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3 (quel volto che non voleva essere ovale) 4 sarà che a volte nel segreto degli occh

5. passava un lampo d’immensa dolcezza

6. e tanto bastava perché apparisse un ciel d’oro

7. di pietà, di letizia sulla selva dei tuoi capelli

Dattiloscritto in inchiostro nero, con prime correzioni in penna stilografica nera, poi in penna stilografica blu e infine in MATITA ROSSA infine in penna biro nera. Foglio da risma 280 x 220.

«a M»] manoscritto in penna stilografica nera apportato in un secondo momento e poi cassato in matita rossa

2. «pur così bruna, pur così illirica»] cassato in matita rossa, l’asterisco a inizio verso rimanda alla variante con le spaziature segnate a biro nera in colonna:

«spazio

tu pur così bruna, poco ovale, assai illirica spazio»

3. «(quel volto che non voleva essere ovale)»] cassato in matita rossa dopo l’appunto in stilografica nera «?»

4. «a volte»] correzione a margine in «giorni», cassato in matita rossa «segreto»] «top secret», variante in interlinea cassata in penna blu 5. «passava»] «passò»

«lampo»] «enigma», cassato in matita rossa, «luce» 6. bastava] «bastò»

Nel margine inferiore a penna stilografica nera:

«Nota nomina sunt consequentia rerum?»] cassato in matita rossa In biro nera:

«Nota

Illirica: è questo un caso abbastanza eccezionale, in cui un nome non è consequentia rerum Oppure: senza allusione ad alcuna consequentia rerum del termine qui impiegato.»

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Commento a «se mai ti ricorderò come una madonna senese»

Già testo inaugurale del Cerchio aperto, la «madonna senese» insiste anche sulla soglia della nuova silloge e forma un dittico con la dedica alla moglie, tanto da indurre Folco Portinari a definirlo un «madrigale da nozze d’argento» nella brillante e fulminea recensione al Cerchio aperto uscita sull’“Unità” (Portinari 1984, 13). La lettera puntata dell’Ippopotamo, «a M.», riprende infatti l’omaggio «a Mimia» del 1983 e la sigla ipotizzata nella redazione 1e, l’ultima testimoniata prima della stampa del nome completo. Il ritorno a «M.» nel 1989 richiama più efficacemente l’iniziale di «madonna», oltre che di Mimia, mettendo in dialogo il «ti» e il «tu» del primo distico con la dedicataria della raccolta. La posizione del pronome personale «tu», in apertura del secondo verso, enfatizza il soggetto esplicito, in opposizione all’io sottinteso dell’incipit e alla costruzione impersonale del terzo verso, secondo una successione strettamente grammaticale.

[prima persona singolare: io] ti ricorderò… [seconda persona singolare:] tu così bruna… [terza persona singolare:] sarà che a volte…

La rarefazione del nome (Mimia>M.) corre quindi parallela alla rarefazione del soggetto grammaticale che, nel giro di sei versi, subisce una progressiva spersonalizzazione secondo la sequenza ribattuta due volte nell’ultima quartina: «(io), tu» [vv. 1-2], «sarà che passò» [vv. 3-4], «tanto bastò perché apparisse» [vv. 5-6]. Anche sul piano strettamente figurativo, la silhouette femminile si perde via via, sciogliendosi nel fondo oro, sicché il tono cromatico («così bruna») e il disegno («poco ovale») vengono progressivamente corretti e disumanizzati dall’impianto luministico. È un processo d’astrazione: una dichiarazione d’intenti che prelude all’operazione perseguita nella sezione centrale della raccolta e conclusa dopo diciassette anni col testo Deh!, peregrini… (Erba 2004, 32; Erba 2006, 52), che esaudirà pienamente questa vena astratta e implicherà altresì una citazione dantesca (Rime, XXVI), in risposta alla «selva», qui posta en abyme all’ultimo verso. Mimia è quindi entrata a volto nudo nel Cerchio aperto, per poi subire un occultamento in fase di revisione e accorpamento nella nuova raccolta. Proprio di una reazione alla selva parla anche Tommaso Lisa (2007, 44) riferendosi al fatto che, «in sede di poetica, il tratto comune ai poeti lombardi risulta la degradazione della selva degli oggetti salvifici e degli emblemi montaliani, abbassati stilisticamente nell’anti-sublime del gioco di citazioni e riciclaggio di materiali letterari». La selva di Erba sarebbe insomma una selva desublimata e sorniona (così come la sua «madonna» con la minuscola, del resto), insomma una selva tanto post-montaliana quanto lontana dall’Inferno. Ciononostante, è pur vero che –in quel gioco di citazioni e riciclaggi menzionati da Lisa–

