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CAPITOLO 1 IL SOCIALE E L’ARCHEOLOGIA

3. Il dibattito anglosassone

A partire dalla fine degli anni Cinquanta, negli Stati Uniti, si sviluppa una corrente di studi che si prefigge il preciso obbiettivo di trasformare l’archeologia in una scienza simile all’antropologia. Ma coloro i quali si aspettano di vedere un’archeologia attenta all’analisi contestuale, in adesione alla migliore tradizione boasiana, sono ben presto delusi.

Il titolo di caposcuola spetta a Lewis R. Binford che nel 1962 pubblica un saggio significativamente titolato Archaeology as Anthropology. L’antropologia che ha in mente è quella del filone Neo-Evoluzionista e Materialista di Leslie White (1949), del quale Binford è allievo, e di Julian H. Steward. Il cuore del paradigma è che la cultura è il risultato extrasomatico di un adattamento all’ambiente circostante. “Social Systems are […] determined by technological systems, and

11 L’Italia gode di una tradizione di studi di cultura materiale assai consolidata specialmente dagli studiosi di Demologia

e di Storia delle Tradizioni Popolari. Senza dubbio il ruolo di caposcuola spetta ad Eugenio Cirese (1973; 1977). Proprio da questa scuola, a cavallo del millennio, si sviluppano nuove proposte che intendono riconfigurare la disciplina in seno ad un’antropologia culturale riflessiva (Clemente e Mugnaini, 2001; Dei, 2002; Palumbo, 2003). Da segnalare i dibattiti che si sviluppano intorno alla rivista Antropologia Museale (Padiglione, 2002, 2003; Clemente, 2003; Palumbo, 2002, 2003b; Dei, 2002b; Lattanzi, 2003;). Per una panoramica si veda almeno Maffi, 2006; Padiglione, 2008; Iuso, 2011; Bonetti e Simonicca, 2016.

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philosophies and arts express experience as it is defined by technology and refracted by social system” (White, 1949, pag. 390). Il grande nemico di White è il libero arbitrio ed egli è mosso

soprattutto dal desiderio di eliminare l’influenza del sociale dall’analisi dei meccanismi di mutazione che egli attribuisce esclusivamente a ragioni di adattamento naturale12. In questa prospettiva la cultura materiale riflette perfettamente la struttura sociale come un calco in gesso. La New Archaeology, definita anche Archeologia Processuale, che Binford propone, poi avallata con diverse sfumature da altri studiosi importanti come Colin Renfrew (1978) e Bruce Trigger (1968), si propone dunque di rintracciare le implicite regolarità umane mediante l’analisi dei reperti attraverso l’uso intensivo delle più moderne strumentazioni scientifiche. Lo scavo diventa una sorta di laboratorio nel quale condurre esperimenti inferenziali e registrare ingenti dati biometrici. La fiducia nell’oggettività del sistema è talmente forte da far coincidere spesso la spiegazione di un fenomeno con la sua previsione, qualsiasi tipo di particolarità storico-contestuale viene espunta, compreso il punto di vista del ricercatore che nella veste di gelido scienziato si limita a proporre alla comunità scientifica i risultati dei suoi esami. Come spesso accade nei dipartimenti anglosassoni archeologia e antropologia si incrociano e capita loro di influenzarsi vicendevolmente cosicché i grandi scontri tra paradigmi sembrano travalicare gli steccati disciplinari.

È così che nel periodo di massimo splendore della New Archaeology iniziano a diffondersi i richiami alla riflessività di Clifford Geertz (1973) e Pierre Bourdieu (1972), richiami subito accolti dalla scuola fondata da Ian Hodder in Gran Bretagna e da molti battezzata archeologia post- processuale. Prospettiva di studi che vede la luce nel 1980 a Cambridge durante un convegno dal titolo Symbolism and Structuralism in Archaeology (Hodder, 1982).

