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un numero incredibile di lamette di rasoio 11 uno spelato pennello di tasso.

23 (ma chi si fida poi dei preti) 24 siano stati trapiantat

10. un numero incredibile di lamette di rasoio 11 uno spelato pennello di tasso.

Dattiloscritto in inchiostro nero privo di correzioni. Foglio da risma 27,8 x 22 cm.

L’unica bozza documentata si approssima già notevolmente al risultato. L’attacco differisce per l’uso della maiuscola, dirottata in seguito a metà componimento con la sostituzione del «finché» al verso 7 con «Un giorno» preceduto da punto fermo alla fine del verso precedente. La descrizione del giardino nei primi sei versi risulta minimizzata o, piuttosto, miniaturizzata nella versione a stampa anche a causa della sostituzione del determinativo «questo» con l’indeterminato «uno», che risponde inoltre all’esigenza i trasformare l’incipit in un decasillabo così da costruire una serie coerente coi due seguenti benché dissimulati. La ricerca di una ponderazione metrica più accorta motiva anche l’esito cui incorreranno i versi 4, 7 e 8. Il fatto che le due righe finale restino del tutto invariate può lasciar presumere che in questa chiusa risieda lo stimolo retorico che dato origine al componimento (tasso animale VS tasso vegetale, considerato il fatto che l’allusione alle lamette di rasoio sembra in effetti funzionale a circostanziare e rendere più plausibile il pennello da barba. La rimozione del titolo deve essere coincisa con la trovata del participio inserito al settimo verso («tassata») che, insistendo palesemente sull’asse tasso-tasso, rende del tutto superflua la spia del titolo.

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Commento a Tristi giochi di parole

Evidentemente intraducibile, nonostante il tentativo di Snodgrass (2003, 27), la nona poesia del Cerchio è organizzata attorno all’asse paronomastico (tassonomia-)tasso-tassata-tasso, come già l’Equazione di primo grado (Erba 1960, 45) cresceva attorno a Mercedes-mercerizzato-merci-Mercedes.

Un’equazione di primo grado

La tua camicietta nuova, Mercedes di cotone mercerizzato

ha il respiro dei grandi magazzini dove ci equipaggiavamo di bianchi larghissimi cappelli per il mare

cara provvista di ombra! per attendervi in stazioni fiorite di petunie

padri biancovestiti! per amarvi sulle strade ferrate fiori affranti dolcemente dai merci decollati! E domani, Mercedes

sfogliare pagine del tempo perduto tra meringhe e sorbetti al Biffi Scala.

I due testi formano l’uno il rovescio dell’altro nella misura in cui alle numerose e puntuali rispondenze (i puns, la paronomasia tra sostantivi e participi passati, il prevalere del bianco, la descrizione delle aiuole fiorite, lo stacco segnalato da un foglio di carta –pagina o lettera–) si oppone una differenza di orientamento. L’Equazione di primo grado rievocava il passato in vista di un possibile futuro («E domani»), mentre i Tristi giochi di parole «recupera[no]» (v. 8) i residui del passato in seguito a un decesso; il primo testo, animato dalle fanciulle festanti in stazione, è innervato dall’aspettativa, mentre il secondo, abitato dai «vecchi di un ospizio» (vv. 6 e 4), si esprime nei termini di un commiato. L’equivalenza istituita da Erba nel testo più antico tra i due legava i primi tre versi (al presente) e gli ultimi tre (sul «domani») chiudendo con uno di quegli «infiniti ottativi» (sfogliare) che Frare (1985, 42) definisce: «forma al confine tra nome e verbo, non coniugata (non attualizzata), che quindi lascia aperta tutta una serie di virtualità». Il biancore della camicia nuova si identificava con il biancore dei cappelli e delle petunie del ricordo per poi espandersi nella previsione di altrettanto candide meringhe e sorbetti futuri. L’assenza di forme verbali all’infinito nei Tristi giochi di parole, al contrario, traduce sul piano morfologico l’interruzione di ogni «virtualità», di ogni possibile espansione auspicata e «non attualizzata». Gli oggetti del testo IX sono insomma inerti, non attivano un circuito memoria-aspettativa in cui il futuro appare miracolosamente

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rassicurante come il passato, bensì rimarcano il proprio stato di abbandono («qualche calza spaiata»), segnalano se stessi anziché alludere a un miraggio.

