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CAPITOLO II ADATTAMENTO PSICO-SOCIALE NELL’ESPERIENZA

1. Acculturazione e benessere psico-sociale dei bambini immigrati di prima e seconda

1.1. Benessere psicologico e autostima nei bambini immigrati

La composizione multietnica della realtà statunitense e le relative problematiche connesse, hanno da sempre interessato i ricercatori e la condizione psico-sociale dei bambini immigrati è stata approfonditamente studiata in contesti scolastici di segregazione e non segregazione razziale. Molti sono gli studi che collegano il benessere psicologico alla formazione dell’identità individuale ed etnica, ed in ultima

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analisi al loro benessere come base per lo sviluppo di comportamenti prosociali interetnici.

La situazione di autostima, di fiducia nelle proprie possibilità, di accettazione delle sfide comuni ai compagni italiani e specifiche della propria storia di migrazione,si traduce, tra le altre difficoltà, nella capacità di prefigurare il proprio futuro e di progettarlo, facendo fronte ai vissuti diffusi di provvisorietà e di non appartenenza. I bambini rifugiati e immigrati sembrano essere esposti a molti fattori di rischio per lo sviluppo di problematiche emotive e comportamentali. Questi bambini costituiscono una significativa porzione della popolazione scolastica londinese e di altre città di rilievo del Regno Unito. Comunque, i dati relativi a tale aspetto sono ancora pochi. Leavey et al. (2004) si sono proposti di esaminare la prevalenza di problematiche psicologiche tra i bambini rifugiati o immigrati in età scolare, in comparazione con i loro pari nativi inglesi.

È stato seguito il metodo dello strenghts and difficulties Questionnaire (SDQ), in associazione con le variabili socio-demografiche, inclusa la preferenza di linguaggio. Quasi un quarto dei bambini in età scolare possono essere descritti come necessitanti un intervento psicologico, con una significativa prevalenza di manifestazione del disagio da parte dei bambini rifugiati o immigrati. Il linguaggio sembra offrirsi come una variabile importante in associazione al disagio.

Del resto, la Favaro (2002), studiando l’acquisizione delle competenze linguistiche nella lingua del paese ospitante, ha rilevato la forza del legame tra l’apprendimento, l’adattamento e il benessere psicologico del bambino, in termini di autostima e individualizzazione. Nei confronti delle lingue d’origine e delle diverse forme di bilinguismo dei bambini e dei ragazzi stranieri continua ad essere diffuso nella scuola il non riconoscimento delle competenze acquisite in L1 e la considerazione dell’alunno non italofono come “vuoto”, una tabula rasa da riempire con la nuova lingua. Anzi, in alcuni casi , gli insegnanti , pensando di favorire l’apprendimento dell’italiano, deplorano la comunicazione famigliare in L1, fino a consigliare ai genitori (spesso poco italofoni) di parlare solo italiano con i loro figli. Ancora una volta gli elementi di criticità che rendono più faticoso il cammino dell’integrazione hanno a che fare con la necessità della formazione degli operatori e della diffusione di consapevolezze psico-pedagogiche (linguistiche, didattiche) tra coloro che operano in scuole multiculturali e plurilingue. Anche a causa di questa sorta di silenzio sulla storia precedente e di negazione dei saperi pregressi possono originarsi nei bambini immigrati vissuti di auto-svalutazione e di vergogna, la perdita della motivazione all’apprendimento, incertezze nell’autostima. Uno dei compiti aggiuntivi che viene richiesto ai bambini che hanno vissuto una storia di migrazione , consiste nella necessità di ricomporre la propria storia , di costruire l’identità personale saldando insieme le origini e il passato e i progetti futuri. L’integrazione, come integrità della persona , si propone proprio di sostenere questo processo di ricomposizione della propria vicenda e dei riferimenti, accogliendo negli spazi di tutti, senza negare la storia di ciascuno.

Occorre non dimenticare che i bambini immigrati (sia di prima che di seconda generazione) si trovano a dover fare i conti con due culture e due diversi gradi di

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appartenenza (originaria e “adottiva” se l’integrazione va a buon fine). Questo vuol dire che essi si trovano al centro di processi comunicativi paradossali: nulla è più deleterio di non sapere da quale parte stare. L’autostima personale ne viene continuamente indebolita e sarà inevitabile, ad un certo punto, dal momento che la stima di sé è la precondizione per diventare sufficientemente adulti, che il bambino manifesti dei comportamenti regressivi o aggressivi (Demetrio, 1997 b).

Un recente studio di Capps et al. (2005) ha rilevato in merito dei temi chiave che caratterizzano i bambini immigrati al di sotto dei 6 anni: tale indagine si offre come un punto di partenza irrinunciabile per affrontare l’argomento.