Le diverse proposte di questi studiosi vertono tutte sull’esigenza di superare la visione castrante della cultura come adattamento ecologico. Sono gli anni di un generale ripensamento delle discipline umanistiche e scientifiche e della stessa concezione di realtà e verità (Knorr-Cetina, 1981; Latour e Woolgar, 1979; Feyerabend, 1975). Ritornano al centro delle discussioni archeologiche la nozione di struttura, nelle versioni ripensate da Bourdieu (1972) e Giddens (1979) più che in quelle lévistraussiane13, la nozione di significato, riflessività e il groviglio di questioni ermeneutiche che ne sono l’ineludibile corollario,

12 In molti hanno voluto individuare in questa espulsione del cambiamento sociale dall’analisi scientifica la precisa

esigenza di questi studiosi statunitensi di distinguersi da un paradigma dalle tinte chiaramente marxiste negli USA attraversati dalla caccia alle streghe del Maccartismo.

13 Proprio nel testo programmatico del 1982 Hodder critica il grande etnologo francese per la sua concezione della struttura

come di un qualcosa che non tiene in conto la teoria della pratica. Il risultato è un azzeramento delle possibilità di cambiamento nonché un imprigionamento dell’individuo. Hodder spiega: “Lévi-Strauss identifies a series of unconscious mental structures which are separated from practice and from the ability of social actors to reflect consciously on their ideas ad create new rules. In both linguistic and structural analysis it is unclear how the interpretation and use of rules might lead to change. How an individual can be a competent social actor is not clearly specified. As in functionalism, form and practical function are separated.” (Hodder, 1982b, pag. 8).

36 “The structural and symbolic emphases lead to an awareness of the importance of ʻcontextʼ in

interpretations of the use of material items in social processes. The generative structures and the symbolic associations have a particular meaning in each cultural context and within each seat of acrivities within that context. Although generative principles such as pure/impure, or the relations between parts of the human body, may occur widely, they may be combined in ways peculiar to each cultural milieu, and be given specific meanings and associations. The transformation of structures and symbols between different contexts can have great ʻpowerʼ.” (Hodder, 1982b, pag.

9, enfasi dell’autore).

Oggi il discorso di Hodder può sembrare piuttosto scontato, forse addirittura banale ma nel clima dei primi anni Ottanta la pubblicazione degli atti del convegno di Cambridge assume invece le sfumature di una decisiva rottura con paradigma processualista della New Archaeology.

“Man’s actions and his intelligent adaptation must be understood as historically and contextually

specific, and the uniqueness of cultural forms must be explained. It is only by accepting the historical and cultural nature of their data that archaeologists can contribute positively to anthropology, the generalising study of man. The papers in this volume also react against the rigid logico-deductive method that has become characteristic of much New Archaeology. Explanation is here not equated solely with the discovery of predictable law-like relationships but with the interpretation of generative principles and their coordination within relevant cultural contexts.” (Hodder, 1982b, pp. 13-14, enfasi dell’autore).

Con il ritorno del contestuale e dell’interpretazione, e dunque con il ritorno del sociale, non può che tornare prepotentemente anche il carattere socialmente condizionato della conoscenza nonché il risultato del Sapere Archeologico nei contesti in cui opera14. Tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta le archeologie anglosassoni, cioè quelle che più frequentemente operano in contesti “indigeni” o “non occidentali”, producono una cospicua mole di lavori che hanno per oggetto l’ineludibile relazione tra sapere e potere, immaginazione archeologica e nazionalismo. Affronterò nel paragrafo successivo quest’ultimo tema, per adesso è importante collocare in tale solco e in quello relativo al tema del dibattito americano e australiano sull’archeologia nei contesti “indigeni”, le riflessioni hodderiane circa l’applicazione del metodo riflessivo all’interno della ricerca archeologica.

14 La svolta paradigmatica è testimoniata dal primo World Archaeological Congress tenutosi a Southampton nel 1986 e

deliberatamente ispirato ad un’idea di archeologia attenta alle problematiche delle comunità indigene oggetto di interesse archeologico così come alle implicazioni nazionaliste o discriminatorie del sapere archeologico. Si veda Ucko, 1987.

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A partire dalla fine degli anni Novanta Ian Hodder e i suoi allievi sono i protagonisti di un rinnovato sforzo epistemologico deputato allo sviluppo di un sapere archeologico fluido, flessibile e multivocale. Per la scuola di Hodder un’archeologia riflessiva che si occupa solo dell’interpretazione storiografica senza occuparsi dell’interpretazione “sul bordo della trowel”, cioè il modellamento interpretativo nel mentre dello scavo, è un’archeologia monca15.

