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L’esperienza migratoria: processi identitari nei bambini e adulti

CAPITOLO II ADATTAMENTO PSICO-SOCIALE NELL’ESPERIENZA

2. Identità e processi di integrazione nei percorsi migratori

2.1. L’esperienza migratoria: processi identitari nei bambini e adulti

La letteratura psicologica sull’infanzia e la gioventù migrante ha messo in risalto la portata problematica del complesso vissuto migratorio, delicato e complesso per ciascun individuo di qualunque età e cultura, un evento denso di significative conseguenze psicologiche, che accomuna sia i bambini che hanno sperimentato direttamente lo spostamento da uno spazio geografico ad un altro, sia coloro che lo vivono indirettamente attraverso la propria storia familiare.

Psicologi e pedagogisti si sono a lungo interrogati sul significato psicologico del crescere e dell’apprendere nella migrazione, giungendo così a riconoscere come il bambino immigrato, nel suo processo di adattamento alla società accogliente, sia chiamato a costruire un’identità plurale a partire da diversi riferimenti culturali. Nella maggior parte degli studi sui bambini immigrati ricorre, infatti, con una certa frequenza, il tema dell’identità infantile presentata come identità “sospesa”, “in bilico tra due mondi” e “soggetta a rotture”. Tali formule descrittive riguardano la delicata condizione psicologica del formarsi tra due universi culturali. Pertanto parlare dei processi identitari dei bambini immigrati e di origine immigrata vuol dire, fondamentalmente, porre al centro del dibattito il tema della loro collocazione tra due mondi: quello di origine e quello di accoglienza.

Numerose ricerche, che si sono occupate del fenomeno migratorio, hanno dunque analizzato gli effetti che i molteplici cambiamenti legati al trasferimento in un nuovo contesto socio-culturale di vita producono a livello identitario sui soggetti in via di sviluppo , oltre ai fattori che ostacolano il difficile processo dell’integrazione da parte della comunità ospitante.

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Indubbiamente nell’età evolutiva il processo migratorio presenta sfaccettature estremamente complesse, legate all’età, alla capacità dei genitori di integrarsi, di contenere e filtrare il nuovo per offrirlo ai figli, alle condizioni che lo hanno reso possibile o imposto (si pensi ad esempio al caso degli immigrati rifugiati, adulti e bambini).

Il percorso migratorio dei bambini immigrati si richiama da un lato alla specificità dell’immigrazione caratterizzante la propria famiglia d’origine, dall’altro ad una serie di elementi che segnano l’esperienza di tutti i minori immigrati. Tra le peculiarità del vissuto di tutti i bambini immigrati che intraprendono il percorso dell’integrazione sono state individuate il “viaggio, reale o narrato dalla famiglia, la doppia appartenenza e bisogni aggiuntivi” (D’Alessio, Schimmenti e De Stasio 2005, p.170). A prescindere dalla specificità del viaggio migratorio intrapreso, il bambino dalle origini culturali diverse rispetto a quelle della società in cui cresce, è comunque costretto a far fronte a un compito di distacco dal paese di provenienza prima di vivere l’appartenenza al paese che lo ospita: tale compito può divenire un “fattore di rischio” nel processo di individuazione/separazione che coinvolge ogni soggetto, nel corso dello sviluppo, nella costruzione di un’immagine del Sé individuale e sociale (Louden, 1981).

Bleger (1979) ha sostenuto che la rottura, sul piano psicologico e identitario verificatasi in seguito all’emigrazione, risulta essere destabilizzante per l’immigrato adulto, e ancor più per il bambino, in quanto mette dolorosamente in crisi la continuità di sé, l’assetto delle proprie identificazioni e dei propri valori, la coerenza dei modi personali di pensare, di sentire, di agire, l’affidabilità dei legami di appartenenza a un gruppo, l’efficacia dei codici comuni alla propria cultura e società. Il migrante, piccolo o adulto che sia, deve, quindi, sforzarsi per integrarsi in un paese con cultura, usi, costumi e lingua diversi dalla propria, ma deve anche lavorare sul piano intrapsichico per reintegrare il proprio mondo interno destabilizzato (De Rosa, Di Giovenale, Hassan e Cocchi, 1999).

L’esperienza migratoria è stata illustrata dai ricercatori in rapporto all’emblematico concetto di sradicamento.

