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4. Le relazioni tra gruppi

4.1. La teoria del contatto

Secondo l’Ipotesi del Contatto (Allport, 1954), l’incontro tra membri di gruppi diversi, se avviene in condizioni favorevoli, può ridurre il pregiudizio. Il contatto tra membri di gruppi diversi, tuttavia, può anche produrre conseguenze negative, quali ansia e incertezza (Stephan e Stephan, 1985). Richeson e Shelton (2003) hanno dimostrato che il contatto intergruppi può influenzare negativamente le prestazioni cognitive. Richeson Trawalter e Shelton (2005) hanno dimostrato che la prestazione in un compito di tipo cognitivo (Stroop test) era peggiore per quelli che avevano contatto con un membro dell’outgroup, rispetto a quelli che incontravano un membro dell’ingroup. Inoltre, tale effetto era presente solo nei partecipanti con elevati livelli di pregiudizio esplicito o implicito.

Secondo la teoria del pregiudizio di Allport (1954), mentre un contatto casuale (e, sostanzialmente, superficiale) sembrerebbe favorire il perdurare del pregiudizio, viceversa la conoscenza (soprattutto se approfondita) contribuirebbe alla loro eliminazione: le prove a disposizione incoraggiano a concludere che la conoscenza dei gruppi minoritari favorisca la tolleranza e gli atteggiamenti positivi nei loro riguardi (Allport, 1973). Il contatto, soprattutto quando esso e fondato a livello di conoscenza personale, può generare un’attenuazione del pregiudizio, viceversa rafforzato in condizione di assenza di relazioni personali.

4.1.1. Le dimensioni contestuali del contatto

Nelle relazioni interetniche lo studio delle dinamiche e delle dimensioni contestuali del contatto permette i scandagliare questioni come la validità della cooperazione come mezzo di superamento dei contrasti o il rapporto tra fusione e pluralismo. Del resto, «l’interesse […] di questo tipo di studi non sfugge: non a caso negli Stati Uniti essi hanno avuto uno sviluppo notevolissimo come sostegno e orientamento alle diverse politiche di “de-segregazione”, in particolare nella scuola e nel mondo del lavoro» (Mazzara, 1997, p.172).

È indispensabile che le diversità che si incontrano possano realizzare un profondo interscambio e ciò è possibile solo attraverso il contatto e il passaggio fruttuoso delle informazioni tra gruppi.

Da ciò derivala natura ambivalente dell’ipotesi del contatto, ovvero che attraverso di esso sia possibile ridurre il pregiudizio e il grado di conflittualità, anche quando tale contatto non avviene in una dimensione contestuale ideale ed intenzionale.

Secondo l’Ipotesi del Contatto (Allport, 1954), l’incontro tra membri di gruppi diversi, se avviene in condizioni favorevoli, può ridurre il pregiudizio. Negli ultimi 20 anni, alcuni modelli teorici, che traggono la loro origine dalla teoria dell’identità sociale (Tajfel, 1981), si sono proposti di estendere l’ipotesi del contatto in particolare per individuare le condizioni che portano alla generalizzazione degli effetti positivi del contatto dai membri dell’outgroup conosciuti (outgroup prossimale) ai membri dell’outgroup non conosciuti (outgroup distale). Secondo la teoria del contatto intergruppi (Brown e Hewstone, 2005), la generalizzazione è possibile se, nel contatto, viene preservata la salienza delle identità originarie. Secondo il modello dell’identità dell’ingroup comune (Gaertner & Dovidio, 2000), la salienza nel contatto di un’identità sovraordinata, che includa sia i membri dell’ingroup sia quelli dell’outgroup, può facilitare la riduzione del pregiudizio. Allport