Innanzitutto i bambini figli degli immigrati costituiscono spesso una vasta proporzione della popolazione infantile. Mentre gli immigrati costituiscono l’11% della popolazione degli Stati Uniti, i loro bambini raggiungono il 22% sul totale della popolazione infantile (al di sotto dei 6 anni), che scende al 20% nella fascia di età tra i 6 e i 17 anni.

Molti dei bambini vivono in famiglie in cui i componenti sono in parte cittadini americani, in parte non americani e questo influisce negativamente sull’accesso ai servizi pubblici anche a dispetto della cittadinanza acquisita dai bambini stessi.

Molti sono pure i bambini immigrati che vivono in famiglie con un basso reddito, un basso livello di educazione e una limitata conoscenza dell’inglese, con uno scarso grado di comunicazione in famiglia. Tutti questi fattori sono generalmente associati ad uno scarso rendimento scolastico.

Inoltre, i bambini immigrati vengono più spesso affidati alle cure genitoriali e parentali che a centri esterni (asili infantili e simili) che generalmente sostengono i bambini nello sviluppo delle capacità relazionali durante il passaggio dall’ambito familiare ristretto a quello esterno e istituzionale quale appunto scolastico.

Per esaminare lo stato di salute mentale dei bambini i cui genitori erano stranieri e per determinare se questi giovani hanno un bisogno speciale di servizi per la salute mentale, Touliatos et al. (2006 a) hanno confrontato l’incidenza dei disturbi comportamentali in 291 bambini che erano nati da genitori del paese ospitante e bianchi, con 97 bambini, figli di genitori immigrati. Le informazioni generali e le valutazioni su di una lista di problemi comportamentali sono state fornite dagli insegnanti. Basandosi sull’analisi di una procedura di varianza, i risultati hanno rivelato che i soggetti figli di cinesi, giapponesi o del sud-est asiatico presentavano significativamente molti meno problematiche di disordine mentale, come i problemi di condotta o una immaturità, rispetto ai bambini figli di genitori originari del paese ospitante.

Bautista et al. (2005) hanno studiato la correlazione tra l’identità etnica, l’autostima e i malesseri psicologici tra gli adolescenti immigrati messicani in 62 high school americane. L’ipotesi di partenza prevedeva che i soggetti con un’identità biculturale e una elevata capacità relazionale interraziale potessero mostrare un maggior grado di autostima e benessere psicologico rispetto ai propri coetanei americani e messicani non integrati. I risultati hanno confermato tale ipotesi. Se si considera che quanto osservato possa essere il frutto di un percorso iniziato anche nelle fasce di età precedenti, è possibile allargare tali considerazioni anche alle fasce di età più basse.

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Nel suo studio su un campione di bambini cinesi emigrati negli Stati Uniti, Betty Sung (1985) ha rilevato l’esistenza di un vero e proprio conflitto culturale tra valori, costumi e tradizioni della nazione di origine con quelli della nazione ospitante.

A scuola, ad esempio, i bambini vivono una profonda confusione, perché esiste una forte differenza tra ciò che viene loro insegnato in famiglia e ciò che viene proposto come modello comportamentale “di successo” dai coetanei statunitensi in ambito scolastico ed extrascolastico.

Ad esempio, la cultura cinese, considera gli individui che ricorrono alla violenza dei soggetti come socialmente inadeguati. Ne deriva che i bambini cinesi vengono educati a non mettere in atto comportamenti aggressivi e possono essere puniti dai genitori se vengono coinvolti in situazioni di lotta. Al contrario, i coetanei statunitensi, non vengono comunque scoraggiati dal ricorso alla violenza per difendersi o comunque vengono motivati ad affermare sé stessi, laddove la capacità di combattere viene considerata come un segno indiscusso di mascolinità.

Anche le manifestazioni di affetto seguono regole comportamentali diverse, sia quelle che avvengono all’interno del nucleo familiare, sia quelle che avvengono all’esterno, come tra amici. Nelle famiglie statunitensi le espressioni di affetto vengono esibite comunemente ed hanno carattere effusivo. Nelle famiglie cinesi, al contrario, i contatti tra genitori e figli e non gli altri membri del nucleo familiare sono più formali: le manifestazioni affettive di intimità fisica non avvengono mai in pubblico (sarebbe considerato inopportuno). Questa diversità di espressione genera due esiti opposti. I bambini e ragazzi cinesi possono pensare di non essere sufficientemente amati dalle loro famiglie, oppure, per quanto attratti da comportamenti affettivi, non sono capaci di effusioni, o possono sentirsi a disagio dalle attenzioni dei loro compagni che percepiscono come manifestazione di invasività con il risultato che questi ultimi, a loro volta, li considerino scostanti e non interessati all’amicizia.

Tutto questo contribuisce ad aumentare ulteriormente il livello di stress dei bambini immigrati. Lo stato di tensione causato dalla migrazione può avere effetti sulla salute mentale dei bambini, causando manifestazioni d’ansia, perdita dell’autostima, sentimenti di marginalità e confusione nella propria identità.