Mirski (1997) ha messo in evidenza il profondo sradicamento dai propri riferimenti identitari indotto dall’evento migratorio e la natura traumatica di tale avvenimento nell’esistenza di ogni bambino. In merito alla condizione di sradicamento in situazione migratoria Eiguer (1999) scrive:

“Le diverse emozioni e rappresentazioni dello sradicamento psicologico, ritorno di eccitazione, blocco della capacità di rappresentazione, la confusione di tempo, di luogo, nostalgia o paura degli oggetti interni, è l’estraneità ad apparire, per così dire, come caratteristica” (Eiger 1999, p. 106).

Il soggetto immigrato, a qualsiasi età, rimane disorientato innanzi allo sradicamento e non si riconosce più nelle sue reazioni; egli finisce così per provare dolore e risentimento verso se stesso, per aver voluto la rottura, e tali stati d’animo rafforzano il sentimento di sradicamento piuttosto che placarlo.

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Ruano-Barbalan (1998) ha affermato che se generalmente gli immigrati hanno un problema d’identità, i livelli di conflittualità sono diversi tra gli adulti e i giovani, adolescenti e bambini. Mentre gli immigrati della prima generazione, ossia coloro che giungono nel nuovo paese adulti o giovani, risentono meno profondamente della contraddittorietà tra diversi sistemi di riferimento culturale, quello d’appartenenza e quello d’accoglienza, avendo una personalità già formata, diversamente per i bambini immigrati della seconda generazione, cioè i figli degli immigrati, i processi d’identità e di riferimento culturale sono particolarmente complessi in quanto essi si trovano a dover conciliare richieste e messaggi differenti, se non perfino contrastanti, provenienti da un lato dalla famiglia, e dalla società e dalla scuola accoglienti dall’altro.

Molti autori concordano nel definire l’esperienza dell’immigrazione come un evento fonte di notevole stress. Gli esiti stressanti della migrazione sono stati puntualmente ricondotti a tre principali fattori: i cambiamenti nella cultura, nel contesto sociale e nelle relazioni interpersonali (Moilanen, Myhrman, Ebeling, Penninki-Lampi, Vuorenkoski, 1998). Questi fattori possono compromettere gravemente il processo di adattamento, con ripercussioni sull’inserimento sociale e lavorativo degli adulti immigrati o sul successo scolastico dei bambini immigrati.

L’emigrazione è un’esperienza caratterizzata da una serie di eventi che vengono a determinare sotto il profilo psicologico una grave situazione di crisi (L. Grinberg e R. Grinberg, 1989).

Serrano (1980) ha esaminato i problemi che il bambino immigrato può incontrare lungo il suo percorso di integrazione nel paese accogliente, ricorrendo alle categorie fenomenologiche di spazio e di tempo. Lo spazio è connesso ad un’esperienza di perdita relativa al paese d’origine e a tutti i legami che hanno subito delle drastiche rotture con il processo di immigrazione, quali il rapporto con i pari e con i parenti rimasti in patria. Tali rotture e privazioni, fanno sì che si inneschi un processo di idealizzazione del paese d’origine, oggetto di perdita, e di conseguenza una proiezione persecutoria sul presente e sul paese ospite.

Il cambiamento radicale seguito al distacco dal proprio paese, può, infatti, risvegliare sia nel bambino che nei genitori, angosce arcaiche a fondo persecutorio o depressivo (Grinberg, 1975) e facilitare l’insorgenza di psicotici meccanismi di difesa (Klein, 1946) quali la negazione, la scissione, l’idealizzazione, che coinvolgono nella loro polarità i paesi d’origine e quello d’accoglienza.

Il tempo è invece legato alla sospensione del momento presente e all’oscillazione fra un passato che ispira sentimenti di nostalgia e sensi di colpa e un futuro idealizzato che ispira la speranza di un ritorno; in tal modo il bambino immigrato rinuncia a vivere nel “qui ed ora” e non riesce a soddisfare adeguatamente i suoi bisogni sociali ed emotivi.

L. e R. Grinberg (1989), anch’essi richiamandosi alle categorie di spazio e di tempo, considerano il sentimento d’identità dei soggetti immigrati, adulti e minori, come il risultato di un processo d’interazione continua tra tre legami d’integrazione: spaziale, temporale, sociale. L’emigrazione colpisce questi tre vincoli, maggiormente il legame d’integrazione sociale, creando stati di “disorganizzazione” più o meno

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profonda, durante i quali si attivano sentimenti di angoscia e sensi di colpa. Nel paese d’accoglienza, infatti, l’immigrato viene a perdere i ruoli e le funzioni che ricopriva nel paese d’origine e nel paese accogliente si deve costruire delle radici e dei legami affidabili. Questa disintegrazione del legame sociale ostacola notevolmente il sentimento di appartenenza e accentua quello di non-appartenenza.