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l’ambientazione senese avvicina il testo I e la dedica dell’Ippopotamo a dediche consimili, ugualmente costituite da iniziali puntate e relative a testi d’orizzonte senese, come il Palio delle Occasioni (1939), raccolta notoriamente composta per «I. B.», e quell’Elena Vivante, celebre «signora di noi tutti» del Quartetto montaliano, anch’ella comparsa con la sola iniziale («a E.») come dedicataria, tra gli altri titoli, dei Trucioli (1948) e degli Scampoli sbarbariani (1960) ambientati nella villa a Solaia di Monticiano, ancora nel senese. La correlazione Montale-Erba, per altro già sottolineata (Prandi 2002, VIII; Verdino 2012, 135), coinvolge anche quei cieli senesi «irrefrenati» nel Palio, e dedicati «a I.» e quel il cielo senese «d’oro» dedicato «a M.». L’espressione «ciel d’oro» cela comunque una personale riappropriazione della tecnica toscana, poiché il fondo-oro della pittura gotica senese viene tradotto dal lombardissimo Erba nei termini padani di San Pietro in ciel d’oro, basilica pavese tra i capolavori del Romanica italiano.

L’occultamento di Mimia in M., della notazione lombarda e la dissoluzione della madonna nello sfondo sono ricalcati, sul piano prosodico, dalla dissimulazione dell’endecasillabo, dapprima palese («passò una luce d’immensa dolcezza»), poi camuffato all’ultimo verso dall’aggiunta di un quinario, proprio in corrispondenza del lemma eminentemente dantesco –«selva», di cui si è già detto–, che inaugura sia la Commedia che L’ippopotamo («di pietà, di letizia sulla selva – dei tuoi capelli»).

I sei versi privi di maiuscola e di punto conclusivo potrebbero suggerire un accostamento con la mise en page di molta poesia contemporanea tra gli anni Ottanta e Novanta (penso a De Signoribus, Testa o Marcoaldi), tuttavia sembra più plausibile che Erba intendesse realizzare una figura miniata, quasi un’unica lettera capitale incipitaria, tracciata mediante singola strofa. Il testo intero assumerebbe insomma il ruolo di miniatura d’esordio e pertanto non necessiterebbe di lettere capitali proprie: sarebbe esso stesso l’iniziale campita su fondo oro. L’aspetto eminentemente grafico del componimento consiste infatti nell’allusione a una scuola precisa (la pittura gotica senese fra XIII e XIV secolo), dei cui dettami il testo si avvale in chiave strumentale (cioè per scrivere) ma non ecfrastica (cioè senza descrivere). Erba sfrutta la tecnica pittorica senese per realizzare un ritratto a memoria («ti ricorderò»), ma non assume a modello una tavola specifica. Certo, non mancherebbero casi particolari di Madonna su fondo oro, che potrebbero essere evocati a supporto della tesi di un’ekphrasis mimetizzata e poi contraddetta.

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L’accenno al colore dei capelli indurrebbe un paragone con la prima illustrazione: la Madonna dell’Umiltà di Gregorio di Cecco (Museo dell’Opera Metropolitana, Siena), bionda e quindi opposta a Mimia «così bruna»; oppure con la pala di Ambrogio Lorenzetti realizzata per San Pietro in Castelvecchio, o ancora con la Pala del Carmine di Pietro Lorenzetti (Pinacoteca nazionale di Siena) e la Madonna col Bambino di Paolo di Giovanni Fei (Museo dell’Ermitage, San Pietroburgo), nella seconda illustrazione.

