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3. Prospettiva psico-sociale dei processi identitari

3.2. Teoria socio-cognitiva delle categorizzazioni del sé (SCT)

3.2.3. Il pregiudizio e la consapevolezza etnica dei bambini

Gli studiosi che hanno approfondito la genesi del pregiudizio, in ambito psicologico e sociale, concordano che i bambini e le bambine abbiano atteggiamenti etnici che esibiscono chiaramente nel gioco o nelle prime relazioni tra pari. È come dire che i piccoli scoprono prestissimo di appartenere ad un gruppo piuttosto che ad un altro e che condividere alcune caratteristiche fisiche implichi anche una certa somiglianza di norme e valori. Per affrontare l’enorme quantità di informazioni dalle quali viene continuamente bombardato, il bambino, come l’adulto, mediante dei processi mentali crea delle configurazioni prestabilite di tratti di personalità, genere ed etnia e li applica ad interi gruppi sociali, dando vita al pregiudizio. Poiché l’essere umano, sin dalla nascita deve fronteggiare al meglio una molteplicità di situazioni differenti, diversi autori hanno dimostrato come i bambini, sviluppando precocemente la capacità di organizzare la realtà in categorie (genere, età, razza, etnia, ecc.), mostrino sin da piccolissimi atteggiamenti pregiudiziali.

Spesso genitori e insegnati ritengono che il pregiudizio sia basso nei primi anni di scuola, poiché i bambini a questa età difficilmente mettono in atto comportamenti ostili o discriminatori. Tale convinzione ha subito numerose disconferme: diverse ricerche hanno rivelato per esempio alti livelli di pregiudizio etnico da parte dei bambini bianchi nei confronti delle persone di colore e tale atteggiamento discriminatorio è osservabile già all’età di tre anni (Aboud e Doyle, 1996).

Nella primissima infanzia, gli stereotipi vengono usati dai bambini come una sorta di modelli fissi di conoscenza e di rappresentazione del mondo circostante, per

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semplificare la descrizione di interi gruppi sociali e rendere la realtà il più possibile prevedibile. Tali schemi mentali si sviluppano tramite un processo dinamico in cui i bambini, proprio come gli adulti, sulla base delle loro risorse cognitive, cercano in modo autonomo di conoscere, valutare e controllare il mondo sociale che li circonda. La consapevolezza che i bambini sotto i dieci anni manifestano pregiudizi che negli adulti vanno scomparendo e l’assenza di correlazione tra il pregiudizio dei genitori e quello dei figli dimostra come i bambini non assorbono passivamente dal loro contesto sociale l’atteggiamento etnico dominante, ma hanno un ruolo decisivo nella sua definizione. Piuttosto si realizza un processo dinamico nel corso del quale giocano un ruolo decisivo le capacità cognitive progressivamente acquisite dal bambino e la struttura del mondo fisico e sociale con cui egli entra in contatto (Brown, 1995).

