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CAPITOLO 6 POLITICHE DEI GOLEM

3. Occidenti

Finalmente il 6 agosto è arrivato. È una giornata storica per la città di Ranae. Per la prima volta, dopo 2000 anni, nell’antico teatro romano si assiste alla messa in scena di uno spettacolo.

Solo qualche mese prima l’area del teatro era quasi completamente ricoperta da una fitta vegetazione con alcuni alberi che lasciavano solo intravedere alcune parti della struttura monumentale. Ma l’ormai tradizionale interesse dell’amministrazione per il patrimonio archeologico di Lumache ha fatto sì che si procedesse ad una eradicazione delle piante e alla pulizia del teatro funzionale anche alla puntuale indagine archeologica. Finalmente, la giornata del grande evento è arrivata e in molti sono qui giunti da ogni parte del circondario, qualcuno persino da Rane il cui confine comunale corre a meno di 10 metri dal teatro, dall’altro lato della carreggiata della Via Latina. L’allestimento della rappresentazione si caratterizza per delle interessanti suggestioni a cominciare dall’ubicazione del pubblico in una collocazione completamente rovesciata rispetto alla norma. Più di qualche spettatore, senza accennare a particolari accorgimenti di sicurezza e conservazione (fisiologiche data la delicatezza della struttura), fa riferimento a questa sorta di singolare scambio di ruolo tra protagonisti e spettatori. Mentre il pubblico si accomoda su delle sedie puntualmente collocate nell’orchestra del teatro, i pochi attrezzi di scena vengono sistemati lungo la monumentale cavea sopravvissuta allo scorrere del tempo e prontamente risistemata dopo diverse settimane di analisi archeologiche. Ed è proprio lungo quelli che dovevano essere gli spalti dell’antico teatro che gli attori portano in scena le grandiose vicende dell’antica Roma. Del resto, già dal titolo dello spettacolo, Passione e Potere nell’Impero. La Roma che non avete mai visto, non v’è alcun dubbio che stiamo per vederne delle belle.

Ed ecco che sul farsi della sera, con un’orchestra gremita di spettatori, fra luci e musiche suggestive, fa ingresso sulla cavea del teatro romano di Ranae la tormentata relazione tra Marco Antonio e Cleopatra, seguito da un Adriano affranto d’amore per Antinoo, e quindi un Caligola talmente pazzo di potere da attribuire chissà quale carica politica al suo fedele cavallo Incitatus. Lo spettacolo, citando più o meno esplicitamente brani di Shakespeare, Camus e Yourcenar richiama tutta una serie di tematiche inerenti al grande dibattito sui diritti civili in Occidente e alle relative

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gerarchie di valori: le unioni non riconosciute dalla legge (Marco Antonio e Cleopatra), l’omofobia (Adriano e Antinoo), il femminicidio (Caligola che uccide Cesonia).

Lo spettacolo termina tra scroscianti applausi e il microfono passa al sindaco di Lumache il quale, quasi commosso dopo aver seguito lo spettacolo in prima fila, ringrazia il pubblico e le diverse autorità giunte spiegando:

«Abbiamo rotto l’incantesimo questa sera, abbiamo fatto rivivere questo teatro di Ranae dopo 2000 anni. Noi siamo soddisfattissimi, abbiamo sfidato le intemperie. Non pensavamo che si sarebbe riuscito a tenere proprio per la pioggia e il freddo un po’ eccessivo [che c’è stato in questi giorni]. Abbiamo visto passare davanti a noi secoli di storia. Più che secoli decenni di storia, storia romana. Imperatori famosissimi […] Marco Antonio, le sue vicende, il suo rapporto con la regina d’Egitto, poi Caligola e poi Adriano. Quindi, questi uomini che hanno fatto la storia del mondo, li abbiamo rivissuti come uomini, con le loro debolezze. Eppure… il miracolo a cui io pensavo mentre io assistevo a queste splendide scene [è che] questi uomini hanno fatto la storia, perché l’Impero Romano era veramente un Impero mondiale! Che si estendeva dal Caucaso fino al Portogallo e poi nel nord, fino alla Germania e via dicendo. Stiamo faticosamente riportando alla luce questa città, vogliamo farla rivivere perché crediamo a quello che ci hanno lasciato i Romani, la Civiltà Romana. A quello che noi dobbiamo alla Civiltà Romana, a queste mura, a questi resti, a tutto quello che noi calpestiamo. Per noi farlo rivivere è già una grande soddisfazione. […] Vogliamo continuare su questa strada, diamo a questo territorio… facciamolo rivivere e facciamolo valorizzare per rivivere quello che è stato. Siamo sulla Via Latina, questa grande arteria che collegava Roma con il Sud. Il teatro, l’anfiteatro di Ranae che sta a pochi passi e che meriterebbe di essere riscoperto. Questa è una grande città romana che merita la nostra attenzione e il nostro impegno. Io posso soltanto ribadire l’impegno della mia amministrazione che ho l’onore di guidare e tutta l’amministrazione che oggi era presente.»