La divaricazione fra i due testi non corre unicamente sul crinale della scelta dei personaggi (aspettative delle fanciulle / trapasso del degente), ma soprattutto sul grado di distanza che separa l’io poetante dall’oggetto del suo poetare. Nella prima fase della produzione di Erba, anteriore al 1980, gli spaccati lombardi «erano scaglie che contenevano precisi paesaggi, dentro i quali s’intravedeva il ghigno ora ironico e ora malinconicamente pensoso dell’io» (Pappalardo La Rosa 1997, 100). Erba «restituiva con levità e trasparenza di tono, con sottili movenze di grazia ironica, con nativo ed elegante gusto impressionistico […] le esperienze assaporate […] sulla soglia di quel nido» che coincide con «gli affetti privati» (ivi, 99). Più recentemente, invece, nella fase inaugurata dal Cerchio aperto, dimostra «indubbiamente orrore del patetismo, dell’esibizione viscerale» e si esprime, piuttosto, «allontana[ndo] gli oggetti: li seleziona, li depura [con una] volontà di autocontrollo la quale si accompagna ad una consapevolezza: che le parole sono sempre inadeguate rispetto alla vertigine, alla piaga del vissuto» (Faggi 1993, 108). E proprio da questa repulsione anti-patetica e anti-retorica (basata cioè sull’insufficienza del pathos e della retorica) prendono le mosse i Tristi giochi di parole, volti a sondare precisamente la possibilità di elaborare sul piano stilistico un evento sommamente patetico come la morte, distanziandolo per mezzo della mera classificazione di oggetti residuali. La «tassonomia» (redazione 9a) ai versi 9-11 si limita pertanto ad allineare gli «effetti personali» in un gesto classificatorio che conferma e persino acuisce quanto riscontrava già Mengaldo (1978, 908) in tempi non del tutto sospetti: «la rappresentazione del reale [cui mira Erba] è piuttosto una recensione nomenclatoria».

Sarà allora utile confrontare le varianti dell’Equazione di primo grado con le varianti del dattiloscritto 9a. Nella prima versione della camicetta di Mercedes, l’infinito «amarvi» era un più pudico «mirarvi» dunque l’intervento pare plausibilmente orientato «a una diversa e più patetico-ironica prospettiva sentimentale» (Aymone 1984, 196). L’evoluzione del testo IX dal dattiloscritto alla stampa procede invece il più lontano possibile dal sentimentalismo: Erba abdica del tutto all’uso del futuro (arriverà>arriva, ritireremo>invita a ritirare) fissando l’intero componimento nell’immobilità di un presente sospeso, rimuovendo così qualsiasi accenno teleologico (finché>un giorno). Lo slancio dal ricordo alla speranza che informava l’Equazione e si manifestava nel volo dei treni «decollati» si riduce adesso alla ripetitiva staticità dei «minimi cerchi di terra», i quali non solo ricordano i «perfettissimi cerchi» attorno alle mantidi (testo IV.8) ma semantizzano la Ringkomposition iconizzata dal ritorno della parola «tasso» al verso 4 e al verso 11. Anche il nome Mercedes apriva e chiudeva il componimento del Male minore, invece nel testo IX, con un guizzo forse un po’ troppo prevedibile, «tasso» viene ribadito sì due volte ma in diafora (la prima volta è la pianta, la seconda è l’animale), sicché la ripetizione di «Mercedes» irrobustisce la continuità passato-futuro/memoria-miraggio (Mercedes sarà sempre Mercedes), mentre la mancata coincidenza del primo «tasso» col secondo genera un blocco e una spaccatura: un cerchio aperto. Il pun del testo IX

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potrebbe essere inoltre complicato da un tentativo di più accorta lettura che voglia decifrare la scelta del curioso «tagetes» al verso 2: perché il nome di una pianta tanto specifica accanto ai più comuni «giovani tassi» e alle generiche «fogliuzze»? Si potrebbe azzardare che la denominazione più comune del fiore tagetes è “puzzola gialla” (Pizzetti Cocker 1968, 584), il cui colore riprende lo «sfondo di muri giallini» al primo verso e che riproduce l’ambiguità vegetale/animale propria del “tasso”, senza considerare il fatto che entrambi i carnivori di piccola taglia siano mustelidi.

