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nel sotterraneo al tornio e alla fresa

Suite americana

14. nel sotterraneo al tornio e alla fresa

Manoscritto in stilografica nera corretto con la stessa penna fino al rigo 5, poi testo e interventi in biro blu. Lacerto di modulo prestampato rigato dell’Università degli Studi di Milano: 11,5 x 21,7 cm.

1. «casa»] «villetta»

5. «la vestaglia»] spostato a inizio verso con una freccia 7. «mentre»] cassato

10. saldato al precedente con una freccia 12. saldato al precedente con una freccia

13. «Suo marito, ingegnere / perito tecnico lavorava»] «dal sott. giungeva il ronzio» 14. «nel sotterraneo al tornio e alla fresa»] «della fresa del marito ingegnere»

La redazione include già tutti gli elementi che saranno propri della redazione finale e tenta un’inconizzazione dell’architettura della casa nella struttura del testo. La «casa in periferia» è infatti collocata in posizione-limite, nella periferia del testo, mentre il sotterraneo figura nell’ultimo verso, in fondo alla casa/poesia. L’ambientazione, tuttavia, incorre nell’evidente contraddizione di essere espressamente definita «a un solo piano» benché l’autore faccia riferimento a uno spazio interrato, sicché sarà rimossa dalla stesura definitiva l’espressione «a un piano». Anche l’episodio dei bambini sarà del tutto eliso, probabilmente per evitare la sfumatura edipica dell’attrazione verso una figura materna (con lo sguardo che indugia sulla vestaglia aperta) giacché la versione finale sembra manifestare un interesse principale verso la tensione che si instaura non con la donna bensì con la figura invisibile del marito col quale si instaura un confronto agonistico, sottolineato dalla rete di assonanze matita-marito-perito. Il rigo 12 deve invece ritenersi un’annotazione più che un verso vero e proprio: si tratta infatti di un recupero dal rigo 17 della redazione 7a, «l’aria di piombo, le domeniche a zonzo», il cui primo elemento era stato accolto nel testo VII, mentre il secondo troverà sede nel testo XIII plausibilmente coevo.

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La natura degli interventi ricorda, però, il procedimento adottato per il testo XI, che l’autore faceva risalire alla fine del decennio precedente, e che deve quindi riguardare il trattamento degli avantesti che convincono poco l’autore nel periodo compreso tra il ’75 e l’83, giacché l’accanirsi di ripetute frecce volte a spostare diversi blocchi di versi sparirà, in seguito, per essere sostituito dall’abitudine di ricorrere a un numero considerevolmente più alto di redazioni in corrispondenza dei testi pubblicato nel 1985. La redazione 13a ricorre invece, come già la 11b, a stesure interrotte e riprese in tempi diversi e con diversi inchiostri sullo stesso foglio, contrassegnato anche dall’incrociarsi di frecce che saldano diversi cola in un solo verso o ne invertono ordine e sequenza nonché dalla preferenza accordata a varianti più connotate (redazione 13a: casa > villetta; lavorava > giungeva il ronzio; 11b: di birra > inondati di birra; unti > bisunti), al contrario dell’operazione svolta in 6c, che accordava preferenza a variante più denotative (vessilli > bandiere; sanguina > scende).

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Commento a Studia la matematica!

L’unica bozza conservata al Centro Manoscritti trova un riscontro puntuale con la redazione 27d di Implosion, testo-culmine (oltre che eponimo) del Cerchio aperto. Alle righe 12-14 della carta 27d, Erba ipotizza infatti il finale «uscivamo anche sotto un cielo di piombo / sulle guance rabbrividiva l’ultimo dattero / acne juvenilis, il pomeriggio a zonzo», che richiama le righe 10-12 della bozza 13a: «sotto cieli di piombo / e l’acne giovanile / delle domeniche a zonzo». Dal momento che il passaggio sarà totalmente riformulato nella versione a stampa del testo XXVII (che non contemplerà né l’acne né la rima piombo- zonzo e neppure la cromia plumbea, optando invece per un bianco accecante), ritengo che i due componimenti, evidentemente coevi, siano sgorgati dallo stesso interesse per il recupero memoriale della prima pubertà. Implosion vira però verso una meditazione sull’irreversibilità del tempo lineare, mentre Studia la matematica! focalizza proprio le dinamiche tipicamente adolescenziali delle lezioni private e del desiderio represso. Ritengo che, anche se il testo XIII non dovesse derivare in toto dall’espansione del nucleo acne-piombo-zonzo (opzione che credo plausibile), abbia comunque attratto a sé il finale inizialmente composto per un altro testo (il XXVII, appunto) che era meno centrato sulle abitudini giovanili. I versi 1-9 sarebbero quindi stati redatti senza la precisa previsione di un finale che viene quindi prelevato dai numerosi e contraddittori avantesti di Implosion perché più idoneo.

