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CAPITOLO 1 IL SOCIALE E L’ARCHEOLOGIA

2. Il Patrimonio degli Italiani

Nato in seguito alla polemica italiana del 2002 sulla proposta di privatizzazione di alcuni beni culturali avanzata da Giuliano Urbani, all’epoca Ministro per i Beni e le Attività Culturali del Governo Berlusconi, il libro di Salvatore Settis intitolato Italia S.p.A. rappresenta uno dei più noti

pamphlet in difesa del carattere pubblico del patrimonio culturale (Settis, 2002).

Non è questa la sede per cercare di dirimere quella contesa, ciò che mi interessa è invece riflettere sulle (auto)rappresentazioni di patrimonio culturale che emergono dal libro e che rispecchiano, da Alberto Angela ad Andrea Carandini, il ventaglio di temi e problemi che tornano frequentemente nei discorsi dei miei giovani interlocutori giacché ne hanno incorporato la sensibilità dai primi anni di università o addirittura dalle prime letture divulgative adolescenziali.

Settis avanza le sue argomentazioni da una prospettiva che vede nell’iniziativa di Stato alla protezione la chiave di una accresciuta consapevolezza identitaria.

Scrive Settis:

“Secoli di esperienza, e il risultato è sotto gli occhi di tutti, un Paese pieno di problemi e di difetti, ma straordinariamente ricco di cultura e di storia, hanno fatto di questa cultura della conservazione una componente essenziale dell’essere Italiani; un dato culturale che, come i gesti e la lingua, si trasmette e si radica anche senza che ce ne accorgiamo. La nostra società civile, il «codice genetico» che ci fa quello che siamo (e che saremo), non è pensabile senza la nostra cultura della conservazione, senza il nostro patrimonio culturale” (Settis, 2002, pag. 29, enfasi dell’autore).

Sebbene io condivida con Settis il senso di meraviglia che si prova nei confronti delle bellezze storico-artistiche, non posso che guardare con grande sospetto alle sue sinistre metafore biologiste. Se il legame tra italiani e beni culturali è davvero così “naturale”, viene allora da chiedersi perché Settis abbia bisogno di pubblicare un libro per caldeggiare maggiori sforzi istituzionali per la promozione della conoscenza di un Patrimonio sotto attacco.

32 “C’è un intimo nesso fra la concezione istituzionale del patrimonio culturale che è propria della tradizione italiana, la scuola, che deve perpetuarne la coscienza in tutti i cittadini, e l’università, che deve (insieme con soprintendenze e musei) promuoverne una sempre maggior conoscenza. Sul fronte della tutela come su quello della scuola e dell’università, quello che è in gioco è la stessa natura dell’Italia come comunità politica, consapevole del passato e perciò capace di costruire un futuro che ne sia degno” (Settis, 2002, pag. 58).

Nell’implicita struttura del suo testo Settis adopera una concezione delle professionalità impegnate nei beni culturali come a delle figure neutre, asettiche, mosse dalla mera ragione di Stato, capaci di portare benefici ai contesti semplicemente investendo maggiori risorse nella valorizzazione e salvaguardia del patrimonio, inteso nella sua forma monolitica di sapere storiografico ufficiale e ufficiante.

Attraverso i professionisti dei beni culturali lo Stato possiede l’esclusiva sul possesso materiale dei beni culturali, e si (auto)attribuisce il monopolio delle modalità di dare senso a questi beni (Bourdieu, 2012).

Tutto ciò è naturalizzato dal discorso ufficiale a tal punto che Settis non si domanda neppure quale sia il ruolo degli italiani “non addetti ai lavori”, se non quello di essere passivi fruitori di una bellezza talmente grande che – sospetto fondatissimo – solo gli addetti ai lavori sanno cogliere in pieno.

Non c’è spazio per il sociale, per quella che potremmo chiamare società civile o anche semplicemente modalità altre di dare senso al passato, anzi queste rappresentano delle deviazioni sottosviluppate se non addirittura dei tentativi fraudolenti.

Sul punto tutti i più noti studiosi italiani di archeologia sono concordi.

“L’obbiettivo finale di ogni scavo archeologico resta però la divulgazione dei suoi risultati che dà senso e prospettiva al lavoro svolto […] si tratta di comunicare una percezione dell’archeologia più attuale: di mettere in luce la sua capacità di contribuire a porre un argine all’irrazionalismo (termine con il quale non intendo le componenti non razionali della natura umana, ma la negazione del metodo scientifico e delle possibilità di ragionamento comune che esso implica) piuttosto che di fargli da treppiede, come accade nella letteratura fantarcheologica o in una certa divulgazione banalizzante che crede di attirare l’interesse del pubblico calcando la mano sui “misteri dell’archeologia” (Manacorda, 2008, pp. 234-235).