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ha sottolineato come la vicinanza e l’integrazione tra individui appartenenti a gruppi diversi possa favorire la comprensione reciproca e il superamento dei pregiudizi, tuttavia ciò corrisponde al risultato di un contatto ottenuto in determinate condizioni contestuali. Allport aveva perciò individuato una serie di variabili in grado di influenzare (quando non di inficiare) l’esito del contatto stesso, individuando alcune condizioni: una lunga durata del contatto e un’approfondita conoscenza reciproca, la similarità di status tra gli individui coinvolti nell’interazione, l’esistenza di un impegno concreto verso fini comuni, specifiche caratteristiche di personalità (ci si riferisce soprattutto ad un basso livello di ansia e di aggressività), ma soprattutto il sostegno generale di tipo culturale e istituzionale all’integrazione. Alcuni studi hanno mostrato come, agli occhi dei docenti, la composizione delle reti amicali all’interno della classe trascenda i confini etnici (Zanone, 2007). Ciò rafforzerebbe la validità dell’“ipotesi del contatto”, ossia la convinzione che il contatto interpersonale fra etnie determini, in se stesso e di per sé, la nascita di rapporti razziali migliori mediante l’attenuazione dei pregiudizi razziali individuali. Un’attenta analisi impone di considerare con cautela la teoria del contatto, dal momento che sarebbe fondata su nessi di correlazione e non di causa-effetto. Certamente, il nesso tra amicizie interetniche e atteggiamenti razziali positivi potrebbe anche avere riscontri oggettivi e quantitativamente rilevanti, ma risulterebbe problematico rintracciare la direzione di un’eventuale causalità tra le due componenti: se fosse vero che il coinvolgimento degli scolari in amicizie etnicamente miste attenua il loro pregiudizio razziale, potrebbe essere altrettanto veritiero il fatto che sono solo gli scolari senza pregiudizi razziali che decidono di stringere questo tipo di amicizie. Occorre inoltre non fare confusione tra attrazione interpersonale e coesione di gruppo, cioè tra gli atteggiamenti di positività che un bambino può riversare verso i singoli e l’attrazione reciproca fra i membri interni a un gruppo in quanto membri del gruppo: a seconda delle circostanze, l’etnia può essere o non essere una variabile significativa nella formazione dei gruppi. La complessità della questione raggiunge il punto più emblematico nella cosiddetta “sindrome di Leroy”, cioè, nella possibilità che un bambino provi simpatia per una persona, ma odi la sua “razza” (Zanone, 2007).

Al di là dei fattori legati alle differenze etniche, nell’analizzare le relazioni tra bambini non vanno mai dimenticate le caratteristiche proprie della cultura infantile, di quel microcosmo caratterizzato da affetti positivi e negativi, rapporti di inclusione ed esclusione, di dominanza e parità, permeabile alle influenze famigliari, sociali, culturali.

4.1.2 Le dimensioni comportamentali del contatto

Un contatto favorevole porta ad una migliore conoscenza degli altri e, quindi, a non giudicarli più in base a degli stereotipi. Ciò che favorisce l’efficacia del contatto è l’approfondimento della conoscenza a livello personale, tuttavia, è emerso come coloro che conoscono più di un immigrato mostrino un minore interesse alla comunicazione rispetto a coloro che conoscono un solo straniero. Una tale tendenza rimanda ad un assunto che attraversa la teoria socio-psicologica del pregiudizio:

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conoscere numerosi stranieri può portare a percepirli come un gruppo, un’entità collettiva, verso la quale si innesca un processo di rappresentazione che si caratterizza come senso di minaccia e di contrapposizione rispetto al gruppo integrato cui si appartiene. Si tratta, in sostanza, della traccia della percezione di una collettività cui ci si riferisce come “loro” contrapposta ad una collettività percepita in termini di “noi”, tema affrontato in maniera approfondita da Elias nella sua ricerca condotta sulla comunità di Winston Parva (Elias e Scotson, 1994).

Ciò non inficia però il ruolo svolto dal contatto e in particolare dalla conoscenza personale nella percezione e nell’atteggiamento verso lo straniero. Capire perché la conoscenza personale non abbia sempre un effetto benefico sugli atteggiamenti degli individui nei confronti dello straniero, non è agevole. Lo stesso Allport (1973) non sembra fosse del tutto convinto che la conoscenza personale potesse portare sempre a un miglioramento dei rapporti con lo straniero. Riteneva che affinché l’interazione andasse a buon fine, dovessero essere presenti anche altri fattori sociali e individuali, come la similarità di status fra gli individui coinvolti, l’esistenza di un impegno concreto verso fini comuni o delle specifiche caratteristiche di personalità, come un basso livello di aggressività e di ansia. Mazzara, parte dal presupposto che: «l’elemento forse più importante, in tutte le concezioni che in qualche modo si richiamano ad una immagine del pregiudizio quale erronea valutazione, è la possibilità di acquisire nuove informazioni che possano smentire gli stereotipi, e comunque la possibilità di acquisire nuove informazioni che possano smentire gli stereotipi, e comunque la possibilità di avviare tra i soggetti un proficuo scambio di conoscenza reciproche» (Mazzara, 1997, p.173). Sarebbe ragionevole attendersi che i nuovi dati acquisiti su un individuo o un gruppo attraverso la conoscenza personale facciano breccia nella rigidità di certe credenze segnate da stereotipi e lascino spazio ad opinioni più realistiche e tolleranti. Ma sono molti gli elementi che possono ostacolare questo processo. Innanzitutto, queste nuove informazioni, a volte, non sono favorevoli e possono far scoprire aspetti negativi dell’ altro, precedentemente non percepiti: «sempre con riferimento al tema dell’acquisizione di nuove informazioni, è facile notare come non sempre tali nuove informazioni contribuiscano a diminuire la distanza percepita, e come il conttato stretto porti proprio a mettere in evidenza e a verificare in pratica differenze di mentalità, cultura, visione del mondo che appaiono difficilmente conciliabili e che in qualche caso possono andare al di là delle aspettative» (Mazzara, 1997, p.176). Relativamente alla possibilità di modifica degli atteggiamenti grazie all’acquisizione di nuove informazioni, è stata sottolineata la necessità di adottare strategie specifiche per superare la rigidità dei processi cognitivi che tenderebbero alla conferma degli stereotipi. Uno degli elementi determinanti dell’effetto positivo del contatto sarebbe proprio l’approfondimento della conoscenza personale nel momento in cui si genera familiarità che, a sua volta, avrebbe come conseguenza di una riduzione del pregiudizio e dell’ostilità ed una maggiore comprensione ed accettazione reciproca. Ma più importante di tutti è la possibilità di acquisire nuove informazioni che possano smentire gli stereotipi, avviando tra soggetti impegnati nella relazione che nasce del contatto verso un fruttuoso scambio di conoscenze reciproche. Un’ultima

