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CAPITOLO 2 L’ANTROPOLOGO SCARRIOLANTE

1. Rimodulare passioni

Uno degli aspetti che più salta agli occhi dell’etnografia di uno scavo archeologico realizzata da Matt Edgeworth (2003) è che, curiosamente, lo studioso inglese non fa mai riferimento alla sua posizione in merito al senso della pratica archeologica. Forse in ragione della sua formazione archeologica, o forse per via della sua visione sviluppista dell’etnografia dell’archeologia, il suo resoconto etnografico presenta la medesima freddezza sociale dei lavori di sociologia della scienza a cui si richiama23. Si tratta di studi che in alcuni casi fanno della “non partecipazione” all’universo

della disciplina che si studia una delle più efficaci garanzie di “oggettività”. È in questa prospettiva che Bruno Latour e Steve Woolgar (1979) parlano di antropologia della scienza paragonando l’etnografo che va a studiare la cultura di un popolo sconosciuto a quella del sociologo che va a studiare la sconosciuta cultura di un laboratorio. In questa sorta di “sguardo da lontano vicino” proprio la mancata padronanza del senso comune che fa dire e fare “cose scientifiche” renderebbe evidente all’analista il processo di costruzione sociale che vi sottostà. Con tutte le perplessità che si possono esprimere sul concetto di cultura che si disvela sulla base delle “stranezze” che ci sottopone, una simile chiave di lettura corre il rischio di mancare completamente il bersaglio del senso culturale di questi processi (Geertz, 1973).

Ancora una volta siamo perseguitati da questa idea glaciale di scienza. Sappiamo tutto dell’itinerario di produzione di un fatto scientifico. Non sappiamo nulla del ruolo che ha quella professionalità scientifica sulla soggettività dello scienziato che lo fa. Ed effettivamente queste etnografie dei laboratori hanno il grande limite di focalizzarsi sul laboratorio come un insieme chiuso, un po’ come la stagione delle etnografie dei villaggi e delle culture monolitiche, isolate ed autonome.

23 Mi riferisco agli studi di laboratorio sorti in contrapposizione alla scuola mertoniana (Merton, 1973). Il loro maggior

merito è quello di aver spostato lo sguardo da una sociologia delle metodologie scientifiche ad una analisi dei luoghi e delle pratiche scientifiche (Latour, 1987; Gilbert e Mulkay, 1984; Knorr-Cetina, 1981; Latour, Woolgar, 1979; per una panoramica generale si veda Cerroni e Simonella, 2014). È interessante osservare quanto il dibattito post-processualista sull’archeologia abbia tratto spunto dagli studi di sociologia della scienza, specialmente per quanto riguarda il social

constructionism che ha messo in discussione il carattere naturale e ontologico dei fatti del mondo partendo dagli studi

sull’oggettivismo scientifico nei laboratori. Le ricerche di archeologia riflessiva, in particolar modo i lavori etnografici di Edgeworth (2003) e Abu El-Haj (2000), hanno attinto a piene mani da queste esperienze di ricerca sociale sulle scienze dure poiché nel panorama anglosassone il positivismo della New Archaeology aveva raccolto molti più consensi (Trigger, 1996; Shanks e Tilley, 1987, 1987b). Da questo punto di vista il panorama italiano degli studi di archeologia è rimasto molto più ancorato ad una tradizione profondamente storico-artistica (Barbanera, 2015, 1998).

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Insomma, si finisce per leggere la scienza come un’attività biecamente strumentale all’ottenimento di un credito all’interno del laboratorio24.

Eppure, non bisogna buttare il bambino con l’acqua sporca.

