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tra i tetti della città ricominciata.

Il Pubblico e il Privato

27. tra i tetti della città ricominciata.

Dattiloscritto, inchiostro nero, corretto dapprima in lapis e un’ultima volta in penna stilografica nera con la quale sono aggiunti i versi finali (23-27). Ritaglio di foglio 21,5 x 17, 2 cm.

4. «sotto i ponti»] «sui ponti? sui passanti» 5. «un volo»] «il volo»

6. «dei tempi passati»] «dei vecchi aviatori su un biplano / del b. di un. v. a.» 11. «per far»] «e far»

12. «pianta»] «erba» 17. «vessilli»] «bandiere»

19. «chiude il mercato»] «chiudono i mercati» 20. «tornano donne»] «tornano amanti»

21. «sanguina»] «si mette a», poi «scende», infine l’intero verso è cassato in stilografica nera 22. cassato e poi evidentemente ripreso e modificato al v. 27

26. «giri»] «ruoti»

Prima versione in cui compare il titolo definitivo, l’ultima redazione conservata prima della stampa presenta ancora una certa mobilità relativa ai versi finali, redatti in penna a chiusura del dattiloscritto. Un’esigenza di equilibrio della parti sembra aver imposto l’inserzione di una parentesi al verso 23 (come al verso 13), che introduce un nuovo corpo dopo i versi 21-22, tagliati fuori e poi riassemblati (26-27). Il procedimento è lo stesso che era intercorso fra la redazione 6a e 6b: nuovi gruppi di versi intervengono a separare versi precedentemente contigui, mentre lettere puntate e abbreviazioni appaiono in corrispondenza delle zone più tormentate dalle correzioni.

Una nuova serie di revisioni riguarda adesso il verso 4, che era rimasto stabile finora: il senhal «erba selvatica» viene duplicato dalla sostituzione al verso 12 (pianta>erba), operazione intertestuale ritenuta forse troppo scoperta (l’impossibilità di adesione relativa all’«erba» era già stata paventata nel testo II) per quel gusto del riserbo che caratterizza la produzione di Luciano Erba, sicché al verso 4 apparirà invece un «prato» (erba>prato) nella versione a stampa. Nondimeno, a conferma della patina autoreferenziale che caratterizza regolarmente le occorrenze di prato/erba, converrà notare che il «prato più ingiallito» riecheggia apertamente Il prato più verde (Erba 1977) invertendolo di segno.

La rimozione delle espressioni troppo letterarie investe i «vessilli» (>bandiere), il tramonto che non

«sanguina» più (>scende) e il nostalgico «vecchio aviatore» che, nella versione a stampa, sarà solo uno dei «primi aviatori».

L’alternanza al verso 20 (donne/amanti) riflette un’incertezza che torna in tutte le redazioni e che riguarda, plausibilmente, la sfumatura erotico-sentimentale della scena in cui le donne/amanti rincasano dai loro uomini (verso 25). Anche in questo caso, però, la redazione definitiva del testo VI opterà per la dismissione dei cenni più allusivi, scegliendo la voce più neutra (donne) ed elidendo il riferimento agli uomini che aspettano a casa.

Spicca infine la volontà di mantenere una chiusura senza endecasillabi, giacché il verso 25 della redazione 6b («sanguina il disco solare») si espande adesso nel più complesso verso 26 («sembra che giri tutto il d.s.», riscrittura del verso 20) e potrebbe facilmente evolversi in un endecasillabo di quinta (soluzione tutt’altro che rara per Erba), come «mi sembra che ruoti il disco solare», ma approderà invece alla stesura finale «mi sembra ruoti il disco solare» di dieci sillabe.

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Commento a Il pubblico e il privato