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questione rilevata da Mazzara in merito, riguarda la generalizzabilità dell’esperienza positiva: «ammesso pure che il contatto produca un effetto positivo sulla relazione, non è affatto scontato che tale miglioramento si trasferisca automaticamente all’interno del gruppo al quale appartengono i soggetti con cui si è interagito» (Mazzara, 1997, p.177). Elias (1994) ha individuato la radice del pregiudizio nella figurazione che si crea tra due gruppi umani che si percepiscono reciprocamente come entità collettive, in cui lo spazio per relazioni interindividuali significative risulta compromesso dalla contrapposizione di un gruppo integrato rispetto agli outsiders. Il gruppo integrato, nel suo complesso, e i membri di tale gruppo, individualmente, aderiscono ad una serie di norme implicite che sanciscono la distanza, la stigmatizzazione del gruppo di outsiders, il prevalere di opinioni e atteggiamenti ostili nei suoi confronti come mezzo per costruire, consolidare, difendere l’identità del gruppo integrato. Percepirsi come gruppo, dunque, può giocare a sfavore di una reciproca e pacifica accettazione, specie se l’arrivo di un gruppo di outsiders viene interpretato come un’invasione dei propri spazi sociali e una minaccia alle proprie posizioni consolidate, al prestigio sociale, al grado di coesione del gruppo integrato. Viceversa, molti sono anche i fattori che ostacolano l’efficacia del contatto stesso. Relativamente all’acquisizione di nuove informazioni, lo stesso Mazzara (1997) rileva che non sempre esse contribuiscono a diminuire la distanza percepita e, a volte, possono anche radicalizzarla mostrando differenziazioni inconciliabili. La scoperta di queste ultime può anche dar luogo a stati generalizzati di ansia che, coerentemente ai fenomeni osservati relativamente al bisogno di congruenza delle credenze (al contesto rappresentativo collettivo di riferimento), non favoriscono certamente né l’interazione né la conseguente efficacia nel cambiamento di atteggiamento. Questo implica che il contatto debba essere anticipato (o per lo meno accompagnato) dall’acquisizione di informazioni che non esaltino ma non minimizzino neanche le possibili differenze che si possono incontrare nell’interazione reale (Stroebe, Lenkert e Jonas, 1988). Un altro elemento negativo è costituito dalla competizione. Nel momento in cui il contatto viene esperito come un’occasione per esercitare in maniera diretta la competizione tra gruppi, si “ottiene” un rafforzamento degli stereotipi e dell’ostilità reciproca, anziché una sua diminuzione. Si tratta di un’eventualità favorita, ad esempio, da un contesto di tensione, legato a particolari situazioni di disagio e/o frustrazione sociale, in cui si trovi uno o entrambi i gruppi coinvolti nell’interazione, o ancora da questioni di definizione del loro status reciproco (Amir, 1969). Una delle principali problematiche relative all’efficacia del contatto intergruppo, in termini di traduzione dell’interazioni in un efficace cambiamento di atteggiamenti e comportamenti, è legata alla generalizzabilità dell’esperienza positiva: anche quando si registra un contatto che generi effetti positivi sulla relazione interetnica, ciò non si traduce automaticamente in un miglioramento degli atteggiamenti e comportamenti dell’intero gruppo cui appartengono i soggetti coinvolti nell’esperienza di interazione positiva (Wilder, 1984). Si possono cioè ottenere dei miglioramenti nei livelli di tolleranza interetnica, ma non necessariamente un mutamento nell’atteggiamento generale verso l’altro gruppo: tendenzialmente, infatti, è più facile che il gruppo

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circoscriva l’esperienza positiva al singolo caso evenemenziale e possa, a volte, considerarla una sorta di informazione atipica, soprattutto quando altre esperienze non generano risultati egualmente positivi, al di là della reale valutazione dei fatti.

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CAPITOLO II - ADATTAMENTO PSICO-SOCIALE NELL’ESPERIENZA