Ciò che emerge dalle parole del sindaco è il valore profondamente pedagogico che possono rivestire i resti di questa antica città romana nel territorio del comune, così come nel territorio della Contea. Durante il suo intervento per la celebrazione del decennale di scavi archeologici del sito di

Ranae egli spiega che «la città romana che sta faticosamente tornando alla luce» vuole fornire un

modello di vita per le giovani generazioni:

«Perché le giovani generazioni di oggi vengono distratte dai social, da questa benedetta tecnologia e devono saper ritrovare sé stessi. E dove possono saper ritrovare sé stessi? Nelle cose belle. Quindi c’è bisogno di una rieducazione del gusto e della bellezza, il gusto della bellezza che è fondamentale nella vita di ogni uomo e che non è facile far nascere. Non è facile far affermare.

162 Non è facile diffondere. […] tutti quanti abbiamo letto, abbiamo studiato un po’ di storia, eccetera… e noi tutti quanti, ricordiamo come sulla riscoperta del Mondo Classico è nata una grande civiltà: la Civiltà dell’Umanesimo. La Civiltà del Rinascimento che si è diffusa su tutta l’Europa. Quindi la nostra civiltà è quella dell’Umanesimo, quella che è nata sulla riscoperta dei valori della Civiltà Classica, delle bellezze della Civiltà Classica, sulla riscoperta dei codici antichi che allora andava tanto di moda e che creava tanto entusiasmo. Allora, ben vengano queste riscoperte […] che portano alla ribalta un bene archeologico, portano alla ribalta un modello di vita. Un modello di vita, sì! Un modello di vita che non è tramontato! [Poiché] Noi oggi non abbiamo scoperto granché, la tecnologia… eccetera, ci rendiamo conto che rispetto ai modelli antichi, [la tecnologia] non ha scoperto nulla. Anzi, molte volte [la tecnologia] ha fatto passare [le cose] con troppa superficialità.»

Il modello di vita promosso dal discorso del sindaco si imposta sulla capacità di riconoscere un orizzonte valoriale definito che è sostanzialmente quello della Civiltà Classica. Ma questa accezione del passato romano, naturalizzato ed elevato al rango impareggiabile di valore supremo, si caratterizza per questo singolare capacità di far piazza pulita di ogni elemento distintivo locale in misura direttamente proporzionale all’individuazione e all’adesione di Ranae al mondo romano. La Roma misura del Mondo sancita dalla messa in scena delle imprese di Marco Antonio, Cleopatra, Caligola e Adriano è troppo ingombrante per la Ranae misura del mondo. Quest’ultima è quasi costretta a soccombere, un po’ come i giovani abitanti di Lumache che “testardamente” non apprezzano il linguaggio dell’archeologia e dei beni culturali.

Lungi dall’essere il frutto di un preciso contesto culturale e sociopolitico, il godimento estetico per “la Bellezza del Mondo Antico”, tutto rigorosamente con la maiuscola, è descritto come un risultato naturale, l’esito di un processo essenzialmente fisiologico.