Il testo è incluso, insieme con Studia la matematica! e Abito a trenta metri dal suolo, nel novero dei tre inviati a Giovanni Bonalumi (1983, 91) sull’“Almanacco di Bellinzona”. I componimenti sono accomunati da una rivalutazione in versi del ruolo della casa nell’immaginario poetico (ballatoi, casone, terrazzo, villetta…) in base alle strategie d’arredo (libri, stoviglie, tavolini, fermacarte…). Il pubblico e il privato sonda evidentemente le interferenze tra spazio comunitario e spazio domestico mediante l’uso precipuo di parallelismi. Il merlo e il vento, ai versi 1-3, avviano infatti un processo di caccia alle fittissime rispondenze su cui è montato l’intero arco: l’assonanza tra i due sostantivi risulta non solo sottolineata dall’anafora di «è entrato» ma si rifrange nella ripetizione dei lemmi «blu» e «città» a diverse altezze e in posizione di rima, nonché nella collocazione di due diversi blocchi (di tre versi ciascuno) chiusi fra parentesi tonde, o ancora nella figura etimologica verde-verdure (vv. 10 e 19 con «verdure» in posizione di rima) e infine nelle due scene in cui la folata di vento attraversa la città dell’esposizione universale (la Fiera a Milano Ovest, plausibilmente). Una simile rete di rispondenze interne dà la misura di un componimento estremamente compatto in cui -al contrario di quanto avveniva nel testo IV- il paesaggio osservato non viene scomposto in elementi più semplici e quasi atomizzato in particelle omogenee (come erano, in quel caso, le geminazioni di «pietre», «color» e «mano»), ma ricomposto in un insieme dotato di unità, attraverso un’operazione di esplicito rimontaggio al quale concorrono entità diverse. Gli uomini sulle spallette della sopraelevata lavorano per aumentare la qualità della vita pubblica (con il verde urbano) come le donne dietro le ringhiere dei ballatoi sgusciano piselli; i cassoni di cemento sono deputati alla cura dei fiori così come le pentole smaltate fungono da vasi per le piante violacee e la Fiera internazionale (oggi Fiera Milano City) espande su macroscala il ruolo del mercato rionale dal quale tornano le comparse femminili dopo aver fatto la spesa.

Il merlo che entra in casa e il vento che entra in città sono i vettori di un’azione combinata che investe spazi pubblici e privati a vari livelli. Ancora una volta, però, vorrei focalizzare l’abilità di Erba nel comporre i versi tautologici in cui organizza i propri segni (lessico, temi, personaggi) nello stesso modo in cui monta la struttura del testo (scelte prosodiche, metriche e retoriche). Gli «uomini in blu» appaiono al centro del verso, sottolineati dal doppio iato e dalla rima a distanza col terzultimo verso, come l’«erba selvatica» compare al centro del dodicesimo verso, rimarcata dal senhal e dalla rima eccedente con «mercati» (verso 19). Gli operai che tentano di rendere più abitabile la città con l’inserimento del verde urbano si comportano, insomma, come Erba che tenta di abitare il testo con l’inserimento del proprio nome mascherato, similmente a quanto era già avvenuto nella poesia Nel bosco, dove –del resto– l’io poetante cercava di vestirsi di blu proprio come sono vestiti gli addetti all’arredo stradale («e diventare l’azzurro tra i rami», verso 5 del testo II).

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I «cassoni di cemento» del verso 9 non ricordano solo il «casone di periferia», in lampante paronomasia, nel testo XVI (che, come si è visto, appare in qualità di inedito nell’“Almanacco di Bellinzona” accanto a Il pubblico e il privato), ma anche una certa scultura espressamente minimalista come il Cube without a cube di LeWitt, opera concepita negli stessi anni (1984) e oggi parte del Parco Zellweger di Uster, in Svizzera, o, per restare in ambito nazionale, i rilievi in cemento armato di Giuseppe Uncini, che pur risalgono agli anni Ottanta (Corà 2010).

La costruzione di parallelepipedi in cemento in ambito metropolitano sembra quasi caratterizzare, nel testo VI, la fine del secolo scorso nel tentativo di circoscrivere, nel continuum dello spazio pubblico, un recinto (parco o aiuola) dove la vita possa radicarsi e dimorare. È lo stesso Erba (1993s, 22) ad «avvert[ire] che all’interno di uno spazio circoscritto, quale può appunto essere una casa abitata, il tempo risulta in qualche modo rallentato, quanto meno di segno diverso» così da permettere al cittadino di «lasciare il continuum dello spazio esteriore: città, quartiere, vie» e «scampare alla (passata) minaccia di proletarizzazione». Riguardo a tale minaccia, è inevitabile supporre che il «sindaco sociale» cui si fa menzione al verso 14 adombri la lunga lista di sindaci socialisti che hanno amministrato Milano dal 1951 al 1993 (e forse Tognoli, in carica negli anni in cui usciva Il cerchio aperto). Il vento che irrompe in città rianima, quindi, l’abitato in cui la dimensione pubblica e quella privata appaiono «minaccia[te]» dal fallimento delle opere edilizie condotte dall’amministrazione comunale. Ma il merlo che entra col vento ha tutto l’aspetto di un appello, di un segnale che eccede lo scenario metropolitano e sfonda un tèmenos personale. Come già notava Aymone (1984, 176) relativamente alle poesie del Nastro di Moebius, l’uccello potrebbe essere una di quelle «epifanie del volatile archetipic[he] nel repertorio dei simboli» montaliani, che Erba accoglie ma «risolve anesteticamente», poiché «Erba ha la qualità di non riuscire mai tragico o rovelloso. Le smanie e le febbri che egli pure confessa si profilano calcolate sul tono di un distaccato registro denotativo. Nessuna chiosa vi si appone». Se per Montale, infatti, «il male di vivere è la maschera