Lo scavo di epoca neolitica di Çatalhöyük, in Turchia, rappresenta il luogo d’incontro e di dialogo tra vari addetti ai lavori archeologici e stakeholders più o meno locali. L’idea è quella di creare un iperluogo accogliente e polifonico smussando tutti quegli aspetti ineludibilmente connessi ad un’azione distruttiva quale è quella dello scavo archeologico (Shankland, 2000; Bartu, 2000)16.

Si tratta tuttavia di un campo di studi attraversato quasi sempre da archeologi riflessivi, gli etnografi delle pratiche archeologiche sono assenti17. Tutte le prospettive sembrano però condividere

implicitamente la tesi hodderiana della riflessività etnografica come analisi risolutiva dell’influenza del sociale sulla pratica conoscitiva dell’archeologia18.

Nelle pagine che seguono e nella seconda parte cercherò anche di far emergere alcune ingenuità presenti nell’approccio hodderiano laddove questo venga adottato acriticamente.

Frutto di una ricerca sul campo svoltosi in uno scavo inglese dell’età del Bronzo, durante l’inverno a cavallo tra il 1989 e il 1990, Acts of Discovery: An Ethnography of Archaeological

Practice, ha un impianto fenomenologico ed offre una minuziosa analisi etnografica della relazione

15 Scrive Hodder: “The key point is that excavation method, data collection and data recording all depend on interpretation.

Interpretation occurs at the trowel’s edge. And yet perhaps because of the technologies available to deal with very large sets of data, we have as archaeologist separated excavation methods out and seen the mas prior to interpretation. Modern data-management systems perhaps allow some resolution of the contradiction. At any rate, it is time it was forced and dealt with.”(Hodder, 1997b, pag. 2).

16È in questo clima culturale che prendono piede diversi e indipendenti tentativi di realizzare delle etnografie

dell’archeologia, Edgeworth sottolinea le “multiple origins” di questi lavori. Il testo di Edgeworth (2006b) offre una puntuale panoramica critico bibliografica sui diversi lavori realizzati in questo campo. Il ruolo di pioniere spetta a Dupree (1955) interessato agli aspetti socio-organizzativi dei piccoli gruppi di lavoro. Roveland (2006), Gero (1996) e Goodwin (1994, 2000, 2002, 2003) riflettono sui criteri di produzione della realtà archeologica e sul modo in cui le variabili di genere o di tipo linguistico-cognitivo ne influenzano l’andamento. Direttamente coinvolti nel progetto di Hodder (2000) sul sito di Çatalhöyük, Hamilton (2000) e Leibhammer (2000) si occupano di etnografare i processi di produzione delle rappresentazioni archeologiche e il loro carattere negoziale. Shankland (1997, 2000) e Bartu (2000) riflettono sui modi di praticare e rappresentare il sito archeologico da parte dei diversi stakeholders. Gli articoli contenuti nel volume curato da Edgeworth (2006) affrontano ed approfondiscono questi temi che definirei classici. In particolare, Yarrow (2006) si occupa del mutuo processo di produzione di identità dello scavo e identità degli archeologi approfondendo la sua nozione di “artifactual persons” (Yarrow, 2003). Holtorf (2006) e Carman (2006) si occupano degli aspetti socio-organizzativi e delle relazioni di potere dentro lo scavo.

17 Dalle riflessioni sul gender bias nello scavo (Gero, 1996), alle questioni linguistico-cognitive (Goodwin, 1994; Yarrow,

2003, 2006), passando per gli aspetti prassiologici, polifonici e relazionali (Hodder, 2000; Carman, 2006; Holtorf, 2006) mi sembra che il lavoro di Matt Edgeworth (2003, 2006) possa rappresentare un esempio paradigmatico di tutte le etnografie dell’archeologia svolte a cavallo del millennio.

18 Hodder è più volte intervenuto sulla questione della riflessività archeologica, smussando e riconfigurando alcuni punti.

Nel 2003 insieme a Berggren ha scritto: “One definition of reflexive archaeology is that it is an approach that tries to provide systematic opportunities for field archaeologists to engage in narrative construction and to provide critique of those narratives in relation to data and social context. The approach also tries to make the process of interpretation visible to help archaeologists as well nonarchaeologists reflect on how archaeological knowledge is produced.” (Berggren, Hodder, 2003, pag. 426).