Il discorso assume toni piuttosto paternalisti e a volte si avverte il risentimento che si prova in tutte quelle occasioni durante le quali coloro i quali non partecipano al senso comune dei beni culturali andrebbero forzosamente ricondotti al “naturale” apprezzamento della bellezza. Secondo tale prospettiva i giovani della Contea devono distogliere i loro occhi dallo smartphone, ammirare le rovine di una città di duemila anni fa, ritrovarvi le tracce dell’operato di, poniamo Adriano e Augusto, e avvertirne intimamente il valore nonché il carattere di risorsa decisiva per il territorio e per la loro stessa vita locale. Il (ri)conoscimento del passato e la (ri)connessione con l’identità più autentica dell’Occidente, cioè “di ciò che siamo veramente” giovani e meno giovani, passa attraverso l’adesione a quella gerarchia del valore globale di cui parla Micheal Herzfeld (2004) e che, più o meno esplicitamente, condanna al rango inferiore di disordine, sporcizia e inadeguatezza tutte quelle manifestazioni che non sembrano aderire a questo orizzonte di senso. Come ho già mostrato in un

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precedente capitolo questo ruolo di figura del disordine nella Contea è senza dubbio personificato dal cosiddetto metalmezzadro il quale è destinato ad effettuare una scelta identitaria, valoriale e professionale inequivocabile se non vuole soccombere sotto la coltre di sporcizia che il suo essere immediatamente richiama e che ne sancisce la sua auto-dannazione.

Ma esiste una ulteriore chiave di lettura rintracciabile nel modello di vita classico proposto dal sindaco e che a mio parere intercetta in pieno il senso comune tipico del mondo della Cultura Italiana, anche qui, rigorosamente con la maiuscola e “naturalmente” in senso ciceroniano. Mi riferisco a questo ventaglio di prospettive, pratiche e valori naturalizzati che fanno scattare ciò che ho precedentemente definito trappola scientista. Anche in questo caso il dispositivo che sancisce l’alleanza tra gerarchia del valore globale e gestione del potere locale sembra funzionare senza particolari intoppi. Da un lato le pratiche e le rappresentazioni globali della conservazione e della valorizzazione del patrimonio culturale innescano dei processi di valorizzazione nei territori con risultati tra più disparati; dall’altro lato l’adesione a questo orizzonte di senso da parte dei promotori locali, quasi sempre attori dell’arena politica, si gioca spesso sulla costruzione e lo sfruttamento di uno scarto differenziale rispetto ai loro diretti avversari locali.

Ecco che i linguaggi dei beni archeologici, con il loro portato di valori, pratiche e sensibilità, diventa una serie di formidabili trappole dentro le quali inesorabilmente cadono i nemici che mettono in dubbio la validità di questo sistema.

Un sistema legittimato dalle Scienze Archeologiche, dalla macchina magico-istituzionale dello Stato e dalla quotidiana retorica oggettivante ed essenzializzante dei beni culturali. Meccanismo classico dell’egemonia, a Lumache e Rane come dentro il Colosseo di Roma, negli scavi di Pompei, tra le rovine del Partenone o dell’Antica Babilonia, chiunque proponga o pratichi delle alternative è destinato alla dannazione, ad una vita di indecorosa contemplazione del vuoto o della bruttezza.

Per quanto riguarda il contesto di Lumache, l’esito delle battaglie incentrare sulla critica al potenziamento del sito archeologico di Ranae è piuttosto scontato. Quando il sindaco, nel suo discorso, fa riferimento al flusso di investimenti, sinergie, posti di lavoro e abbellimenti che il sito archeologico è stato capace di catalizzare sta implicitamente rispondendo alla classica critica che gli viene mossa da alcuni suoi abitanti, secondo i quali, l’investimento di un simile volume di risorse e impegno su «quattro pietre» scavate sarebbe esclusivamente un grosso spreco di denaro pubblico: «tutti ‘sti soldi buttati appress’ a ‘ste quattro pretre, ma ‘jamm’», “tutti questi soldi buttati su queste quattro pietre, ma andiamo”.

Ma anche la trappola più formidabile può essere aggirata e il potere troppo potente può essere contestato attraverso il medesimo linguaggio di cui si fa paladino. Questo lo sanno bene nella Contea,

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tant’è che le critiche agli attori del campo archeologico, in primis agli amministratori, fanno perno proprio sul carattere oscuro e nebuloso che le loro pratiche sembrano mostrare.

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