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esistenziale e snobistica a cui aderire fino in fondo,» in Erba «il male di vivere si risolve in vivere senza male, assorbito ogni moto di sgomento o di recriminazione e dominato nell’ottica di un vistoso decorso patologico, ma come del tutto asintomatico» (ibidem). Erba insomma non si esibisce mai fino in fondo, si limita a «esteriorizza[re] i fenomeni», a renderli pubblici solo quando non rechino quasi più traccia del vissuto privato che, anzi, «prosciuga fino a farl[o] risaltare in un determinismo altamente funzionale; funzionale nel senso di un’antieloquenza che ne mira e ne registra soltanto il deflusso» (ibidem). Il “pubblico” non sarebbe altro che la fuga e la scomparsa del “privato”, la sua evaporazione; Erba concepisce solo la possibilità di esibirsi apertamente quando sia perfettamente in grado di controllarsi.

Il titolo del testo VI celerebbe, dietro la congiunzione coordinata «e», la possibile lettura alternativa il pubblico è il privato, a patto che vi si legga: il pubblico è solo il fossile scintillante e levigato di un vissuto privato ormai trascorso, tenuto a bada e domato. La città, la casa e le cose non sono che l’involucro di gesso dove la vita fatica a mettere radici («neppure un’erba selvatica / ha voglia di attecchire e di fiorire», vv. 12-13), così come il poeta fatica ad abitare il proprio testo in prima persona o a decifrare i segni dell’assenza (la memoria nel testo I, la distrazione nel testo II, la lettera d’addio nel testo III, i segnali e il simbolo dei testi IV e V).

Il pericolo di «spersonalizzazione» di cui scrive Erba (1993s) investe tanto la città quanto la letteratura, considerando che, per parlare dell’intimità (delle cose, degli spazi, delle persone), il poeta riesce solo a parlare della superficie esterna, «tende cioè a caricare gli oggetti (attraverso la loro fitta nominazione) di quelle valenze che l’io, detronizzato creatore della realtà, sa di non possedere più, non possedendo ormai l’autorità per asserire una qualsiasi verità» (Pappalardo La Rosa 1997, 101).

Il merlo, che penetra nel recinto domestico, apre uno squarcio nell’io depotenziato e costretto all’anonimato; varcando la finestra di casa, l’uccello probabilmente sconquassa l’interno casalingo come il vento fa coi pennoni della Fiera, ma viene tuttavia relegato al primo verso e gli effetti del suo ingresso sono subito messi a tacere, soffocati e inespressi, come se non ci fosse spazio per il disordine nell’immaginario erbiano. Ancora Aymone (1984, 177) sottolinea che l’«uccello che avanza» in uno dei primissimi testi di Erba, Pioverà (Erba 1980), volava già «parallelo alla terra» come il merlo del testo VI è parallelo al vento, poiché «costituisce [un] simbolo centrale»: rappresenta «una figura anonima», sì, e tuttavia «coerente col senso di svagata osservazione del circostante» così tipica dell’io poetante, tanto da poter «significare» forse «una figurazione interiore del poeta medesimo, scarsamente motivato a definirsi, classificarsi» come soggetto pieno e attivo (Aymone 1984, 177). Se nella redazione 6c l’«erba» del verso 12 veniva replicata al verso 4, per una sorta di radicale riserbo dell’autore apparirà poi una sola volta relegata fra parentesi nel testo definitivo. È facile intuire perché sia questa l’occorrenza del senhal che Erba salva a discapito della prima. Le quattro parentesi tonde sono l’espediente grafico con cui il testo stesso riproduce sullo specchio della pagina le due cavità (cassoni e pentole) in cui i personaggi cercano di insediare il verde urbano: gli «uomini in blu» tentano di dare asilo a «qualche fiore» negli invasi in cemento,

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le «donne» hanno «piante color delle viole / fiorite in pentole smaltate di blu» ed Erba stesso tenta di inserire l’«erba» nella cavità della parentesi.