Non dovrebbero invece essere considerate plausibili la celebre Madonna col Bambino di Simone Martini (n. 583 alla Pinacoteca nazionale di Siena), poiché velata, né la Maestà nel Palazzo Pubblico, su fondo blu anziché aureo. Ciononostante ritengo che l’assenza di riferimenti puntuali a una tavola o un affresco implichi, piuttosto, l’individuazione di una pista stilistica anziché di un modello univoco. Pertanto il «come» del primo verso dovrebbe essere inteso così: «se mai ti ricorderò» alla maniera di «una madonna», e non: come se fossi «una madonna» specifica.

La centralità della Vergine nell’immaginario senese è in effetti confermata dalla titolatura medievale di Sena, vetus civitas Verginis, ripresa nel titolo di Titus Burckhardt Siena città della Vergine (Burckhardt 1958). E converrà rilevare che lo storico svizzero sottolinea la filiazione della pittura senese del Duecento dalla «maniera greca» di influenza pisana, scrivendone:

La pittura liturgica dell’Oriente bizantino, l’arte delle icone che si era diffusa innanzitutto nella città marinara che era in rapporti commerciali con Costantinopoli e con Cipro […] è una pittura che conferisce alla linea vibrazioni impercettibili e al colore un’armonia potentissima. La maggior parte delle tavole senesi di questo periodo sono delle vere e proprie icone; con esse inizia la bellezza festosamente intima dei cosiddetti maestri primitivi di Siena.

In quest’ottica, la poesia di Erba sembra recuperare il patrimonio figurativo gotico-bizantino, aggiornandolo in chiave astratta. In altre parole: Erba si focalizza sullo studio del colore e della linea, ma in ottemperanza a una ricerca che vira adesso verso l’astrazione e culminerà negli avantesti di Viaggiatori (testo XXX) e Filo di ferro (XXXII) nella «policromia» della bozza 30a e nel «profil[o] delinea[to]» sulla «pagina bianca» della 32c. Se l’«ovale» del volto si approssima al cerchio aperto del titolo, mentre il nero dei capelli sfuma verso la campitura d’oro, è il testo a produrre entrambe le modificazioni. E sono proprio la linea e il colore a essere coinvolti. Lo stimolo consiste nel «segreto degli occhi» della «madonna», documento di quella «bellezza intima» individuata da Burckhardt come carattere peculiare della pittura duecentesca. Burckhardt tratta specificamente la pala d’altare di Duccio per il Duomo e l’Annunciazione di Simone Martini agli Uffizi, ma evidenzia soprattutto una solida continuità carsica che prende avvio dal culto di Minerva poliade, antecedente della Madonna in qualità di Vergine paladina, tanto sentita da screditare il ritrovamento di una scultura romana di Venere nel 1345 (Burckhardt 1958). Anche il libro «della corporazione (“breve”) dei pittori senesi dell’anno 1355» insiste sulla figura della «gloriosa vergine Maria», che risalta, quindi, come tassello centrale tanto nel sentimento di appartenenza alla civitas quanto, sei secoli più tardi, nel testo di Erba. Questa sorta di tavola in versi non è infatti il tentativo postmoderno di una mimesi gotica, bensì lo sforzo di saldare una tradizione visiva profondamente italiana a una prova

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di astrazione e rarefazione che L’ippopotamo porterà avanti proprio a partire dall’analisi cromatica e dal tratteggio della linea combinati nei testi che seguiranno.