Il suggerimento che è possibile trarre dagli studi di laboratorio è studiare la scienza archeologica in fieri, osservando il continuo processo di manipolazione poetica dei “reperti” (Hamilakis, 2007; Hodder, 2000). L’idea è che esista un sottofondo di significati densi, ingarbugliati ma potenti, che agiscono nella profondità dei soggetti che praticano una disciplina scientifica. Significati che è impossibile cogliere nel “prodotto scientifico” terminato, perché a quel punto è già avvenuto un processo di depurazione del “contingente” (Gilbert e Mulkay, 1984), tanto più se quella disciplina – come l’archeologia – presuppone un disomogeneo rapporto tra chi scava e maneggia i reperti e chi pubblica i risultati scientifici (a volte anche dopo anni, se non decenni, di distanza). Se si limitasse l’analisi all’ambito storico-critico, cioè ai prodotti archeologici terminati come articoli o anche solo a tutta quella mole di dati documentari che vengono costantemente prodotti durante uno scavo25, d’improvviso svanirebbe completamente la possibilità di cogliere tutto un universo di senso che ha un ruolo nient’affatto marginale.

Mentre il linguaggio dei sapienti archeologi è rigido, il linguaggio di chi sta nello scavo è malleabile e presenta “complessità logiche non sospette di formalizzazioni sapienti” (de Certeau, 2010, pag. 41).

Ne consegue l’esigenza di una etnografia attenta alla dimensione dell’evento, del contesto e di quella che si potrebbe definire “dimensione giocosa della pratica professionale”. Se da etnografo mi risulta davvero complicato lavorare in un contesto con la medesima partecipazione di una mosca dentro una sala del Conseil d’Etat (Latour, 2010), diventa ancora più difficile pensare di intraprendere un’etnografia all’interno di un contesto che gode di un immaginario diffuso, ancorché frainteso (da Indiana Jones ad Alberto Angela).

Un immaginario innanzi al quale non sono affatto “immune”.

Sarebbe dunque vano fingere un distacco oggettivo per accreditare una conoscenza pura. Tanto più che, come cercherò di dimostrare, una parte significativa dei significati archeologici

24 L’introduzione del concetto di campo scientifico da parte di Bourdieu è intesa proprio a suggerire una dimensione

sociale che travalica l’aspetto dell’interazione contestuale: “Si vede subito che il laboratorio è un microcosmo sociale situato in uno spazio che comporta altri laboratori costitutivi di una disciplina (a sua volta situata in uno spazio, anch’esso gerarchizzato, delle discipline) e che deve una parte molto importante delle sue proprietà alla posizione che occupa in tale spazio. Ignorare questa serie di intrecci strutturali, ignorare questa posizione (relazionale), insieme agli effetti di posizione correlativi, significa esporsi, come nel caso della monografia di villaggio, a cercare nel laboratorio principi esplicativi che si situano all’esterno, nella struttura dello spazio all’interno del quale il laboratorio è inserito. Solo una teoria globale dello spazio scientifico, come spazio strutturato secondo logiche insieme generiche e specifiche, permette di capire veramente l’uno o l’altro punto di tale spazio, laboratorio o ricercatore singolo” (Bourdieu, 2003, pp. 47-48).

25 Schede di Unità Stratigrafica, matrix ricostruttivi, piantine, foto, diari delle quote, diari di scavo etc. Si vedano i manuali

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professionali si svolge negli interstizi tra la sfera intima e la sfera pubblica. Per tale ragione vale la pena esplicitare fin da adesso la mia traiettoria di avvicinamento e accesso al mondo dell’archeologia così da aderire alla strategia bourdieusiana di autoanalisi esplicitando le caratteristiche del mio punto di vista (Bourdieu, 1972).