Le piante appaiono in quegli spazi di transizione tipicamente erbiani che il poeta registra come «spazi intermedi» (Erba 1998): sopraelevate e soprattutto ballatoi delle case di ringhiera o dei nuovi condomini, dove il verde è «un elemento ricorrente» (Sparke 2017, 194), come «in gran parte degli ingressi milanesi»; un elemento indispensabile «per dare un tocco di [vita] a quelli che di per sé sono spazi geometrici aspri», come i cassoni di cemento: «ambienti minimalisticamente funzionali, [s]pesso conten[enti] fioriere costruite nel tessuto architettonico. Oltre a rivestire [un’]ampia varietà di ruoli spaziali», infatti, «le piante svolgono un ruolo altamente simbolico [negli] interni» poiché, nella «transizione dall’esterno all’interno, dalla strada pubblica all’abitazione privata», rendono «sfumato il confine» e «aggiungono un tono di familiarità, […] garantiscono una presenza conservatrice, rassicurante, che è di conforto ai residenti costretti ad affrontare le sfide del mondo moderno» (ibidem). In quello che Erba chiama continuum città-quartiere-strada, cioè in un «contesto di recente urbanizzazione e industrializzazione, le piante da interni hanno assunto più d’un significato», spiega Sparke (ibidem) in un recente saggio apparso nel catalogo fotografico Entryways of Milan.

«Oltre a mantenere la presenza della campagna in città», quella campagna lombarda così irrinunciabile nella poesia di Erba, «rafforzano l’importante natura domestica degli spazi» e «andranno ad articolare i modi in cui essi saranno negoziati fisicamente ed emozionalmente» (ivi, 195). Parimenti Erba negozia retoricamente ed emozionalmente i modi in cui il soggetto e il destinatario del discorso poetico possano acquisire un ruolo altro, congruente con lo scetticismo e la sfiducia nei confronti di una personalizzazione troppo esibita del testo. La città in cui pubblico e privato sfumano è già una città altra che preconizza il testo XXVIII e l’approdo all’ultima sezione, L’altrove, «spalancato nella calce del reale» ma pur sempre «lontano, irraggiungibile paese: perduto o cancellato […] dentro un grigio quasi grigio» o quasi blu come le pentole e le tute degli operai (Pappalardo La Rosa 1997, 124). Quegli «uomini in blu» del verso 8 vestono infatti emblematicamente un colore freddo giacché, nelle poesie di Erba, «in larga dimensione l’abbigliamento è chiamato a connotare il motivo dell’integrazione sociale» (Aymone 1984, 193) e soprattutto le sfumature «dell’azzurro (cui sarebbero da aggiungere ancora il blu, il blu notte) [sono] in Erba un colore ironico, dell’immaginario, dell’irraggiungibile» (Pacchiano 1972, 393).

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VII. Congedo

Tenerissimo yeti te ne andrai dunque in una casa di pietra serena

nascosta sopra il lago tra gli abeti. So che mi mancherai quando più vuoti volgono i cieli ma non torna stagione e nel piombo dell’aria anche è un silenzio il tuo lungo fruscío sui tappeti.

Poi piove piove e sotto la grondaia l’acqua scende a formare un rivoletto che corre via sulle lastre di ardesia. Passa una ragazzina col fazzoletto viola annodato al collo, vai d’accordo col suono dei suoi zoccoli olandesi.

Il cerchio aperto, 1983, p. 23

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Nota prosodica

Dotato di uno schema metrica particolarmente semplice, Congedo è inoltre da annoverarsi tra i testi che abbiano ricevuto il minor numero di interventi e, tra i pochi apportati, nessuno di riscrittura integrale di versi e neppure singoli cola. Già i due dattiloscritti che costituiscono gli unici avantesti conservatisi presentano una struttura metrica estremamente lineare basata su una serie di endecasillabi regolari variamente rimati e intercalati da un numero esiguo di metri irregolari che punteggiano la strofa unica evidenziandone gli snodi.