Trovo curiosa questa stoccata di Manacorda a quella che definisce fantarcheologia sia perché, come mostrerò nei capitoli successivi, delle analoghe pratiche di bracconaggio storiografico sono

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dispiegate dagli stessi archeologi all’interno di alcuni spazi di socialità intima, sia perché la stessa fantarcheologia sembra nutrirsi della medesima fiducia nella ricostruttività oggettiva del passato che ha pervaso e pervade molte scuole archeologiche (Cozza, 2018b; Sagnes, 2015). Correnti spesso osteggiate dagli stessi importanti autori che sovente si scagliano contro lo “svilimento” e la “banalizzazione” della disciplina. Scorrendo le pagine dei manuali di Manacorda (2008), Giannichedda (2002) e Carandini sono frequenti le concessioni alla irriducibilità del passato “ab iuxta

propria principia archaeologicha”. Nel “classico” di Carandini (2000) è presente sia l’invito a creare

un “policlinico archeologico”, sia la constatazione secondo la quale:

“I fatti e le cose della vita, primo nostro oggetto di indagine, sono in sé inerti e opachi come le pietre, ma se è soltanto la scrittura letteraria a poter dare il tocco estremo della leggerezza a questo peso, un grande alleviamento di gravità può essere procurato anche dalla ricostruzione storica, che non è una riproduzione ma una reinvenzione verosimile e formale della realtà”. (Carandini, 2000, pag. XVII).

Dunque, non si tratta qui di mettere in dubbio la validità delle ricostruzioni archeologiche, né tantomeno gettare discredito su tutte quelle professionalità che con passione e serietà si confrontano quotidianamente nei molteplici contesti di impiego, spesso disponendo di risorse esigue. L’idea è piuttosto quella di aprire i beni archeologici anche ad interpretazioni “altre” così da sollevare gli archeologi dal peso esercitato dal ruolo di implacabili guardiani dell’ortodossia. Invece che risolvere il problema, la sistematica derubricazione a sciocca fantasia o, peggio ancora, malevola strumentalizzazione di qualsiasi applicazione di quello che gli antropologi chiamano cultura, sembra aggravare tale problema. D’accordo con Settis che lo Stato si faccia garante della fruizione dei beni culturali di tutti gli italiani, a patto che non contempli anche la univoca riduzione dei diversi modi di significare questi beni.

Come proverò a mostrare nei capitoli successivi, il punto che sta al cuore del dibattito è la sfumatura piuttosto scientista che contraddistingue larga parte dei discorsi sul patrimonio culturale romano, un patrimonio “alto” e “nobile” nel quale penso che la disciplina archeologica rappresenti la punta di diamante. In questo senso è indicativo confrontare la letteratura sul patrimonio culturale di “tipo” archeologico con quello di “tipo” demoetnoantropologico (Tucci, Bravo, 2006). Senza contare il fatto che già l’esistenza di questa scissione può suscitare delle perplessità, è interessante notare come nel primo tipo non siano mai entrare delle proposte riflessive à la Hodder (ne parlerò nel prossimo paragrafo), nel campo del patrimonio culturale afferente agli studi demoetnoantropologici,

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non solo le proposte riflessive hodderiane non farebbero troppa fatica ad essere accolte ma si incontrerebbe con delle prospettive dalle conclusioni molto simili11.

Si tratta di prospettive incentrate sulla processualità del Patrimonio culturale e sull’ineludibilità del carattere situato e parziale di qualsiasi progettualità di politica culturale, compresa quella dell’etnografo (Dei, 2002; Padiglione, 2008). La sfida è abbandonare una concezione di scienza che ha come risultato più ricorrente quello di isolare gli archeologi e il loro scavo dal “resto del mondo” circostante.

Occorre riconfigurare i tradizionali steccati disciplinari tra una disciplina che si occuperebbe del passato antico e un’altra che si occuperebbe del passato recente, una dei “nostri antenati” romani, etruschi o bizantini, l’altra dei “nostri nonni” contadini. Se è vero che alcuni riconoscimenti legislativi hanno aperto delle feritoie nel muro che dividono questi due ambiti dei beni culturali italiani (Tucci, Bravo, 2002), è anche vero che ben prima la cultura “alta” si era intrecciata con la cultura “bassa” (Dei, 2018). La dimostrazione più lampante è rappresentata da tutta la letteratura sulle pratiche di “archeologia indigena” che illustra i disparati tentativi di riconfigurare poeticamente metodologie, sistemi di validazione “oggettivi” ed identità autoctone (Cozza, 2018b; Sagnes, 2015). La posta in gioco che questi studi sottolineano è la convivenza dentro i monumenti (Fabre, Iuso, 2010), il sentiero suggerito quello del dialogo, della riflessività e dell’intreccio dello sguardo emico con quello etico (Padiglione, 2008).