Studia la matematica!, direi fra i testi più riusciti del Cerchio aperto, è stato pubblicato, insieme con Il pubblico e il privato e Abito a trenta metri dal suolo, sull’“Almanacco di Bellinzona” (Bonalumi 1983, 91) poco prima di uscire per i tipi di Scheiwiller. Come i componimenti che lo accompagnavano sulla testata svizzera, mette a fuoco un’ambientazione domestica, concentrandosi sulle tensioni interpersonali che si instaurano quando si penetra in uno spazio privato. L’adolescente ospitato nella «villetta» del primo verso ha percorso infatti un lungo tratto («al capo opposto della città») per trovarsi in un contesto alieno e quasi infiltrarsi nell’harem di un’altra famiglia, in assenza del marito dell’insegnante con cui studia. La venatura erotica è tanto più sottile poiché significata solo mediante stimoli sonori (il fruscio della vestaglia, il ronzio della fresatrice) che contrappongono la prossimità del corpo femminile al verso 5 alla lontananza del «marito», relegato nel «sotterraneo» ai vv. 7-8. Tuttavia la tensione resta del tutto irrisolta e non trova sbocco giacché l’oggetto stesso del desiderio non è mai nominato direttamente: mancano infatti riferimenti espliciti alla donna e al suo corpo, poiché è la sola vestaglia ad apparire sulla scena, ad «apri[rsi]», e il fatto che l’anonima protagonista sia sposata è deducibile unicamente dall’allusione, questa sì diretta, al «marito».

L’inattingibilità della donna, la distanza che si interpone e la rende intoccabile agli occhi dell’adolescente, si concretizza anche nell’uso del deverbale «frusciava», il cui sostantivo d’origine era già apparso nel Cerchio aperto (per giunta rimarcato dall’accento tonico che segnalava uno iato: «fruscìo») dove rappresentava la traduzione sul piano fonico del «congedo» dal gatto, nel testo VII, ed era quindi stato

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già impiegato proprio per misurare una distanza come quella che impedisce adesso allo studente di Studia la matematica! di nominare la donna pur parlando di lei. Proprio da quello stesso testo è stato prelevato anche l’emistichio finale (v. 11) di Studia la matematica! («di un ritornare a zonzo») nonché la «delizios[a] assonanz[a]» baciata (piombo/zonzo) considerata da Vico Faggi (1993, 109) come soluzione tipica e rappresentativa del poetare di Erba, la cui musicalità complessa e sempre implicita affiora solo nella clausola finale. Il finale del testo XIII documenta quindi la storia del testo che deve essere considerato la messa a frutto di stimoli emersi durante la fase di elaborazione dei testi VII e XXVII e che, non avendo trovato pieno sviluppo in tali sedi, sono stati non solo recuperati ma anche irrobustiti e ampliati nella strofa unica dedicata al desiderio frustrato del giovane studente. Le relazioni tra Congedo e Studia la matematica! sono però più profonde di quanto possa sembrare: i due coprotagonisti attorno ai quali sono costruiti i testi –il gatto in uno, la donna nell’altro– non solo restano anonimi e si esprimono entrambi attraverso un fruscio, ma sono anche sostituiti dalla descrizione di un interno domestico e da un senso di distacco che trasforma il colore del cielo fino a fargli assumere il colore del «piombo». I punti di contatto tra le due poesie sono tanto numerosi da indurmi a ritenere che l’insegnante del testo XIII funzioni come il gatto del testo VII, ne erediti cioè il ruolo, così come la fessura nella vestaglia semiaperta eredita il ruolo dello spiraglio di Implosion e della fessura sotto la grondaia di Congedo per esprimere una distanza incolmabile e marcare la soglia oltre la quale non è possibile accedere: il gatto e la donna sono lontani, perduti, inavvicinabili. Il fruscio concretizza la sparizione del «tenerissimo yeti» e la distanza incolmabile tra lo studente e la donna, ma tornerà anche nel testo XXV, con tutt’altra solennità, a sottolineare la scomparsa della madre e l’impossibilità di elaborarne il lutto. Giuseppe Limone (2012), nello studiare l’immaginario di Erba legato alla figura del gatto, parte proprio dal commento del distico finale di Studia la matematica!, riscontrando l’istituzione di rapporti significativi tra la ristrettezza di fessure, echi o fruscii appena percepibili e l’affioramento di tensioni latenti o istanze rimosse.

