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Non pensavo che si potesse fare una lettura 18 anche dei segni di questa terra assonnata.

Non pensavo che si potesse fare una lettura dei segni di questa terra assonnata.

17. Non pensavo che si potesse fare una lettura 18 anche dei segni di questa terra assonnata.

La versione stampata a pagina 15 del Cerchio aperto coincide col testo dell’Ippopotamo, fatta eccezione per il verso 18 che qui si apre con «anche» e in questa forma verrà citato da Turci e Zani su “Il lettore di provincia” (Turci Zani 1989). A quest’altezza il distico finale è ancora composto da due versi liberi che superano decisamente la misura dell’endecasillabo, e solo la variante dell’89 trasformerà il verso 18 in un endecasillabo (benché di quinta) col decimo accento sulla |a| così da rendere visibile l’endecasillabo (sempre col decimo accento in |a|) nascosto nel verso precedente. La posizione di «anche» parrebbe ingiustificato giacché la parola «segni», che pur sarà centrale nelle raccolte successive (Erba 1989, 1995, 1998, 2004, 2006), occorre qui per la prima volta nel Cerchio aperto. È plausibile che la «lettura dei segni» di Albona si colleghi alla «scrittura» tracciata dai rondoni nel testo III (anche l’Istria può essere letto come già gli uccelli in città), ma che sei anni dopo, confluendo nel Tranviere metafisico, finisca invece per costituire il precedente della «cicatrice che mi segna» e del «segno che segna se stesso» in due testi fondamentali, eponomi delle raccolte del 1987 e del 1989 (testi XXXV e XXXVI, ovviamente).

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Commento a Istria

Spia del procedimento costruttivo di Istria potrebbe essere considerata la variante «poveri/umili», aggiunta a margine in penna biro nera nella sola bozza manoscritta pervenutaci. Erba compone in un’unica gittata i primi undici versi, redatti con una stilografica nera, settando tutte le variabili che figureranno nella redazione finale: frasi nominali, figure di suono e soprattutto ripetizioni (pietra-pietra, color delle-color dell’-color delle). L’espansione di questo nucleo procederà quindi verso la dissimulazione dello schema da cui il testo è sgorgato. Il primo verso della redazione 4a («muri a secco») è legato con una rima eccedente al secondo («pazienza di secoli») che a sua volta allittera con il terzo («pietra su pietra»). La catena fonica deve essere risultata troppo esplicita, sicché Erba ipotizza l’inserimento di un aggettivo iniziale, ma la prima opzione, «umili», formerebbe una paronomasia col contiguo «muri», sicché l’attributo sarà scartato a favore del sempre sdrucciolo «poveri» che allittera invece coi versi seguenti (pazienza- pietra) così da rendere l’eufonia meno lampante. Allo stesso modo l’espressione «senza calce», aggiunta sempre nello stesso giro di correzioni in biro nera, occulta parzialmente la rima secco-secoli ma stabilisce una nuova allitterazione della |s| (secco-senza-secoli-su) che affianca la precedente allitterazione in |p| (poveri-pazienza-pietra-pietra). Il verso 3 («pietra su pietra») si trova così a rappresentare perfettamente le istanze su cui si gioca tutto il testo: è un verso nominale di tre parole le cui singole iniziali sono appunto |s| o |p|. Promosso a verso incipitario nella redazione a stampa 4b, il verso «pietra su pietra» si impone adesso come chiave d’accesso al componimento e, subito, dispiega davanti agli occhi del lettore l’intero novero delle caratteristiche di Istria: frasi nominali, figure di suono, raddoppiamenti.

La sequenza dei primi tre versi nella redazione 4b è organizzata secondo uno zoom inverso, per cui Giovanna Vizzari, in una selva di refusi, ha parlato di «un’ingrandimento [sic!] –nel termine fotografico– dellei mmagini [sic!]» (Vizzari 1985, 148), che focalizza prima il dettaglio (la singola pietra), quindi l’insieme (il muro) e infine il contesto (la «pazienza» dei costruttori attraverso i «secoli»). Punto focale dell’intero paesaggio istriano, la pietra è la componente costruttiva primaria anche nell’architettura vernacolare istriana sicché il verso «pietra su pietra» incarna tutte le variabili costruttive primarie nello schema prosodico della poesia. A conferma dell’aderenza fra l’architettura istriana e l’architettura di Istria, risulterà forse curioso citare almeno il titolo di un contributo scientifico sulle costruzioni murarie istriane che recita, appunto, Pietra su pietra. L’architettura tradizionale in Istria (Starec 2012) e si concentra proprio sulle «tipologie insediative […] in pietra, sovente non squadrata e a vista, coperte in genere da tegole o da lastre calcaree […] nelle campagne della Liburnia e nell’Albonese» (Cingui 2013, 343). Ma la parentela fra la costruzione muraria e la costruzione letteraria, mediante la pietra, si inserisce anche perfettamente nella ricerca delle qualità «petros[e]» del dettato montaliano su cui Erba afferma di essersi formato (Vizzari 1985, 149). La molecola dei muri di Albona (disporre una pietra sull’altra) è altresì la molecola delle strategie retoriche di Istria (disporre coppie di elementi consimili accanto a figure di suono), «senza calce»