Giovanna Vizzari ritiene che gli «atteggiamenti e le recezioni insolite per la loro intensità» assumano in Erba la forma del «contatto carnale con la natura […] (“cespi di tagetes e fogliuzze rotonde / che spuntano da minimi cerchi di terra / attorno ai giovani tassi”)» (Vizzari 1985, 149-50). Mi trovo del tutto in disaccordo. Tassi e tagetes mi sembrano ben poco carnali perché sempre mediati dal gioco di parole, di modo che più del giardino descritto risaltino proprio le strategie descrittive e che, insomma, il lettore visualizzi il testo nella sua concretezza retorica e linguistica più che il giardino ivi rappresentato. Tuttavia le inquadrature dei dettagli vegetali mi paiono più urgenti (l’uso del vezzeggiativo, l’insistenza disegnativa sulla forma curvilinea, la freschezza vegetale contrapposta alla decrepitezza dell’ospizio) del «contatto carnale» che Vizzari crede di individuare anche nei rapporti umani tra l’io poetante e gli altri personaggi (ibidem). Credo, anzi, che la focalizzazione delle piante in giardino e degli oggetti lasciati in camera funzionino come micro-barriere e persino come sostitutivi della verbalizzazione del sentimento, al fine di regolare i contatti nel modo meno «carnale» possibile, come, del resto, suppone anche Gioanola (1992, 328).

Sul piano macrotestuale, culmina nei Giochi di parole il percorso iniziato nel testo VII e proseguito nel testo VIII: la separazione dal gatto (Congedo) e la morte del pettirosso (Il roccolo) hanno infatti fornito il lettore (e l’io poetante) degli strumenti retorici necessari per significare la perdita, strumenti retorici che devono essere minimi per non suonare patetici né enfatici nel tentativo di innalzare a un registro alto, quindi tragico, l’intonazione elegiaca con cui ci si rapportava alla perdita e alla lontananza nei testi II e III. Erba riesce finalmente a conseguire una «registrazione di profonda intensità e passione dal fondo drammatico della vita cui possono rinviare oggetti e presenze nudi e spogli eppure così carichi di significati in Tristi giochi di parole» (Guagnini 1986, 65). E lo fa sfruttando le risorse che si è guadagnato nei testi precedenti: innanzitutto la definizione di uno sfondo monocromo (testo I: «un ciel d’oro»>testo IX: «uno sfondo di muri giallini»), quindi lo zoom sui dettagli molecolari del giardino anziché sull’insieme (vd. testo IV), la focalizzazione del mobilio e dello spazio abitato anziché degli abitanti (vd. testi V e VI), la giustapposizione di due episodi contigui ma slegati in cui il senso viene costruito mediante parallelismi e non mediante l’enfasi ipotattica (vd. testo VIII) e soprattutto la sostituzione del pathos verbalizzato con la catalogazione di oggetti. Considero la «nud[ità] delle presenze e degli oggetti», che Guagnini riscontrava in questo testo, uno dei migliori risultati ottenuti da Erba nell’ottica di disinnescare ludicamente il sentimentalismo (si tratta di giochi di parole) senza rinunciare alla ricerca dei modi in cui iconizzare il

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sentimento (i giochi sono pur sempre tristi). E con «nud[ità] degli oggetti» vorrei illustrare il procedimento con cui Erba riesce, nel migliore dei casi, a rimuovere la patina montaliana dagli oggetti che nomina, «quell[a patina], per intenderci, […] della sostanza metafisica della realtà sensibile» (Borri 1989, 10), per cui le cose (e le persone) paiono investite di un potere magico se non salvifico. Le cose di Erba, al contrario, sono resti o al massimo tracce della pressione che il mondo ha esercitato sulla pagina, un mondo indecifrabile e perciò osservato con immobile fissità, ma sempre a distanza, dietro la transenna della pagina, appunto: «uno sbarramento protettivo» (Luzzi 1989, 68), dal quale sporgersi «per entrare in un ambito di […] maggiore umiltà contemplativa» (Borri 1989, 10). In quest’ottica può essere letta la virgolettatura degli effetti personali al verso 8 che, citando la missiva inviata dall’ospizio, serve davanti ai vivi occhi del lettore il testo esatto della «lettera tassata», di modo che il verso dell’Ippopotamo e il foglio del comunicato coincidano sulla pelle stessa della pagina (vd. testo I), cosicché il lettore possa fare quello che fa l’io poetante, testarlo da sé, possa cioè leggere e sentirsi invitato a collezionare gli oggetti elencati, in un’atmosfera di spoglia denotazione così tipica, per fare un altro esempio di matrice lombarda, nelle Vite di uomini non illustri (Pontiggia 1993).