Per ampliare lo sfondo alla Milano in cui operava Erba, sarà utile considerare che, già due anni prima del Cerchio aperto, usciva, sempre nel capoluogo lombardo, il quaderno dello scultore Fausto Melotti intitolato Linee (Melotti 1981). Il volumetto Adelphi intrattiene singolari rapporti di somiglianza con L’ippopotamo perché rappresenta il terzo stadio di un testo composto per sottrazioni e varianti, così come L’ippopotamo aggregherà e varierà tre nuclei. Melotti alza il sipario sulla «letizia […] di Maria» che «non genera il riso», così come la «letizia» della «madonna senese» resterà latente (in «segreto») nel Cerchio. La scelta dei titoli di Fausto Melotti e Luciano Erba oscilla tra l’orizzonte geometrico (Linee, Il cerchio aperto) e un bestiario di grossa taglia (L’orso boscaiolo, L’ippopotamo). Come spiega la prefazione di Giorgio Zampa a Linee, l’ippopotamo di Erba trova infatti un interlocutore nell’orso boscaiolo che sarebbe dovuto comparire in copertina a Melotti.

L’immagine che più lo [Melotti] tenta, alla quale non gli sarebbe spiaciuto dedicare, fin dal titolo, queste pagine, è quella dell’Orso Boscaiolo. Fa alcune apparizioni, agile, goffo, sornione, imprevedibile, in radure esistenti solo nell’immaginazione infantile. […] L’Orso Boscaiolo, scelto come titolo, non avrebbe dato ragione sufficiente del carattere di questi quaderni; impossibile, d’altra parte, passarlo sotto silenzio.

Ma l’ippopotamo che si apre un varco «nel folto della giungla» non si comporta poi diversamente dai bambini di Melotti che si «fa[nno] strada» nel «folto», tra le «erbe cresciute» proprio nella «selva» (Melotti 1981, 21): piedritto e termine di quell’arco tematico che dai capelli della madonna senese conduce alla giungla dell’ippopotamo. È in fondo manifesto che la materia stessa delle più aeree sculture di Melotti, la barra e il fil di ferro, possa essere messa in relazione con la poesia di Erba dedicata al Filo di ferro (testo XXXII, al quale si rimanda) che, in qualità di autoritratto, costituisce una sorta di pendant al ritratto della madonna e sarà ripresa nell’auto-senhal «filo d’erba» (Nel bosco, testo II). L’aspetto metapoetico e autocritico del componimento di apertura può essere confermato anche dal confronto con altre poesie d’esordio, stampate in corsivo come la «madonna senese» ed esplicitamente votate alla riflessione su di sé e sulla scrittura: Mi sento le guance di cartone (Erba 1980), less is more (Erba 1998), poesia sei come uno scoiattolo (Erba 2004), è già tanto se sento il mormorio (Erba 2006). In particolare, l’esergo dell’Ipotesi circense –less is more– suggella la spinta all’astrattismo inaugurata qui dalla campitura dorata e salda il minimalismo sui generis di Erba (Erba 2003s; Verdino 2004; Rossani 2007; Aragno 2008; Limone 2012; Pacini 2014) a una radice figurativa italiana anti-realista e anti-paesaggistica di marca gotica e di derivazione bizantina, evolutasi principalmente mediante l’affinamento di un lavorio cromatico. Annoto a margine l’occorrenza, che mi sembra singolare, dell’aggettivo “bizantino” come parte del «lessico famigliare degli Erba», dove viene riferito a Mimia e «vale probabilmente come “incinta”» anche in una lettera di Gianfranco Contini a Erba (Azzarone 2016, 76) «dato che al tempo della prima gravidanza» la donna «non era ancora sposata» e

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«aveva nascosto il proprio stato ai genitori trasferendosi a Parigi dalla sorella con il pretesto di frequentare un corso di greco bizantino» (ibidem).