La ricerca di un’eco, di un varco, di una risposta che parta dalle umili fessure che il mondo, nel suo straordinario esser grande, in luoghi minuti seppellisce e nasconde, [costituisce quasi] un’interrogazione metafisica che ha, per così dire, pudore di sé stessa e che, per simmetria verso lo stesso mondo su cui indaga, si seppellisce e nasconde nella ‘curiosità’. Ma ciò non impedisce che, a un tratto, furtivamente spunti, da un punto qualsiasi del verso, un ardire di solennità: si pensi, per un esempio, a Studia la matematica!, là dove può cogliersi come da uno scorrere di versi mantenuti –in note di memoria e di colore– su un livello di registro basso possa zampillare all’improvviso un endecasillabo solenne, sfuggito alla penna dell’autore, e forse non solo per caso: «capivo poco e non ricordo altro». Solennità subito ridotta, poi, e restituita alla sordina dai due versi successivi: che pur mantengono e confessano, però, a scala inferiore, una loro speciale icasticità, se si osserva il loro collocarsi –l’uno nei confronti dell’altro– in una simmetria speculare di ritmi e in una falsa rima baciata che fa da sigillo per la fine («sì, clacson nelle vie sotto cieli di piombo/ e l’acne giovanile di un ritornare a zonzo»). Diremmo che nella poesia di Luciano Erba si diano, nella ricerca della metà aperta dall’evocazione, varie e complesse modalità di microincursioni nel mondo di un ‘simbolico’ non confessato e fuori degli stampi della tradizione. Il quale ‘simbolico’ è […] la possibile parte emersa di un’altra possibile parte che non vediamo e che pur, contemporaneamente, è l’altro versante che chiama. […] In questo senso il gatto è, nella lirica di Luciano Erba, il mago e il rabdomante della profondità. E non a caso. Nella sua figura, infatti, possono alchemicamente legarsi […] la superficie domestica e gli abissi della profondità. […] Il gatto apre nell’universo euclideo gli altri luoghi non euclidei che ne forano la ‘totalità’. Totalità pretesa, troppo pretenziosamente esaustiva per essere vera. Sia quella geometrica di Euclide sia quella fisica dello spazio-tempo assoluto. (Limone 2012)

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Il gatto e l’insegnante sono accomunati, allora, anche da un altro fattore: sono incaricati di guidare l’io poetante nella lettura matematico-euclidea del mondo, come renderà esplicito il Gatto post-euclideo della suite Versi di un amatore di gatti (Erba 2002, 333-5). Tuttavia il fruscio che esprimeva il distacco dal felino in Congedo appariva al verso 7, dove appare adesso, in Studia la matematica!, tutt’altro suono: il «ronzio» della fresatrice, che si impone piuttosto come traccia della presenza di un antagonista, cioè il marito nel sotterraneo. L’asse del testo XIII sembra quindi spostato più sulla relazione fra l’adolescente e l’uomo che sull’interesse nei confronti dell’innominata donna: è col marito che l’io poetante si confronta scopertamente, istituendo un rapporto di competizione circospetta e latente. Il rapporto di antagonismo tra il giovane studente e l’ingegnere maturo è un gioco sotterraneo (e il «sotterraneo» appare appunto al settimo verso), tra i cui indizi devo annoverare persino la denominazione manifesta dell’impresa tedesca che produce la «matita faber». La marca della matita è infatti meno oziosa di quanto potrebbe sembrare: benché non sia assonante con nessuno degli altri termini in posizione di rima, il sintagma «matita faber» è collocato a fine verso in modo da formare non una rima bensì un parallelo antitetico col «marito ingegnere» dell’ottavo verso. La paronomasia matita/marito evidenzia quindi un pun etimologico tra il latino faber e la parola «ingegnere», tra lo studente-fabbro, distratto, che succhia la matita e l’uomo- ingegnere intento al lavoro con la fresatrice: su questa impercettibile linea metallurgica si impianta quindi il raffronto fra l’adolescente (faber mancato) e l’uomo (ingegnere realizzato), in cui il più giovane è destinato alla sconfitta per il fatto stesso di trovarsi nella villa a causa delle ripetizioni di matematica (v. 4), disciplina in cui il marito, caratterizzato dalla professione quasi fosse un epiteto, deve evidentemente essersi già ampiamente versato durante gli studi universitari. Il senso di schiacciamento e di sbaraglio che l’adolescente si porta dietro, una volta uscito dalle lezioni private, è quindi nuovamente espresso in termini metallurgici («cielo di piombo», v. 10), così da far salire a tre i cenni espliciti al metallo con il «bossolo di granata» che fa da «fermacarte» in casa (v. 3) e la «fresa» nel sotterraneo (v. 8).