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X.

Richiudendo un baule

Quel berrettuccio di lana vergine bianco grigio e marrone

comprato in un folto di abeti da un’indiana della riserva Sioux (starà bene alla seconda bambina

che ha un taglio d’occhi un po’ samoiedi) anni dopo lo ritrovo in fondo a un baule di un’umida casa di campagna.

Neppure messo una volta

sembra ora un passato di castagne quasi un mont-blanc, ma seduto. E dire che l’indiana aveva sorriso accarezzato il cavallo

e che il sole tra gli alberi... Ma addio Montagne Rocciose hand knitted original article! (1975)

Il cerchio aperto, 1983, p. 29

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Nota prosodica

Ripartito in quattro spicchi dalla punteggiatura, il testo principia con un lungo anacoluto («Quel berrettuccio […] lo ritrovo» vv. 1-7) nei primi otto versi, che includono una parentetica chiusa da tonde (vv. 5-6) in cui, senza particolari segni di interpunzione, il pensiero che ha motivato l’acquisto del cappello viene espresso nella forma del discorso indiretto libero. Seguono due periodi di tre versi ciascuno, che isolano i due nuclei compresenti nell’attacco: i versi 9-11 descrivono il deludente destino cui è incorso il berretto, mentre i versi 12-14 si riferiscono al momento dell’acquisto in un passato indefinito (marcato quindi dall’uso dell’imperfetto) e irrecuperabile (ellissi e dissolvenza nei puntini di sospensione). Il distico finale chiude il componimento con perentorietà sfruttando due figure già ricorrenti altrove in Erba: l’impiego della congiunzione avversativa «ma» (verso 15) a mo’ di stacco e di brusco ritorno all’attualità presente (intesa come recisione di virtualità che avrebbero potuto verificarsi e tuttavia non si sono verificate) e la citazione letterale di un verso prelevato da un testo non poetico (in questo caso, dall’etichetta del berretto). I quattordici che precedono l’avversativa costituiscono una sotto-unità individuata dalla composizione ad anello che si apre con gli «abeti» (verso 3), e si chiude col «gli alberi» (verso 14), variatio in assonanza, enfatizzata da un’ulteriore assonanza abeti-samoiedi con il verso 6.

L’evocazione del passato e il momento attuale interferiscono l’uno con l’altro in un impasto fonico basato sul ritorno del suono |u| accentato ai versi 1, 4, 7 e 11 (berrettuccio-Sioux-baule-seduto), i cui termini chiave riassumono l’intera parabola del copricapo dalla riserva canadese al pessimo stato di conservazione nella casa in campagna. Gli unici due endecasillabi presenti nel testo (vv. 4-5) rendono sensibile sul piano metrico la somiglianza tra le due protagoniste («un’indiana della riserva Sioux» e «la seconda bambina», accomunate dalla forma degli occhi); mentre gli unici due versi che eccedono la misura dell’endecasillabo (vv. 7 e 12) esondano fuori dai limiti poiché coincidono con i momenti in cui la memoria viene sollecitata e il ricordo represso viene d’un tratto riattivato (l’apertura del baule e il sorriso della nativa americana).

La coda è saldata al corpo del testo mediante il gioco di parole tra il «mont-blanc» al verso 11 e le «Montagne» al verso 15, pun sottolineato dalla rima con «castagne» (verso 10) e «campagna» (verso 8) e ulteriormente evidenziato dal fatto che tutte e tre le parole appaiano in un verso di otto sillabe (gli unici ottonari del testo X).

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Redazione 10a

1. berrettuccio di lana vergine