Il primo verso è un endecasillabo dissimulato, secondo un uso invalso, dall’aggiunta di una parola che eccede la misura del verso: si tratta di un nesso conclusivo («dunque») che dota l’attacco di una patina colloquiale volta a mascherare, come puntualmente accade, una costruzione prosodica che parrebbe altrimenti troppo studiata. La dissimulazione viene però contrastata dalla rima ricercatissima con il verso 8 (andrai-grondaia), che eccede di una lettera (-a) quasi riecheggiando l’eccedenza del «dunque» al primo verso. Lo stesso tipo di rima, difficile e quasi camuffata, lega i versi 10 e 13 (ardesia-olandesi), e viene sostituita da una consonanza ai versi 2 e 6 (serena-silenzio) e ai versi 12 e 13 (accordo-zoccoli). Ma la più spiccata caratteristica del testo VII è la sua facilità, sicché la nota più evidente sono le rime/assonanze esplicite nei versi dispari yeti-abeti-cieli-tappeti (vv. 1-5-3-7), rivoletto- fazzoletto (vv. 9-11), abeti-vuoti (vv. 3-4).

In linea con questa esplicita facilità, i primi quattro versi sono tutti endecasillabi piani di cui, come si è detto, il primo, in cima all’intero componimento, risulta nascosto dall’avverbio così come la casa nominata al verso 3 è «nascosta» in cima al lago dagli alberi.

Il primo metro a differire è il dodecasillabo al verso 5: il conto delle sillabe non torna come «non torna stagione», sicché a incrinare la superficie del testo è proprio la constatazione che incrina anche il moto di rimpianto, appena appena accennato, che innerva il testo: l’impossibilità di tornare, ovvero la necessità di procedere verso una nuova stagione e verso una nuova casa. In questo senso il testo si salda perfettamente con i due precedenti (Il pubblico e il privato nonché Casa nuova, appunto), portando al centro della riflessione su cosa significhi abitare uno spazio o abitare un testo. Anche sul piano lessicale, l’alone cromatico sottolineato in enjambement («fazzoletto / viola») chiude i versi di Congedo come già si erano chiusi i versi del testo VI («piante color delle viole»).

Il verso 7 sfrutta invece un effetto virtuosistico nell’imporre lo iato sulla parola «fruscìo», le cui vocali finali debbono quindi allungarsi in fase di recitazione, così come il

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fruscio stesso diventa «lungo sui tappeti», per raggiungere la misura dell’endecasillabo su cui si assestano anche i versi 8, 9 e 19. Al verso 11, il dodecasillabo sarebbe stato facilmente emendabile (ragazzina> ragazza) in modo da costruire un endecasillabo piano in linea coi seguenti versi 12 e 13, ma la persistenza del diminutivo «ragazzina» in tutte le stesure (per giunta mai corretto né ripensato) dimostra in tutta evidenza la volontà di rappresentare prosodicamente l’apparizione improvvisa della passante con una misura di verso inattesa.

A interrompere la regolarità metrica sono quindi i vettori di movimento: il volgere dei cieli che non tornano indietro (verso 5) e il passaggio della giovane col fazzoletto al collo (verso 11) lasciano una scia sulla pagina, marcata da una sillaba in eccesso, mentre il tentativo di trattenere almeno la memoria del gatto motiva la necessità dello iato che induca a indugiare sulla parola fruscio (verso 7), cioè l’ultima impressione sensibile del «tenerissimo yeti» prima del definitivo trasloco.

L’opposizione moto/stasi, transito/memoria non si materializza solo nel fruscio (in movimento) sul tappeto (immobile), ma anche nella coppia di rime ai versi 9, 10, 11 e 13: gli enti mobili rimano tra loro (l’acqua scorre in un «rivoletto», la ragazza passa «col fazzoletto») e restano impressi su elementi che, rimando a loro volta, fanno eco all’andirivieni (l’acqua schiocca sulle «lastre d’ardesia», il fruscio del gatto viene riecheggiato dagli «zoccoli olandesi»).

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Redazione 7a

1. Tenerissimo yeti te ne andrai dunque