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CAPITOLO 4 GOLEM ARCHEOLOGICI

4. Lo stile della Giungla

Stiamo lavorando in un saggio lungo circa tre metri e largo poco meno di due, a quaranta gradi sotto il sole di luglio, tra mezzogiorno e l’una, accanto a me altri due compagni completamente zuppi di sudore già solo per il fatto di star fermi, figuriamoci se bisogna chinarsi e scavare a colpi di trowel. Abbiamo scavato per tutti la mattina e solo la misurazione delle quote di dislivello dei diversi strati ci separa dall’agognata pausa pranzo e da un’oretta da trascorrere all’ombra, magari godendo del

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Ponentino che spira allegro sui Sette Colli. A questo punto, in qualità di principiante, risalgo la scaletta e a passo spedito vado nel capanno degli attrezzi archeologici a cercare una stadia, l’asta telescopica che si adopera per condurre diverse misurazioni di dislivello stratigrafico. Contemporaneamente Elio, capo del settore, appronta lo strumento a cannocchiale che si utilizza per il rilievo delle misure. Quando ricompaio nei pressi della buca ho l’espressione sconfitta di chi stringe in mano la stadia più malconcia dello scavo, con la guida telescopica guasta che non fissa i diversi segmenti e dunque non permette di misurare nulla che vada oltre il metro, in queste condizioni non è possibile completare il lavoro dato che ci occorre una stadia che possa prolungarsi almeno fino a sette metri. Sono completamente sconsolato, «ho trovato solo questa, le altre le stanno utilizzando gli altri. Che facciamo?».

Senza rispondere alla mia domanda Elio afferra la stadia, fa scorrere i diversi pezzi telescopici dell’asta fino a raggiungere la completa estensione di sette metri e infine, utilizzando le lame delle nostre trowels come delle zeppe, blocca lo scorrimento dei segmenti.

In pochi istanti, tra lo stupore mio e degli altri principianti, ha reso la stadia perfettamente funzionante e pronta all’uso. «Io ho fatto lo scavo della Giungla» mi dice sorridente, «facciamo funzionare pure le cose rotte.»

Lungi dall’essere frutto di una battuta estemporanea, il riferimento di Elio a questo scavo della Giungla contempla una relazione di appartenenza molto definita nei confronti di una campagna e un settore di scavo del proprio passato. È infatti questo il nomignolo scherzoso che un pugno di studenti e ricercatori hanno assegnato a questo leggendario settore di scavo contraddistinto dal numero piuttosto contenuto dei partecipanti, un ritmo dei lavori altamente serrato e un confronto quasi guerresco con le più disparate e avverse condizioni atmosferiche. Una giungla in cui per sopravvivere occorre avere le abilità del bricoleur (Liep, 2001; Lévi-Strauss, 1962).

È lo stesso Elio a raccontarmi la nascita di questa «leggenda»:

«È stato un periodo particolare diciamo. Quello era un settore come un altro prima di iniziarlo a scavare. Come un qualsiasi altro settore abbiamo chiesto l’autorizzazione. Era l’unica area rimasta non scavata in una zona già scavata e approfondita. E quindi naturalmente quando si apre un settore si fa la recinzione, il primo anno si toglie poco, c’è da togliere lo strato moderno, c’è una strada moderna sopra che devi spaccare… Poi il caso ha voluto che […] dovevano costruire questa passerella [e] tutto è diventato una corsa tremenda. In quel momento io ero responsabile di settore, scavavo in un altro settore. Però le forze si sono dovute concentrare lì, era un’area lunga, lo abbiamo diviso in tre parti, uno dei settori era il mio. Ed è diventato uno scavo eterno. Noi abbiamo scavato la prima campagna giugno-luglio come al solito; poi abbiamo cominciato una campagna che è iniziata a maggio e abbiamo finito a luglio. Abbiamo ripreso durante l’inverno e

103 siamo andati avanti fino a dicembre. A dicembre è cambiato il progetto della passerella […] Quindi io a dicembre sono tornato nel settore che stavo scavando prima. Ho scavato [a partire da] dicembre, gennaio, febbraio… praticamente ho passato un anno a scavare. Scavavo e nel frattempo provavo il dottorato o cose di questo genere. Poi dopo questo scavo è ripreso per un’altra campagna che è durata sei mesi, invece che a dicembre è finito a novembre. Alla fine [questa campagna] è durata due anni. È stata una cosa… un’avventura. Ci siamo ritrovati con quello che era il direttore di scavo, io e altri due responsabili. Poi con gli studenti, molti che variavano però, alcuni alla fine si sono fatti anche loro tutte le campagne. Praticamente non dormivamo insieme, ma quasi. Il mio direttore di scavo dormiva a casa mia, perché veniva da fuori e non aveva casa [qui]. Per cui ho messo una brandina per terra, cioè… casa mia (una stanza da studente!) Quindi è stato tutto molto coinvolgente, non soltanto quello che scavavamo, ma anche il modo di scavarlo.»

