Benjamin, il sentimento fondamentale del soggetto moderno. A un altro livello, ciò che il trionfo dell'allegoria rivela è un'insanabile lacerazione, una sempre più radicale perdita di senso, un decadi- mento dell'umano e della storia. Se la natura veste a lutto è perché il linguaggio la tradisce134.

Se mi è concessa una chiosa: è in questi aspetti che Benjamin sembra molto vi- cino a quella teoria mistica del linguaggio dalla quale egli ha in precedenza di-

133 Il legame fra forma artistica e lingua naturale viene rintracciato sulla scorta di simboli analo-

ghi. L’esempio che adduce Benjamin è quello della lingua degli uccelli molto simile al canto umano. Avremo in seguito modo di vedere nel dettaglio come anche Rousseau abbia a cuore un’analogia simile.

134 Ne Il significato del linguaggio nel Trauerspiel e nella tragedia, carico della condizione negativa in

cui l’uomo vive, Benjamin decreta che il linguaggio drammatico è l’unica forma di scambio ver- bale interumano, ma che esiste tuttavia un modo per far sì che si esca da un tale stadio e si fac- cia ingresso nell’arte. Ovvero – semplificando parecchio –, le parole operando secondo il pro- prio significato puro sono tragiche per essenza, ma tale dolore di cui si fanno portatrici è parte essenziale del corso di formazione cui il principio linguistico del Trauerspeil è sottoposto. E’ così che la natura si sente tradita dal linguaggio e quell’immensa inibizione del sentimento diventa lutto. Cfr. W. Benjamin, Opere 1906-1922, Einaudi, Torino 2008, vol. 1, pp. 277-280.

91

chiarato le distanze, anche poiché afferma: ‹‹La lingua non è mai soltanto co- municazione del comunicabile, ma anche simbolo del non-comunicabile››135.

Qui, per “non comunicabile”, intendiamo quell’essere spirituale della natura che resta inespresso e che prova nostalgia della nominazione piena che aveva luogo nel verbo divino. Ecco perché Benjamin conclude il saggio riproponendo la massima dalla quale siamo partiti nella nostra analisi, ovvero: la lingua è il medio in cui si comunica l’essere spirituale. A questa aggiunge la considerazione che se tale movimento linguistico è stato possibile è solo perché Dio ne costitui- sce l’unità di riferimento e di realizzazione. Giulio Schiavoni sintetizza asseren- do: “si snoda una dialettica fra l’elevatezza del Nome [Name] e linguaggi o pa- role [die Worte] che giacciono all’ombra dell’origine”136.

È chiaro che solo qualcosa come il giudizio inaugura la scissione tra lingua e di- scorso in cui può insinuarsi una possibilità di dire e, cioè, una conoscenza che diviene storia - «la caducità dell’uomo, la deformazione operata dall’uomo pa- drone di sé, che non si ferma davanti alla creatura come non si ferma davanti a sé stesso, è solo naturale espressione della storia»137. In questo topos sta la prati- ca artistica e, più in generale, la cultura, come tentativo di “appropriazione dell’inappropriabile”, come tentativo di “dare voce”, [evocare, Anruf] a ciò che ne è privo. Salvare il puro cuore palpitante del linguaggio, andando oltre le i- perdenominazioni è ciò che apre la possibilità di un futuro redento, ed è sempre

135 W. Benjamin, Sulla lingua …, op. cit., p. 69. (Corsivo mio). Questa citazione avrà sicuramente

spinto Scholem a dare dell’amico la lettura in chiave mistica di cui abbiamo precedentemente parlato.

136 Cfr. Giulio Schiavoni, Walter Benjamin. Il figlio della felicità, Einaudi, Torino 2001, p. 59. 137 H. Schweppenhäuser, op. cit., p. 57.

92

Schiavoni a paragonare questo obiettivo a quello che Paul Celan definiva il “salvataggio della poesia dalle mani di coloro che hanno permeato di veleno le sibille”138.

Lo sforzo di Benjamin non si limita alla descrizione del da farsi, ma tenta un’applicazione pratica spostando il centro della sua attenzione dal linguaggio come dialogo al linguaggio proprio della traduzione, e le pagine successive si occuperanno di indicarne le caratteristiche principali in consonanza con quanto descritto fino ad ora. Forse solo così potremo intendere pienamente il senso di quella fine messianica citata nella conclusione del precedente capitolo, così da dare anche una giusta spiegazione al perché Benjamin sia stato posizionato in questa prima parte del mio elaborato: parte legata alla trattazione di alcune ipo- tesi religiose sull’origine del linguaggio e sulla sua capacità relazionale col di- vino.

138 Ivi, p. 60. Inoltre nel 1921 Benjamin era fermamente convinto del ruolo sociale e umanistico

dell’intellettuale ebreo cosmopolita. Costui doveva essere il rappresentante dello spirito nella sua epoca, doveva «essere per la coscienza sociale moderna ciò che i poveri di spirito, gli schiavi e gli umili sono stati per il cristianesimo antico», ivi, p. 54. Eppure il tempo porta con sé forti