Se le allusioni erotiche si concentravano densamente nei soli versi 5-6, tutte espresse in forma verbale («la vestaglia frusciava, un po’ si apriva / succhiavo»), gli oggetti di metallo –sostantivi– sono dislocati per tutta la lunghezza del componimento, quasi fossero disposti in ordine sparso per visualizzare le schegge metalliche disseminate per la casa («schegge» è una variante inserita infatti nella redazione 13a e poi rimossa): sono le tracce del lavoro dell’ingegnere. Le schegge di metallo potrebbero infatti sprigionarsi sia dall’operazione di fresatura sia dalla granata esplosa che funge adesso da fermacarte, sia monito sinistro –per l’adolescente– dell’ostilità della matematica sia sintomo appena appena alluso della bellicosità dell’ingegnere e della sua sposa latentemente desiderata. Ma è l’intera villetta con l’odore d’unto a richiamare una Milano sinistra, non solo il fermacarte: si tratta di una di quelle squallide case monofamiliari che Erba associa alla desolazione fin da quando, ancora studente, appunto, le osservò col celebre supplente di italiano e latino che lavorava al liceo Manzoni: Vittorio Sereni. In una lettera a Sereni

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del maggio 1950, ricorda espressamente Erba: «Andando al tram passammo accanto a lunghe file di villette per i pensionati delle ferrovie e tu [Sereni] dicesti: “Anche questa è l’Europa”» (Poli 2012, 21). Il commento, così come è rammentato e citato da Erba, richiama curiosamente il verso 12 di Quartiere Solari: un’altra periferia milanese (si veda il rigo 1 della redazione 13a) che sembra significativa proprio a causa della desolazione storica che incarna. E un’altra occorrenza di “villetta” cadrà in un nuovo testo, successivo all’Ippopotamo eppure del tutto consimile: Altrove padano I (Erba 1995, 40).

La vecchia locomotiva di Voghera arrugginisce ancora sui binari (che siano versi di cantautore?) pure vorrei trovarne di altrettali per dire luoghi-momenti

per l’ora del professore di ginnasio che dà ripetizioni di latino

tra sassifraghe e frasche in una villetta con giardino per l’ora del tè dei veterani

a turno vicino al freddo dell’inverno che da queste parti comincia a farsi sentire già dopo la Madonna di settembre.

Questi pochi versi riassumono e coordinano in un insieme calibrato tutti gli spunti allusi nella lettera a Sereni (la ferrovia, gli anziani, la desolazione, il professore di latino) e in Studia la matematica! (le ripetizioni, il grigiore del tempo meteorologico, il metallo/ruggine), concretizzati sempre nella scenografia di una villetta provinciale, quasi che fossero l’architettura stessa, la sua posizione nell’abitato urbano e la sua relazione con le infrastrutture a motivare l’insorgenza di tensioni latenti. La villetta in periferia assume quindi il ruolo di un osservatorio privilegiato, sembra che le sue caratteristiche cronotopiche (i «luoghi- momenti» di Altrove padano I) causino implicitamente l’emersione del rimosso. L’analisi delle implicazioni causali implicite della «villetta al lato opposto della città» è stata oggetto di uno splendido saggio di Pier Massimo Forni (2003), seguito a un primo articolo già dedicato allo stesso testo (Forni 1992). L’ipotesi di Forni è che il perno del componimento sia l’«infatti» al quarto verso, anziché l’esibizione della sconfitta e del trauma al verso 9 come credeva Limone. Cito Forni poiché considero che la sua lettura centri pienamente il meccanismo retorico su cui si basa Studia la matematica!.

Il verso chiave non recita «andavo a lezione di matematica», bensì «andavo infatti a lezione di matematica». La prima impressione forte è che lungi dall’essere zeppa o semplice modulatore ritmico, l’infatti al verso 4 caratterizzi radicalmente –“faccia”– la poesia. Proviamo a immaginare che il testo ne sia privo. Avremo così un semplice documento d’esperienza personale e d’atmosfera. Il poeta contempla il suo giovane “io” impegnato/disimpegnato in uno dei più comuni riti scolastici: le lezioni pomeridiane nella materia ostica, il cosiddetto «andare a ripetizione». Cosa succede quando rimettiamo l’infatti al proprio posto? Ecco che esso alza decisamente l’ambizione conoscitiva del dettato, la poesia diventa un’altra poesia. Succede che il moto creativo appaia ora pervaso da un quasi esplicito appello al famigliare, al comune, all’ordinario. L’infatti proietta su ciò che precede la luce del noto e del condiviso. L’esperienza del giovane “io” diventa, improvvisamente, esperienza comune. Questo fenomeno comporta un’articolazione di ciò che vorrei chiamare pseudo-verità. Che cosa fa dire ai versi precedenti l’inaspettato infatti del quarto verso? Fa dire che se si va a lezioni di matematica questa è la scena obbligata. Siamo sottilmente invitati a leggere nel modo seguente: come tutti