La migrazione, che non è limitata solo al momento della separazione dal luogo nativo o al momento in cui si giunge nel nuovo paese, implica, una serie di ansie e sofferenze.

In particolare insorgono due momenti critici. Il primo è costituito dall’abba ndono del proprio mondo e delle sue specifiche tradizioni, nonché dalla separazione dalla famiglia d’origine e dalla rete di sostegno sociale. Il secondo momento è rappresentato dall’adattamento nel nuovo paese del quale s’ignorano la lingua, la cultura, le tradizioni (Laosa, 1990). Secondo una lettura psicodinamica, la separazione dal luogo nativo riattiva i conflitti delle prime relazioni, soprattutto i lutti degli affetti perdut i.

Secondo Furnari (1981) le capacità di elaborare il lutto incidono sulla modalità positiva o negativa del processo d’integrazione, in quanto l’emigrazione rimette in discussione l’equilibrio raggiunto nello sviluppo e richiede necessariamente una ristrutturazione del mondo interno del soggetto. Questo processo di elaborazione del lutto si articola in tre fasi. Nella prima prevale uno stato di shock poiché l’immigrato non riesce a comprendere il significato dell’abbandono della propria terra. Nella seconda fase sopraggiunge lo stato di disperazione, di dolore e di confusione tanto che l’immigrato tende a idealizzare e a mitizzare il paese d’origine. Nella terza fase egli supera il lutto in quanto giunge ad accettare il nuovo paese e a sviluppare un senso di appartenenza ad esso (L. Grinberg e R. Grinberg, 1989).

Diversi studiosi hanno descritto e spiegato lo stato psicologico del bambino immigrato utilizzando il concetto di vulnerabilità, indicante uno stato di minore resistenza e difesa a fattori nocivi e aggressivi (Tomkiewicz e Manciaux, 1987). Giusti (2000) ha precisato che la vulnerabilità dei bambini immigrati è dovuta a due fattori: “il dover fare i conti con il viaggio (la frattura) dei genitori e con la situazione migratoria che li colloca tra i due poli del qui e ora e dell’altrove” (Giusti 2000, p. 23).

Una lettura interessante del disagio infantile in situazione di migrazione ci è proposta da Nathan e Moro (1988), i quali hanno individuato gli elementi di vulnerabilità caratterizzanti questo percorso ricorrendo ad immagini metaforiche della mitologia greca.

I due etnopsichiatri francesi sostengono che il viaggio che conduce il piccolo migrante dal mondo genitoriale al nuovo mondo, presenta le stesse possibilità e le stesse difficoltà di un percorso iniziatico e di nuova nascita. In un certo senso per passare da un mondo all’altro bisogna essere “iniziati” cioè sostenuti, orientati e guidati.

Interessanti spunti di ulteriore riflessione, in merito al significato dell’esperienza migratoria come motivo di rottura e di lacerazione interiore, si possono trarre anche dalla letteratura in lingua italiana scritta dagli immigrati adulti, la quale ci offre

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significative e illuminanti testimonianze di molteplici storie individuali di migrazione. A riguardo merita di essere riportato il seguente passo:

“L’immigrazione è una rottura, una lacerazione dei riferimenti della memoria essenziale, è un brutale cambiamento di esistenza (…). Partire è un modo di conservare la propria dignità. Vivere come emigrato e conservare la propria dignità non è facile. La violenza, l’ostilità, l’ignoranza e la paura rendono l’ambiente sociale e umano piuttosto patogeno. Per l’emigrato si tratta di ritrovare una propria collocazione in questo ambito perturbato” (T. B. Jelloun 1990, p. X).

Analogamente Giusti (2004) si è pronunciata rispetto al tortuoso cammino degli immigrati e dei loro figli, paragonandolo con peculiare enfasi ad una realtà labirintica. Secondo l’autrice il paese d’immigrazione, in senso simbolico e in senso spaziale, appare essere agli occhi di chi emigra una sorta di vero e proprio labirinto, come esplicitato dalla seguente considerazione:

“Il percorso del labirinto rappresenta simbolicamente una serie di esperienze fisiche o psichiche difficili che portano chi le percorre ad arrivare fino al centro dove può avvenire l’incontro con una realtà altra: un nuovo lavoro, una nuova vita, gli altri” (Giusti 2004, p. 58).