Intorno ai 4-5 anni i bambini riescono a distinguere i diversi stimoli in base all’appartenenza etnica, sono in grado di discriminare tra persone di gruppi etnici differenti con estrema precocità, nonostante a questa età non abbiano ancora acquisito una completa conoscenza delle categorie. In questo periodo dello sviluppo, le loro limitate capacità cognitive costituiscono una delle componenti principali alla base del pregiudizio. Basata particolarmente sulla preferenza etnica e sulle tecniche di attribuzione di caratteristiche, gran parte della ricerca ha constatato che i bambini a partire da un’età molto giovane sono in grado di differenziare le persone sulla base di stimoli etnici (come il colore della pelle) e di distinguere in maniera chiara gli appartenenti ai diversi gruppi razziali. A partire dai quattro anni dimostrano una notevole preferenza verso gli appartenenti al proprio gruppo etnico, assumendo atteggiamenti discriminatori nei confronti di chi non ne fa parte. In età precoce compare non solo la capacità di identificarsi con il gruppo etnico, ma anche di mostrare atteggiamenti negativi nei riguardi di grupp i esterni. I bambini solitamente percepiscono l’ingroup come composto da persone diverse e non assimilabili tra loro, esso appare più eterogeneo rispetto al gruppo esterno. In modo graduale aumenta con l’età anche il fenomeno dell’omogeneizzazione dell’outgroup: i grupp i sociali esterni ci sembrano omogenei, compatti, tanto da non essere generalmente in grado di cogliere le differenze esistenti al loro interno. Il bambino impara molto presto ad adoperare dei bias cognitivi come scorciatoie concettuali che consentono di proteggere e conservare l’idea che si ha di un determinato gruppo etnico. Adoperando tali strategie, di cui comunque l’adulto fa uso quando ha necessità di proteggere le proprie idee preconcette, il bambino può aumentare il senso di appartenenza all’ingroup e quindi rafforzare la propria identità. Dai quattro fino ai sei, sette anni il pregiudizio raggiunge dunque il suo massimo sviluppo, per poi declinare, in maniera graduale, durante il periodo centrale dell’infanzia. Diversi studiosi si sono chiesti il perché di tale andamento curvilineo negli atteggiamenti pregiudiziali, dandone delle spiegazioni totalmente divergenti tra loro. Per alcuni la motivazione va ricercata nel tipo di educazione trasmessa dai genitori; misure disciplinari eccessivamente rigide possono incoraggiare risposte aggressive che vengono proiettate nei confronti di target deboli, come gli appartenenti a gruppi di minoranza etnica. Secondo quest’ottica, i bambini apprendono semplicemente i

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propri atteggiamenti etnici e i propri comportamenti dai genitori e dai pari nella stessa maniera in cui essi possono imparare altri comportamenti sociali. Poichè il processo di categorizzazione del mondo sociale viene messo in atto dal bambino non solo precocemente ma anche in modo autonomo, ciò fa pensare che l’acquisizione del pregiudizio non sia attribuibile interamente al processo di apprendimento sociale ma che occorra tener conto dello sviluppo delle capacità cognitive progressivamente apprese. A tal proposito, secondo la teoria socio-cognitiva gli atteggiamenti etnici del bambino non sono altro che il riflesso dei sottostanti cambiamenti che avvengono nelle strutture cognitive (Aboud,1988). Il bambino impara a collocare le persone in categorie, non solo precocemente ma anche in modo automatico, a prescindere dai modelli di riferimento, testimoniando come nel processo di acquisizione del pregiudizio molto probabilmente entrano in gioco le capacità cognitive. L’ambiente sociale del bambino darebbe luogo al contenuto degli stereotipi, mentre la loro struttura verrebbe determinata dall’acquisizione di specifiche capacità e abilità cognitive. In particolare sembra che lo stereotipo etnico aumenti negli anni prescolari, raggiunga il punto massimo nei primi anni della scuola elementare per poi decrescere successivamente. Studi effettuati con bambini dai cinque ai nove anni hanno dimostrato una riduzione del pregiudizio nei confronti dell’outgroup, parallela al progredire dell’età e dovuta al miglioramento delle capacità cognitive e socio- cognitive, che consentono di percepire in modo più complesso l’outgroup ed accettare la diversità. Infatti in relazione al raggiungimento del pensiero operazionale concreto, che avviene intorno ai sette-otto anni, i bambini tenderebbero a categorizzare le persone in modo rigido e a stabilire delle nette distinzioni tra ciò che reputano simile a sé e ciò che appare diverso; tutto questo causerebbe un picco nel processo di stereotipizzazione etnica. Dai nove-dieci anni, invece, acquisendo la capacità di classificare usando molteplici attributi ed elaborando le informazioni in modo più flessibile, i bambini inizierebbero a riconoscere le somiglianze tra soggetti di etnie diverse e a comprendere come ci sono differenze anche tra gli appartenenti allo stesso gruppo etnico. A tal proposito il passaggio dallo stadio preoperatorio (caratterizzato dal periodo tra i due e mezzo e i sei anni) a quello delle operazioni concrete (a partire dall’ingresso della scuola elementare) fa acquisire al bambino alcune abilità cognitive basilari nel processo di modificazione e riduzione del pregiudizio. Durante l’età scolare, dagli otto-nove anni in poi, il bambino abbandonando l’egocentrismo iniziale e rinunciando ad una visione della realtà rigida e schematica, comincia ad elaborare le informazioni provenienti dal mondo sociale mediante una maggiore flessibilità. Comprendendo che le categorie non sempre hanno dei confini rigidi e che attributi anche apparentemente incoerenti possono appartenere alle stesse persone, i bambini cominciano a ridimensionare i loro stereotipi fino a quel momento inflessibili. Con il principio di flessibilità, dunque, il bambino percepisce stimoli nuovi alla luce delle preesistenti categorie, considerando oltre alle somiglianze anche le differenze che questi possono presentare. Questa abilità gli consente di osservare come l’ingroup e l’outgroup possono avere aspetti in comune e come membri dello stesso gruppo non necessariamente devono condividere le stesse caratteristiche. L’acquisizione della capacità di classificazione multipla, che