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nel primo caso e senza congiunzioni nel secondo caso, così da favorire una «poesia così poco appariscente, tutta concentrata negli spazi intermolecolari che il maglio pesante della ragione di continuo scava tra gli oggetti nell’estenuante procedimento di polverizzazione di essi» (Pappalardo La Rosa 1997, 108). E sarà infatti ritenuto necessario un terzo intervento sulla carta 4a, stavolta in penna biro blu, in cui la valutazione razionale scaturisce spontaneamente dalla «lettura» intermolecolare di Albona, scoprendo la possibilità di effettuare l’inattesa decodificazione «di questa terra».

È singolare che anche Alberto Bevilacqua (1984, 14) abbia parlato di una «spaccatura molecolare» peculiare del Cerchio aperto, ipotesi che trova conferma dalla ricognizione sugli avantesti che testimoniano la tendenza di Erba a procedere per successive scomposizioni: nel testo VIII.14 lo spettro dei colori è suddiviso in «di verde di polenta e di nero», nel testo XVI.11, il condominio viene ridotto agli addendi «libri stoviglie inquilini» e nella redazione 27a.8 la tavola apparecchiata sarà scissa in «garofani posate tante mani». La scissione in unità minime accorda la possibilità di leggere il paesaggio, come era emerso nel testo III, e viene adesso formulata in una sorta di galateo della micro-visione: per ricevere i «segni di questa terra» è necessario un tempo di attesa minuziosa. Non a caso la parola «attesa» è stata rimossa dal verso 21 della redazione 4a: deve essere infatti il testo stesso, nella sua conformazione retorica, a stimolare la sospensione e l’indugio affinché la rivelazione dei segni prenda corpo. Erba riesce a rappresentare il momento di sospensione sia sul piano figurativo (il secchio issato a metà nella tromba del pozzo) sia sul piano grafico (i puntini di sospensione in corrispondenza del verso 16) e tenta di indugiare egli stesso selezionando e fissando precise scelte lessicali («pazienza», «le mani in mano») ma, soprattutto, soffermandosi sulle quisquilie che, come si è visto, Pappalardo La Rosa ha felicemente definito «intermolecolari».

La possibilità di leggere i segni appare quindi strettamente correlata alla capacità di lasciare il campo al visibile, di sottrarsi e posizionarsi fuori dall’area dove si verificano i microscopici stimoli visivi, di porre le proprie considerazioni a margine, come il distico finale tracciato in biro blu dopo i puntini di sospensione. Leggere, come «[s]crivere, infatti, è stare sulla soglia […], per sentirne oltre il confine il riflesso, l’immagine riflessa – e un mondo che ne emerga per segnali» (Limone 2006, 2).

Lasciare spazio alle cose perché si manifestino significa sì sottrarsi (e infatti «erba» è l’unica parola dell’elenco a sparire dal verso 21 insieme con «attesa»), ma sottrarsi dal campo d’azione delle cose per situarsi nel miglior punto di osservazione possibile e affinare lo sguardo (A scuola di sguardo è uno dei titoli in Erba 1995). Porsi insomma sulla «soglia» tra scrittura e lettura, come ipotizza Limone, corrisponde all’atteggiamento della «gente […] sulla porta di casa» ai versi 10-11 di Istria, immagine dello sforzo di relazionarsi nel modo più recettivo possibile con il mondo. Lo sforzo viene talora premiato da intercettamenti di «pura evidenza visiva, quasi da decalcomania delle immagini» che Erba seleziona e acquisisce con «un’attitudine da collezionista svagato di realia» (Mengaldo 1978, 901-3) o studiando «gli oggetti e gli aspetti del reale» per poi «infilzarli a uno a uno come farfalle» (Pappalardo La Rosa 1997,

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106). Ecco dunque spiegate le zoomate intermolecolari di Istria: sono indagini penetranti sulla superficie delle cose (lo specchio d’acqua, il pozzo, il muro a secco) volte ad acquisirne le cellule più elementari (i cerchi sul pelo dell’acqua, il secchio sospeso a metà, le pietre senza calce) per ricomporle in una collezione.

