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CAPITOLO 4 GOLEM ARCHEOLOGICI

3. Le bestie da scavo

Da alcuni giorni sono alle prese con lo scavo in un settore che si caratterizza per delle anomalie che stanno letteralmente facendoci scervellare. L’elemento sul quale più si concentrano le perplessità degli archeologi è la presenza di alcune tracce, in particolare alcuni brandelli cementizi piuttosto compatti che inglobano ciottoli e frammenti di laterizi.

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Generalmente, mi viene spiegato, quando si incontrano «questo genere di situazioni» è perché si è in presenza delle fondazioni di una struttura muraria eppure, osservando meglio l’andamento di questo «supposto muro», è impossibile non notare quanto questo sia terribilmente «storto» rispetto alla direzione delle strutture murarie circostanti e alla medesima quota, oltre il fatto che lo spessore non è mai costante; ora spesso 30 cm, ora 10 cm. Oltre ad essere «poco logico», mi viene spiegato, è altamente improbabile che i romani abbiano fatto «una cosa a cazzo come questa», dato che «quando costruivano qualcosa erano precisi e lo facevano sempre tenendo conto della specularità degli ambienti. E quindi visto che dall’altro lato non c’è nulla di tutto questo, questo coso qui che ci fa?».

Come in tutte le situazioni dove non c’è chiarezza su cosa si sta scavando e le stratigrafie non forniscono nessun suggerimento degno di rilievo, si decide di «continuare la pulizia» del settore e di mettere in evidenza queste strutture che sembrano affiorare, qualsiasi cosa esse siano.

Come mi spiega Giulio, il mio responsabile:

«Il mio maestro mi ha insegnato: “quando non capisci una cosa, fermati. Fai la pulizia e poi ricomincia a scavare. Si pulisce per capire e poi si continua a scavare”. Quando scavi, ogni tanto, alzati e guarda quello che stai facendo, perché se guardi dall’alto lo strato è più semplice da individuare. Poi vedi la differenza, la puoi confrontare con quello che c’è intorno».

Prendo alla lettera il suggerimento di Giulio e non senza avvertire una sensazione di ansia conferita dall’enigmaticità dello strato e dalla «paura di fare danni», comincio a grattare via la terra accumulatasi intorno a questo “supposto muro” il quale, dopo un quaranta minuti di scrupolosa opera di trowel e paletta, diventa «veramente un muro». Succede cioè che a partire da una situazione di confusione nella quale era davvero difficile distinguere la terra depositata dalla struttura muraria, giacché solo una vigilanza tattile e uditiva della resistenza al passaggio della trowel lo permetteva, diventa molto più intuitivo individuare lo stacco tra terra e muro.

Charles Goodwin si è molto occupato di come gli ambienti professionali mettono in campo delle pratiche che hanno la caratteristica di modellare l’universo in maniera tale che questo sia padroneggiabile e comprensibile da parte di un gruppo ristretto di praticanti, “professionisti” per l’appunto. L’analisi di Goodwin parte dalla pratica archeologica sul campo e osserva come l’utilizzo di alcuni artefatti cognitivi, quali ad esempio “buca di palo”, produca la pensabilità e la percettibilità di un elemento all’interno di una nebulosa complessa di elementi. Senza dubbio il caso del mio “probabile muro” che diventa “veramente un muro” dopo la mia pratica codificatoria è un ottimo esempio dell’applicazione di una visione professionale.

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Quel che mi interessa approfondire in questa sede è la portata esistenziale ed emozionale che questa pratica genera sugli individui che la incorporano e la interpretano.

In tal senso è senza dubbio indicativo che l’opera di pulizia, di messa in evidenza, che ho descritto, genera in me una gratificante sensazione di chiarezza percettiva che conferisce un soddisfatto senso di controllo e padroneggiamento del mondo. La nebulosa di elementi senza alcuna specifica relazione svanisce a vantaggio di uno spazio organico, in cui mi basta un colpo d’occhio per individuare la coerenza dei nessi, la connessione tra le diverse tracce precedentemente isolate in un mare di ipotesi e possibili connessioni, tutte (ri)prodotte dall’azione della mia mano e dalla mia tecnica61.