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consiste nel dividere le persone in più categorie simultaneamente e in modo flessibile, consente di uscire dalla dicotomizzazione. Le differenze individuali nella risoluzione dei compiti di classificazione multipla dipendono dall’età del bambino. Infatti, a cinque anni una modestissima percentuale di bambini riesce ad adoperare una classificazione su più livelli, tale percentuale aumenta col progredire dell’età e solitamente raggiunge livelli altissimi dopo i nove anni (Portera, 2000).

Del resto, la classificazione multipla è stata spesso studiata chiedendo ai bambini di ordinare e classificare stimoli differenziati per colore, grandezza e forma. Se il compito prevede di classificare delle immagini, i bambini di età prescolare sono capaci di classificare gli oggetti in base ad una sola dimensione, dimostrando difficoltà nel comprendere che lo stesso oggetto o la stessa persona possono essere classificati secondo più categorie. Lo stesso Piaget (1991) aveva dimostrato che, a causa di abilità cognitive ancora carenti, i bambini piccoli hanno difficoltà a categorizzare gli oggetti su più dimensioni. Dagli otto-nove anni in poi, i bambini sono in grado di adoperare una procedura multicategoriale per organizzare la realtà; molte categorie sono usate simultaneamente e probabilmente non in un modo stile “o tutto o niente”, bensì cercando di seguire specifici criteri come quello della somiglianza tra le figure. Sembra, inoltre, che l’acquisizione della capacità di classificazione multipla risulti fondamentale nel processo di riduz ione del pregiudizio, dal momento che rendendo meno rigido e stereotipato il modo di valutare eventi e persone, dia la possibilità al bambino di capire quanto sia variegata ed eterogenea la realtà sociale. Tuttavia recenti studi di psicologia cognitiva confermano che i bambini apprendono la cosiddetta "razza" o "categorizzazione razziale" dal linguaggio e non dalla percezione visiva. In altri termini, essi possono provare paura, antipatia o altro secondo quanto trasmesso dall'ambiente circostante, che è rappresentato dalla famiglia, ma anche da tutti i media con cui giorno dopo giorno i piccoli, ancora inconsapevolmente, si confrontano. La paura, la repulsione o la distanza s'imparano allora prima ancora che vengano viste e percepite. In altri termini, ognuno di noi, anche senza averne consapevolezza, può educare la percezione dei bambini, tenendo conto che il peso fondante che viene assegnato oggi ai fenotipi come elementi fondamentali dei gruppi sociali e dati costitutivi della persona non appartengono a tutte le culture (Portera, 2000). Ci sono culture infatti che costituiscono la persona in base, per esempio, al "fare" e al suo rapporto con il territorio, più che al "sangue" o alla discendenza. L'idea di "razza" non è pertanto né un fatto ovvio né universale e per questo non la si può ritenere una categoria per apprendere innata. Tuttavia, nei bambini, la valutazione di diversità di valori e di regole di vita avviene in modo pressoché automatico attraverso cioè insegnamenti espliciti o impliciti del contesto familiare e scolastico. In relazione a ciò, possiamo però ricordare che Piaget stesso (1991) ha sostenuto l'esistenza di stadi di sviluppo del pregiudizio razziale sostenendo che il momento del passaggio dalla fase del pensiero operativo concreto a quello delle operazioni formali favorisce l'apertura alla comunità allargata e pertanto una maggior duttilità dei pregiudizi esistenti.

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