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sanno, o dovrebbero sapere, se si va a lezione di matematica deve esserci una villetta, la villetta deve essere al lato opposto della città […] eccetera. Questa è l’esperienza di tutti dice l’infatti, ciò che ovviamente non è vero. È una presunta verità, una verità basata sul sorriso tra intelligenze complici. Nel dire con l’infatti: tutti sappiamo bene che le cose si configurano in questo modo quando uno va a lezione di matematica, il testo fa appello a due ordini di complicità. Il primo è quello dell’esperienza simile. La tua esperienza, lettore, ebbe il bossolo ma non il soffritto, comunque basta il bossolo per far scattare ciò che deve scattare. Il secondo implica un coinvolgimento più astratto e gratuito. Io poeta ti dico che le cose stanno così quando uno va a lezione di matematica e tu, lettore, fingi di crederci. (Forni 2003, 75)

Un testo che finge di esprimere una verità è un testo parodico nella misura in cui costituisce un autosabotaggio: è un testo che dichiara apertamente di essere una costruzione fittizia inaffidabile. Non era vero niente poiché niente era sincero: l’emersione del desiderio sessuale rimosso, la tensione erotica latente, l’antagonismo con il marito non sono fortuite manifestazioni emerse per baluginanti e involontari accidenti retorici, ma fiction volontariamente e consciamente orchestrata. Una poesia che sembrava intrisa di psicologismi e di un alone vagamente confessionale si rivela proprio il contrario di quel che appariva: è una poesia che parodia la letteratura confessionale e sabota la critica psicanalitica. L’uso del connettivo causale al quarto verso («infatti») induce il lettore a cercare altre relazioni di causa tra elementi contigui come la virgola del verso 5, pregnante perché unica virgola del testo («la vestaglia frusciava, [=poiché] si apriva»), o l’a capo tra i versi 6-7, che parrebbe motivare la distrazione dello studente svogliato («assorto [poiché] / dal sotterraneo udivo il ronzio»). Da «infatti» a un segno interpuntivo al solo spazio bianco tra una riga e l’altra, però, le implicazioni causali sembrano farsi sempre più deboli e invisibili, a mano a mano che il lettore si avvicina al centro del componimento (il verso 7), dove figura appunto il personaggio invisibile del marito. La presenza dell’uomo verrà a malapena percepita come un ronzio dall’adolescente nella villetta, mentre la donna resterà senza nome e senza volto. I personaggi sono insomma via via smaterializzati, così come le connessioni causali («infatti», la virgola e lo spazio bianco) e la plausibilità stessa del triangolo erotico latente, poiché il testo XIII non è una poesia di origine psicodrammatica ma una poesia che si oppone e resiste a una lettura psicanalitica in quanto si serve di dispositivi inafferrabili come pseudo-verità, pseudo-personaggi, pseudo-implicazioni causali. Il titolo all’imperativo, Studia la matematica!, suona quindi come un’ammonizione al lettore e non solo al protagonista adolescente delle ripetizioni liceali: un invito a soffermarsi sulla matematica del testo, cioè la sua struttura metrico-numerica e logico-retorica, anziché perdersi in elocubrazioni (anziché andare «a zonzo»).

Sotto questa angolatura possono essere letti anche altri esperimenti nel campo della propensione anti-psicanalitica di Erba, della sua attitudine a trattare la poesia come oggetto costruito sulla pagina e non come rivelazione di un dramma intimo. Penso, per fare due esempi, alle stoccate dirette allo psicoterapeuta in Off-limits for doctor K. (Erba 1995, 17: «quanto ad analizzare: il ciel ne scampi») e alle teorie freudiane e heidegerriane in Uomo pensoso con gatto (Erba 2006, 51: «l’assalto / dell’es, dell’Angst, und so weiter»), due testi che insisteranno ancora una volta sul ruolo della donna e del felino nello scacco che investe la psicanalisi quando tenta di esaurire la lettura della poesia come documento biografico piuttosto