Il «contatto carnale con le cose», peculiare del Cerchio aperto come in molta della produzione erbiana (Vizzari 1985, 149-50), si traduce in un contatto sensuale con le parole, selezionate al fine di generare un «andamento melico, raffinato per sua natura, non teso a suggestioni sonore ma a frutti che contengano i loro motivi senza rivelarli apertamente» (ivi, 148), come è stato notato nel montaggio della rima e delle allitterazioni nei primi tre versi di Istria, e nell’«intrecciare l’immagine preziosa e quella più comune e quotidiana, [nel] realizzare un dettato di forte ricchezza musicale e ritmica (oltreché immaginativa) spesso attraverso parole consumate e consuete, lontane da qualsiasi eloquenza o retorica della lirica» (Guagnini 1986, 66). Sulla concertazione delle allitterazioni ci si è già soffermati, sicché sarà il caso di illustrare adesso un caso specifico in cui parole «consumate», accanto ad altre meno «consuete», producano una ricorrenza ritmica dissimulata. L’esempio più nitido è forse il distico 7-8, in cui due endecasillabi regolari sono schierati uno di seguito all’altro: il primo, sdrucciolo, termina con la parola “mantide” cui fanno eco due parole sdrucciole inserite, però, nel corpo del verso seguente anziché essere apertamente esibite in posizione di rima. Si viene così a creare una sequenza di accenti proparossitoni che preparano la prima apparizione del sostantivo eponimo della raccolta “cerchio”, per giunta in una struttura circolare poiché ai «perfettissimi cerchi» che si allargano attorno alla mantide, corrispondono due perfetti endecasillabi che aprono e chiudono l’immagine, allargandosi in tredici sillabe proprio all’altezza del nome dell’insetto. La profonda elaborazione del distico è, del resto, confermata dalla fitta concentrazione di interventi in quest’area del testo (rimozione del verso 6 nella redazione 4a, sostituito da tre nuovi versi che subiranno tagli e semplificazioni prima di approdare alla stesura definitiva) a garanzia del fatto che

Erba [sia uno] scrittore selettivo, elegante, raffinato, talvolta “sofisticato”: il suo libro di versi nasce da un processo di condensazione e distillazione rigoroso e sorvegliato. Non è però un raffinato costruttore di sole immagini o un elaborato costruttore di parole o segmenti verbali rilevanti solo formalmente; non è neppure uno dei tanti lirici che, alla fine del proprio lavoro di selezione, raccolgono nella rete del volume i frammenti rimasti. Il suo percorso di condensazione e di selezione non è tale da far rinunciare al bisogno di conservare un discorso, una linea quasi di racconto.

(ivi, 62)

È l’aggiunta dei versi 12-17 in biro nera, nella redazione 4a, a sviluppare un accenno diegetico che confluirà nei versi 9-16 del testo stampato, recependo gli stimoli affinati nella prima fase compositiva: frasi nominali (v. 11), figure di suono (allitterazione in |g| giornata-gente-gatto-gioca e in |s+t| sta- seduta), parole sdrucciole («polvere» in paronomasia con i «poveri» muri del secondo verso), immagine del cerchio d’acqua (secchio nel pozzo).

Anche in questo secondo blocco di versi, la visione intermolecolare scinde il dettaglio delle «mani in mano» dall’insieme della «gente» e mette a fuoco la «polvere» delle «strade di Albona». Con un bizzarro grecismo, Giovanna Vizzari (1985, 149) cita questo procedimento così tipico di Istria fra le «formule che

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concretizzano per synekdoche figure astratte (“un gatto gioca col topo / nella polvere delle strade di Albona”)». La formula mi sembra tutt’altro che incentrata sulla sineddoche giacché i dettagli zoomati non sostituiscono ma integrano l’adesione visiva alle singole presenze che compaiono nella poesia, come per altro nota sempre Vizzari poco prima: «Erba» procede «senza tradire né offendere il paesaggio delle sue tracciate orme, semmai aggirandolo con un amore cromatico […] in segni di acceso nitore» (ibidem). Lo zoom non procede per sineddoche, documenta semmai l’«atten[zione] a non perdere mai i rapporti tra i vari elementi» compresenti «in una stessa poesia […]. Questa attenzione si verifica in tutta l’opera [e] tuttavia Erba si pone spesso in snodamenti imprevedibili, in passaggi analogici non immediatamente decifrabili, in sconvolgimenti dell’ordine espositivo, in qualche caso anche sintattico», come in Istria, alternando periodi nominali all’ipotassi (Turci Zani 1989, 38).

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