In chiusura al sesto verso, l’espressione «sulla selva dei tuoi capelli» configura un luogo metaforico che riprende l’emistichio «nel segreto degli occhi», al terzo verso (con allitterazione segreto/sulla selva). Gli attributi femminili, occhi e capelli, concorrono alla possibilità ipotetica («se mai») della trasformazione, anzi: la catalizzano. La corrispondenza ai versi 3 e 6 istituisce una rete di rimandi impliciti fra i versi delle due terzine (i vv. 1-3 coi vv. 4-6), per cui la posizione della «madonna senese», nell’architettura della strofa (v. 1), corrisponde all’«immensa dolcezza» del quarto verso, e il focus sul «ciel d’oro» all’aggettivo più peregrino, «illirica». Le note d’autore cassate alla carta 1e specificano che «illirica» non deve essere inteso alla lettera, o meglio: che la scelta del termine, comparso fin dalla prima stesura, non è «consequentia rerum». In questo senso si dovrà rilevare che, benché Mimia sia autenticamente di famiglia istriana, quindi balcanica (latamente illirica), l’aggettivo deve essere interpretato solo in opposizione all’etnico «senese». Stabilisce una distinzione fra tipi iconografici: il gotico-bizantino-ovale contrapposto a un presunto illirico-bruno-aspro («illirica asprezza», nelle redazioni 1a, 1b, 1c). La scelta non deve essere letta in chiave geografica, dal momento che sono situate nella penisola balcanica sia l’Illiria sia la Grecia, matrice della maniera pittorica senese. Costituisce semmai l’occasione di contraddire le evidenze biografiche, giacché la Mimia istriana è e, al contempo, non è più del tutto la M. illirica, trasfigurata nella memoria e assunta all’aureo cielo.

In Soltanto segni? (Erba 1992; Erba 1995) la distinzione stessa fra nomina e res, qui solo allusa in nota, verrà apertamente indagata («Segni? Parole? Oppure res?») e contrapposta a un «cancellum, barriera, anzi steccato», che designa il limite oltre il quale non si può «vedere» né «ricord[are]»: un limite luminoso che, come il cielo della madonna senese, rappresenta il fondo e il fondale dell’esperienza, l’estrema barriera cognitiva che non può essere valicata perché è già un altrove inattingibile: il confine tra le parole, le cose, la vista e la memoria.

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Per descrivere tale cancellum, Erba ricorrerà proprio agli strumenti di cui si avvale nel disegno della «madonna»: il ricordo, la linea e la cromia. Lo steccato designato da Erba, infatti, «è un tratteggio animato, un poco elettrico / di colori sottili, luminosi», che non può non richiamare le griglie di neon realizzate da Dan Flavin e già parte della collezione permanente di arte minimalista a villa Panza (Varese), che sarebbe stata donata al FAI l’anno seguente alla pubblicazione di Soltanto segni? (1997), proprio quando la Fondazione Prada finanziava l’installazione di un’altra opera dell’artista statunitense a Milano (Santa Maria Annunciata in Chiesa Rossa). Ma potrebbe essere anche evocato, come ultimo esempio o referente, questo, sì, più schiettamente milanese dei precedenti (sia per la posizione centrale, nel quartiere di Porta Romana, sia per l’italianità degli autori), l’ingresso progettato da Gigi Ghò nel 1951 in via Sant’Antonio Maria Zaccaria 3 (Kolbitz 2017, 256-9) con ceramiche del già menzionato Fausto Melotti e una scultura di Lucio Fontana. La composizione di Fontana include cinque barre di neon in azzurro, bianco e rosa, incrociate a diverse altezze così da formare una sorta di graticola cromatica sospesa accanto al portone d’accesso, benché una recente ristrutturazione orribilmente miope abbia sostituito i due tubi colorati con altrettanti tubi bianchi.

In conclusione: il testo d’esordio dell’Ippopotamo dispone di un patrimonio visivo e di una strumentazione (linea, colore, astrazione, fondale) che saranno presto impiegati nello scandaglio dei limiti cognitivi e dell’insufficienza di ogni possibile rappresentazione (si veda il testo XXIV), proprio a partire dallo studio della linearità e della luminosità. Erba segue una traiettoria che preleva il carattere grafico e sacrale della pittura duecentesca di area toscana, per approdare infine a una resa elettrica del tratto e del reticolo, tanto che sul piano strettamente retorico, in effetti, è proprio il reticolo la figura che meglio si addice alla descrizione della trama fonica e sintattica della «madonna senese».

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II.