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prassiologica (Bourdieu) e (ri)modellante che si instaura tra archeologo e materia durante lo scavo e che lui definisce appunto “acts of discovery”. L’esigenza di Edgeworth è quella di superare il paradigma del documento che accomuna prospettiva Processualista e prospettiva Post-Processualista. Il punto è che pensare all’archeologia come ad una pratica che cerca documenti da scoprire (Processualismo) o da interpretare (Post-Processualismo), finisce per celare tutto il lavoro di reciproco modellamento che impegna archeologo e materia grezza, il tutto ha un effetto nocivo sulla validità del sapere archeologico.

“The metaphor of material remains as RAW MATERIAL throws a very different light upon archaeological practice. It plays down the recording-relation between observable archaeological effects and past human action that was highlighted by the empiricist version of record-metaphor. Facts about the past are no longer seen as properties of the material record or text, which only have to be (passively) transcribed or read by archaeologists. Nor are facts regarded as wholly textual creations, fashioned out of nothing but the signs and grammar of textual discourse. On the contrary, facts about the past are (actively) produced in the present from the RAW MATERIAL of material remains.” (Edgeworth, 2003, pag. 7, enfasi dell’autore).

La principale missione dell’autore è quella di migliorare la ricerca archeologica attraverso una mappatura etnografica delle diverse fasi di scavo. Occorre rintracciare tutti quei momenti durante i quali “il meccanismo si inceppa” o “perde di vista” la complessità della faccenda.

Scrive Edgeworth:

“Emphasis throughout the fieldwork report will be on what diggers actually do and how they do it. Whereas most theoretical accounts of archaeological practice are prescriptive, the assumption here is that theory can learn a great deal from those who make practical (as opposed to wholly written) contributions of the production of archaeological knowledge, as well as the other way round.”(Edgeworth, 2003, pag. XIV).

Il testo di Edgeworth riflette tale preoccupazione anche per quanto riguarda la collocazione di una serie di dati piuttosto desueti per un’etnografia ma assolutamente comuni nei resoconti archeologici. Mi riferisco alla scelta di accompagnare al testo ben ventotto mappe e due tabelle che illustrano la forma e l’evoluzione dello scavo, la collocazione dei diversi archeologi con l’indicazione della direzione di scavo, la collocazione esatta dei rinvenimenti, l’itinerario dell’etnografo nonché il puntuale riferimento al luogo di svolgimento delle interviste, anche queste dotate di numerazione progressiva.

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Penso che il lavoro di Edgeworth possa essere inserito in un quadro “sviluppista” secondo il quale esiste l’archeologia ed esiste il sociale con la sua carica perturbativa. All’etnografia spetta il compito di comprendere il valore di questa carica e fornire i suggerimenti utili a riconfigurarla nelle modalità più efficienti. È senza dubbio una prospettiva fruttuosa, che ho trovato molto utile anche nella realizzazione della mia ricerca ma credo abbia il difetto di posizionarsi ad un livello di analisi che lascia inevase alcune questioni affatto marginali e cioè: chi sono gli archeologi? Perché fanno gli archeologi? Quali valori li muovono? Cosa “ci trovano” nell’archeologia?

Edgeworth, con gelida precisione, nella sua etnografia assegna una lettera dell’alfabeto ad ogni partecipante dello scavo così da segnalare la direzione di scavo di A e di B o la frase detta da F, tuttavia non sappiamo cosa A pensi degli esseri umani dell’Età del Bronzo che hanno lasciato le tracce che (ri)trova, non sappiamo se e perché B preferisca il lavoro di documentazione a quello di scavo, né sappiamo se e perché F abbia deciso di iscriversi ad archeologia in un momento tra i più difficili della sua vita.

Il rischio di questa prospettiva è, ancora una volta, quello della trappola scientista. Paradossalmente una concezione così meccanica della prassiologia, violentemente espunta dalla possibilità del bricolage poetico (Herzfeld, 1997) o dalle tattiche significative di bracconaggio (de Certeau, 1990), rischia di sfociare nella medesima aporia del positivismo che si sforza di combattere.