Inutile nasconderlo: l’universo archeologico mi affascina fin da quando ero adolescente. Ricordo l’estremo piacere provato nel rileggere passi di Strabone, Polibio ed Erodoto che si riferivano alla Magna Grecia come un posto affatto marginale nello scacchiere delle superpotenze dell’Antichità. Per un giovane e problematico quattordicenne trasferitosi a Roma da una minuscola realtà agropastorale calabrese, quel richiamarsi ad un qualche immaginario fondamentale, nel senso di ciò che fonda, esercitava un’attrazione non indifferente (Cozza, 2018b). Tanto più se l’immaginario sembrava avere dei resti “tangibili” a qualche chilometro dal campetto in cemento e ciottoli sul quale si tentava di giocare a pallone (ma senza tirare troppo forte onde evitare che il pallone superasse la rete per finire in qualche strapiombo o in qualche porcile). Una volta a Roma, subito imparai a adorare la magnificenza dei monumenti romani. Ricordo le passeggiate fatte in combutta con un mio compagno di scuola nell’area dei fori (quando era ancora liberamente accessibile!). Oggi mi fa un po’ ridere pensare che il 21 aprile marinavamo la scuola per andare a vedere la rievocazione della fondazione di Roma. Un evento organizzato in un parchetto anonimo a pochi passi dall’Appia (rigorosamente moderna), con la presenza di più comparse che pubblico. Inoltre, andavamo a curiosare sulla tomba di Cesare sempre arricchita di fiori freschi o “guardavamo” con ammirazione la zona dei ruderi intorno al Comizio abbellito dai Rostra, queste prue di navi nemiche sconfitte ed esibite allo sguardo del popolo romano di Duemila anni fa (e al nostro sguardo immaginifico). Non esito a definire commovente la prima volta che ebbi occasione di vedere dal vivo il Colosseo26.

Ma oggi tutto questo universo di senso non è sparito, tutt’altro. Si è rivelato fondamentale ai fini della mia etnografia.

Impossibile non agitarmi quando ci viene controllata tutta l’attrezzatura di sicurezza. Sono invaso dal timore che avere qualcosa di “non consono” può vanificare la mia partecipazione agli scavi. Impossibile non emozionarmi quando mi capita di trovare una lucerna tardoantica intatta con i segni della combustione talmente vividi da sembrare spenta da pochi giorni. Impossibile non

26 Perché non ho intrapreso un percorso storico-archeologico? Perché con un diploma di mastro vetraio di un Istituto

d’Arte pensai che le mie lacune nel campo delle lingue antiche fossero irrecuperabili e immaginai che questo fosse un gravissimo handicap; perché ho sempre avuto un irrisolvibile incapacità nel cimentarmi in tutte quelle materie che richiedono una specifica preparazione nel campo dei numeri, della geometria e delle formule; perché ho sempre subito il fascino per lo studio di quelle che all’epoca chiamavo credenze e oggi modi di vita. Per quanto riguarda i criteri per diventare archeologo mi sbagliai quasi su tutto, fortunatamente. E scelsi un percorso etnoantropologico, probabilmente perché questo ha risposto alle mie domande sul concetto di “diverso” in maniera molto più sensata ed approfondita di qualsiasi altra disciplina, dovendo fare i conti continuamente tra una sensibilità umanistica con istruzione universitaria a Roma e un’identità di allevatore di bestiame in Calabria.

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emozionarmi quando trovo la mia prima moneta, un asse augusteo. Impossibile non emozionarmi quando il mio compagno di settore intercetta un frammento ceramico con sopra la raffigurazione della dea Fortuna. Impossibile non emozionarmi quando, l’ultimo giorno del turno, saluto una compagna di scavo sapendo che molto difficilmente l’avrei mai più rivista. Celare questo mondo di emozioni in nome dell’oggettività etnografica significherebbe fare un torto proprio a quel tentativo di oggettività situata che può arricchire la riflessione (Aria, 2007; Tedlock, 1991; Rosaldo, 1989).

La sfida etnografica è proprio quella di mostrarle e mostrarmele. L’idea è che la denaturalizzazione e la complessificazione di queste “banalità”, di queste tattiche di bracconaggio (de Certeau, 1990), queste poetiche sociali (Herzfeld, 1997, 1985) e questi giochi professionali, che io condivido con “i miei indigeni”, possano illustrare con maggiore forza la densità della pratica archeologica romana nell’Italia di oggi.