Nel bosco

e tu pensavi che come a un saggio orientale ti bastasse stare addossato a gambe incrociate alle radici sporgenti di un faggio

per allontanare il pensiero di lei e diventare l’azzurro tra i rami

o magari formica corteccia filo d’erba sono passati tre lenti fiocchi di nuvole e sei ancora tu

ami, ma ami senza: migliore esperienza?

Il cerchio aperto, 1983, p. 8

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Nota prosodica

Dieci versi liberi (di cui il terzo e il quinto sono endecasillabi) organizzati in una prima lassa di sei, seguita da due diversi distici. I primi due versi di ciascun raggruppamento sono rimati (vv. 9-10: senza/esperienza), assonanzati (vv. 1-2: orientale/incrociate) o accentati sulla stessa vocale (vv. 7-8: nuvole/tu). Nei restanti quattro versi, la metrica mette in risalto gli endecasillabi (vv. 3 e 5), che cercano rime interne, a distanza, rispettivamente coi versi 1 (saggio/faggio) e 9 (rami/«ami, ma ami»), sottolineando i punti focali di una descrizione paesaggistica (faggio, rami) che vira sul piano elegiaco, sottolineato subito dopo l’uscita del libretto dalla recensione di Bevilacqua (1984, 14) al Cerchio. Tra i restanti versi che non consuonano a coppia baciata, i primi emistichi 4, 5 e 6 rimano internamente (allontanare/diventare/magari), secondo un preciso schema regressivo basato sulla posizione degli accenti: la sillaba tonica è dapprima la quinta («per allontanàre»), poi la quarta («e diventàre»), infine la terza («o magàri»). Questa diagonale fonica centrale (in -are) è, del resto, preannunciata dalla doppia assonanza interna al secondo verso, ancora con la successione delle vocali a ed e («bastasse stare»/«gambe incrociate») che ribatte il primo verso («orientale») e rinvia all’assonanza interna, in enjambement, dei versi 5-6 (sequenza di a e i: rami/magari). Insomma la prima lassa è interamente attraversata dalla trama fonica -ale/-asse/-are, complicata dalla successiva rispondenza -ari/-ami, che anticipa l’iterazione del verso 9 («ami, ma ami»); mentre i due distici in chiusura costituiscono due blocchi prosodici a se stanti. La ripartizione strofica ricalca una suddivisione sintattica e argomentativa. La prima lassa è infatti riservata alle illusioni destinate allo scacco e lo scheletro è costituito da una proposizione oggettiva e da una finale: «(pensavi) che ti bastasse stare», «per allontanare». Nei due distici conclusivi si consumano sia il disincanto («e sei ancora tu») sia la riflessione critica («migliore esperienza?»). L’arco sintattico dei primi sei versi è formato prevalentemente da subordinate, come se dovesse seguire il corso tortuoso dell’abbaglio, mentre le coordinate nei più lucidi distici finali appianano l’andamento del testo e comprendono una proposizione copulativa e un’avversativa. Come nel testo precedente, la distribuzione dei pronomi allestisce un’architettura simmetrica. Il soggetto tu apre il primo verso e chiude l’ottavo, sigillando il momento sorgivo dell’illusione e la seguente fase del disinganno, che avvengono quindi all’interno di un’area testuale chiusa ad anello. La vita cognitiva del protagonista coincide con una porzione precisa di versi chiaramente individuabili; la delusione invece affiora da uno spazio bianco inter-strofico (tra i versi 6 e 7), che visualizza il mutamento di prospettiva. Questa stanza libera comprende quindi i versi 1-8 (prima lassa + primo distico), al centro dei quali resta un distico (vv. 4-5), fasciato da due terzine. Così incastonata, la coppia di versi 4 e 5 funziona come nucleo grafico e tematico: è una subordinata finale collocata al culmine dell’illusione («per allontanare il pensiero di lei / e diventare l’azzurro tra i rami»). Proprio in questa posizione d’acme è stato dunque posizionato anche il pronome lei, bersaglio metaforico dell’intera poesia, equidistante dai due soggetti tu ai vv. 1-8.

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Redazione 2a