Del resto, i bambini immigrati di seconda generazione presentano una maggiore incidenza di problematiche psicologiche rispetto ai propri coetanei. In uno studio di Pawliuk et al. (1996) è emerso, ad esempio, che lo stile di acculturazione adottato dai bambini non esercita alcun effetto sul loro svilupp o psicologico e tuttavia, i bambini figli di genitori integrati dal paese ospitante sono risultati avere una maggiore competenza sociale rispetto agli altri. Tuttavia, i bambini culturalmente assimilati vengono considerati dai genitori come aventi problemi comportamentali: i genitori vedono l’assimilazione dei loro figli ai coetanei come un atto di ribellione alla famiglia di origine e questo si riflette sul grado di stress psicologico dei bambini stessi che faticano così a farsi accettare da entrambi i gruppi di riferimento, ovvero famiglia e il gruppo dei pari e amici a scuola.

Nei bambini immigrati negli Stati Uniti è stato riscontrato, ad esempio, che la necessità di dover affrontare l’adattamento emotivo e cognitivo sia correlata ad esiti

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negativi come il basso rendimento scolastico, l’uso di droghe e comportamenti devianti di vario tipo (James, 1997).

L’adattamento psicologico dei bambini appartenenti a minoranze etniche ha ricevuto scarsa attenzione, particolarmente in Gran Bretagna. Lo studio di Atzaba-Poria et al. (2004) ha cercato di investigare l’adattamento dei bambini indiani che vivono nel Regno Unito così come quello dei loro pari inglesi. Il campione studiato consisteva di 125 bambini (66 indiani e 59 inglesi), d’età compresa tra i 7 e i 9 anni, insieme ai loro genitori e insegnanti. Questi ultimi hanno fornito informazioni sui problemi comportamentali dei bambini, e le strategie familiari di acculturazione, oltre a notizie sull’uso della lingua indiana per i bambini stranieri. Lo studio ha rilevato che i bambini indiani sembrano essersi adattati bene alla realtà socio-culturale ospitante. E tuttavia, secondo i racconti dei genitori, essi mostrano più problemi individuali dei loro pari inglesi. Non vi sono, comunque, differenze significative per la manifestazione esterna di problemi comportamentali. Inoltre, all’interno del gruppo dei bambini indiani, è stato riscontrato che i bambini, i cui genitori realizzino strategie di educazione maggiormente tradizionaliste, hanno mostrato un minor livello di problematicità comportamentale.

Touliatos et al. (2006 b) hanno, invece, esaminato il rendimento scolastico nei bambini neri e bianchi, e le interazioni tra l’etnia e altri variabili. Lo studio è stato condotto su un campione di 334 bambini neri e 637 bianchi, dal 3° al 6° grado scolastico. I dati consistevano in informazioni generali sul background e sui risultati equivalenti dei California Achievement Tests. I dati sono stati analizzati utilizzando l’analisi di varianza regressiva multipla. I risultati hanno indicato che i neri ottenevano risultati scolastici inferiori ai bianchi e si sentivano molto indietro ai propri compagni bianchi, man mano che proseguivano negli studi. Sono state rilevate significative interazioni tra sesso, classe sociale, struttura familiare e insegnanti. Tali elementi costituiscono delle variabili fortemente “altalenanti” più per i bambini neri che per quelli bianchi.

Naturalmente anche il livello socio-economico delle famiglie immigrate incide sui processi di adattamento. I maggiori livelli di stress nei bambini immigrati sono stati riscontrati quando questi vivevano in nuclei familiari sovraffollati, con reddito insufficiente e caratterizzati da un basso livello di istruzione (Munroe-Blum et al., 1989).

Un’ulteriore riflessione merita la questione della competenza linguistica che rappresenta un importante fattore nel processo di adattamento. Del resto, la lingua è il mezzo attraverso il quale si trasmettono i propri pensieri, le proprie emozioni e si apprendono nuove informazioni. La scarsa conoscenza della lingua del paese ospitante costituisce una delle principali barriere che ostacolano il positivo inserimento nel nuovo contesto sociale.

Le difficoltà linguistiche, unite ai cambiamenti dovuti all’adattamento al nuovo ambiente di vita, sembrano indurre nei bambini immigrati di prima generazione elevati livelli di ansia e di insicurezza che ostacolano l’instaurarsi di nuovi rapporti sociali. Tanto è vero che da una indagine su bambini immigrati residenti in vari paesi in Germania (Roebers e Schneider, 1999) è emerso che coloro che avevano una

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buona competenza nella lingua tedesca presentavano un minor livello d’ansia, superavano più rapidamente lo stress del cambiamento, mantenevano una buona autostima e sicurezza, risultando più capaci di stabilire relazioni con i coetanei ed integrarsi all’interno della rete sociale.