Ed ecco che, come ogni bravo archeologo dovrebbe fare, propongo una nuova ipotesi ricostruttiva e interpretativa del mio settore di scavo. Si configura un percorso che parte da “supposto muro”, attraversa il “è veramente un muro” e diviene «una stanza».

Si apre un nuovo scenario e una nuova organizzazione dello spazio e delle tracce dentro il settore di scavo che è individuale e allo stesso tempo collettiva.

Da un lato sperimento la gratificazione di aver reso tangibile un elemento prima letteralmente “impensabile”, dall’altro lato provo anche una singolare sensazione estraniante che verte tutta sull’approvazione della mia interpretazione da parte degli altri membri della squadra. Vorrei cioè che la mia interpretazione di “una stanza” fosse riconosciuta e legittimata collettivamente e soprattutto dallo sguardo di Giulio, il mio responsabile di settore. Ciò comporterebbe la certificazione del valore del mio personalissimo contributo all’impresa collettiva dello scavo. Ma così come c’è la certificazione esiste anche la smentita. E dunque la possibilità di veder svanire l’interpretazione di “una stanza” mi costringe a misurarmi con le incognite e le insicurezze. Quel che è in gioco non è solo la corretta ricostruzione archeologica, quel che è in gioco è l’approvazione collettiva di una capacità personale, cioè la ricerca di un riconoscimento che legittima e ufficializza la propria capacità di essere archeologi.

In tal senso è più opportuno pensare alla professionalità come un processo o come un ventaglio di capacità che completa gli individui, li (de)finisce, proprio nel senso che legittima il loro essere, li autorizza a fare gli archeologi.

61 Già durante la scrittura del diario di campo ho notato quanto fosse complicato descrivere esaustivamente le sensazioni

provate durante la mia opera di scavo senza ricorrere ad altre metafore esperienziali come il “linguaggio” del disegno o quello della cucina. L’annosa questione della differenza tra doxa e praxis (Bourdieu, 1972; Giddens, 1979). In virtù di una mia passata esperienza da disegnatore di fumetti ho notato quanto questa sensazione di realizzazione di un ordine attraverso una memoria della mano, caratteristica dello scavo archeologico, avesse più di un’analogia con il processo che, nel mondo dei fumettisti, va dallo schizzo a matita alla rifinitura a china. A partire da una incerta nebulosa di segni di matita, a volte tracciati esclusivamente per assegnare i possibili “ingombri” delle figure nella consapevolezza che successivamente saranno cancellati via, ad un’irrevocabile rifinitura a china che assegna dettagli e caratteri de-finiti e vividi alla rappresentazione.

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Giulio si avvicina alle strutture che ho “pulito”, scruta concentrato il terreno impugnando la sua trowel personalizzata, poi si volta, osserva silenzioso le strutture murarie più lontane, si china e con alcuni leggerissimi colpi di trowel saggia la consistenza dello strato a ridosso del “supposto muro” «mettendo in risalto» un «lacerto di cocciopesto». La tensione che avverto è palpabile, Giulio si gira verso di me e mi spiega: «potrebbe essere un ambiente di servizio». Si tratta di una conferma ancorché non definitiva della mia interpretazione di “una stanza”.

Posso tirare un sospiro di sollievo e sorridere soddisfatto.

Quel che sto cercando di descrivere con questo mio resoconto personale è però un insieme di incognite e aspettative condivise dai partecipanti agli scavi archeologici didattici nei quali ho lavorato. Mi è sembrato fosse molto più stimata la capacità di saper fare ordine tra le diverse tracce, cioè “leggere gli strati”, che la possibilità di poter entrare in contatto con i reperti.

Come mi spiega Giulio:

G. «Facendo il responsabile ho anche il compito di gestire. Però una cosa che mi caratterizzava assai è che io ogni tre secondi… Perdo più tempo a capire quello che sta uscendo e farmi i filmoni, a capire i rapporti tra gli strati… a capire che è successo, a capire il contesto, perché lo strato tu lo stai distruggendo. E se tu non carpisci tutte le informazioni mentre stai facendo quell’azione va perso un dato che potrebbe essere fondamentale. È per questo che io oggi ho perso molto tempo a ragionare su due strati di merda. Perché fondamentalmente io mi rendo conto che noi stiamo andando a distruggere. Se tu fai con superficialità… vai a giocare con la sabbia altrimenti».

F. «A cosa pensi quando ti mancano gli elementi per definire un contesto?»

G. «Tipo non capire una mazza?»

F. «Sì.»

G. «É una sfida. Un po’ mi dispiace perché quando sento che mi sta sfuggendo qualcosa per me è una sfida cercare di capire quello che sta succedendo, quello che è successo. Tipo io ho un cruccio, cioè il fatto che non riesco a capire bene che caspita sta succedendo in quello strato che stiamo scavando in questi giorni. Io cerco di immaginarmelo. Come se immaginassi un film che mi fa vedere quello che è successo in quell’area. E c’è qualcosa che mi sfugge. Ed è per questo io mi confronto spesso con persone che stimo particolarmente. Ci sono delle persone molto intuitive. Sono rimasta scioccata con alcune persone. Tu li vedi che si immedesimano nell’ambiente e cercano di capire quello che è successo. Ma a livello di persone! Non cose

101 inanimate come le statue. Sono persone che rappresentano quello che dovrebbe essere un archeologo. È una sfida, capito?»

L’ultima frase di Giulio descrive bene il quadro valoriale in cui deve collocarsi un archeologo. Non basta il tatto, né la tecnica unita alla dissipazione di energia; questo ethos dell’onore archeologico contempla l’esistenza di una “natura superiore”, quasi sempre dipinta con i caratteri dell’istintività animalesca e superumana. Esiste un universo invisibile che solo pochi sensi archeologici riescono a ad “annusare”. È in questo senso che un altro responsabile mi racconta della sua mutazione in «animale da scavo»:

«Tu considera quando c’è lo scavo io la mattina mi sveglio e vivo in funzione dello scavo. La mattina mi sveglio, prendo il caffè e inizio a pensare. Una scena abbastanza standard è io che sto fissando un settore, qualcuno passa e io: ʻallora, devi fare questo… questo… e quest’altroʼ. […] hai visto, in questo momento ci stanno aperti settori molto simili. Cioè tutti settori con strati relativamente recenti, molto sabbiosi, strutture solide, etc. Quando invece vai a scavare strati di VIII, a parte qualche eccezione, è solo terra. Anche le strutture sono fatte di terra. Sono fatte con pali di legno però non trovi quasi mai il palo di legno. Trovi la buca in cui stava il palo riempita con altra terra, che in genere è molto simile. E quando trovi un muro, trovi una fossa rettangolare riempita di terra molto dura, molto pulita, che riconosci come muro di argilla. Però se tu ti affacci in un settore appena hai tolto l’ultimo strato, sopra a questa cosa vedi una cosa di marrone verde. Se poi ti metti lì a grattare con la trowel inizi a trovare le cose… Se uno non sa cosa stai facendo pensa che tu lì disegni. Allora, un giorno avevamo scavato queste fasi di IV a.C. e c’era una di queste masse di terra indistinta. È venuto il direttore e mi ha detto, ʻguarda lì, ci stanno dei buchi di palo, vai là e pulisci. Non rompere, vai giù, pulisci…ʼ. Sono stato un’ora dentro quel settore a girare come un cane da tartufo. E poi sono risalito a vedere la cosa da sopra. In quel momento c’erano il responsabile e il direttore di scavo. Il responsabile si gira verso il direttore e le urla: ʻabbiamo creato un mostro!ʼ, ah ah ah! Perché l’individuare ogni piccola cosa è un fatto in cui si punta molto sullo scavo, sulla stratigrafia. Ecco, quel momento lì, quando il settore è tutto uguale, devi entrare, vederlo, tirare fuori quello che è in realtà… quella è la parte che preferisco.»