Nonostante la Giungla vera e propria sia stata rinterrata da diversi anni questo modus

operandi, questo tipico stile «da scavo della Giungla», è oggi ciò che viene sempre chiamato in causa

quando si vuole ammonire qualche tirocinante troppo lamentoso o quando qualcuno riesce ad uscire da una situazione problematica attraverso un guizzo dell’ingegno così da mettere in mostra l’astuta interpretazione poetica della stessa pratica archeologica.

La leggenda dello scavo della Giungla echeggia continuamente e viene chiamata in causa anche quando Livio e Fulvio, armati di filo a piombo e fettuccia, risolvono il complicato rebus di misurare uno strato senza poterlo calpestare afferrandosi l’uno con l’altro per un braccio così da permettere a Fulvio di sporgersi a piacimento senza cadere con la faccia sulla stratigrafia.

Stesso discorso vale quando Elio getta solo una rapida occhiata nel settore e nota un accumulo di terra smossa che letteralmente «nessuno aveva visto». Egli mostra le sue superiori capacità archeologiche e allo stesso tempo alza l’asticella che segna il “coefficiente di archeologicità” di vecchi e nuovi tirocinanti; «me lo so’ sognato o avevo detto ʻfate ‘na bella puliziaʼ?! Dai, non me fate vede’ ‘ste zozzerie».

È lo stesso Elio a descrivermi lo spirito che richiede la sua visione dell’archeologia:

«Sai, l’archeologia è una cosa un po’ strana. Da una parte è il tipico lavoro di chi sta chiuso in biblioteca e non vede la luce del sole. Però se è un’archeologia fatta anche sullo scavo richiede anche essere un operaio, anche se poi c’è un metodo, c’è una scienza. Però devi faticare sotto il sole, ti bruci, c’è la polvere, sudi, puzzi, eccetera. Quindi per portare avanti lo scavo… uno scavo per quanto sia universitario ha dei fondi, ha degli obbiettivi, devi rendicontare quello che fa, in un determinato tempo devi scavare un minimo di cose, devi produrre una certa interpretazione e a un certo punto devi arrivare alla pubblicazione. E devi immedesimarti un po’ in quello che stai

104 facendo, devi crederci che se ti spacchi la schiena quella mezz’ora in più quando dovresti andare a bere, è importante se riesci a farlo. Gli studenti che poi rimangono (non è che il primo studente che arriva e rimane per dieci campagne è un genio dell’archeologia), ha anche bisogno di una certa predisposizione a quello. Mentre per la parte di studio serve solo costanza, per lo scavo un po’ di abbrutimento ti aiuta.»

Essere uno “della Giungla” non significa necessariamente aver partecipato a quella mitica campagna in quel dato complicatissimo settore; essere “uno della Giungla” contempla la capacità di fare archeologia con uno stile distintivo, vale a dire appartenere ad una comunità che condivide significati, pratiche, valori e dunque una identità. Da questo ethos agonistico alla spasmodica attenzione alla stratigrafia, dalla grande attenzione dedicata al territorio laziale passando per l’inclinazione spiccatamente divulgativa di alcuni componenti della Giungla, così come l’onore di appartenere ad una scuola archeologica blasonata fatta di maestri davvero celebri; qualsiasi studioso di Roma antica che lavora in Italia non fa alcuna fatica nel distinguere lo “stile Giungla” da qualsiasi altro stile archeologico messo in campo. E questo avviene nonostante non esista alcun manuale di scavo archeologico “stile Giungla”. Quest’ultimo infatti non è qualcosa che si può imparare attraverso un libro stampato, come dice Elio «occorre una certa predisposizione» ma anche la frequentazione del giusto ambiente, lo scavo della Giungla appunto.

Il campo dell’apprendimento umano è stato al centro di una sterminata letteratura che travalica svariate discipline come filosofia, sociologia, psicologia, pedagogia e antropologia62. In questo mare

magnum in cui è facilissimo perdere l’orientamento, le riflessioni prodotte da Jean Lave ed Etienne

Wenger (2006) mi sono da subito sembrate quelle più azzeccate per mappare le pratiche microdinamiche che si innestano dentro un contesto lavorativo come quello dello scavo archeologico. Introducendo il concetto di situated learning i due autori spostano l’attenzione dall’apprendimento come asettica trasmissione di skills da insegnante a discente, all’apprendimento come percorso biografico segnato da contestuali e relazionali pratiche, partecipazioni e comunità (Lave e Wenger, 2006; Wenger, 2006). La forza del modello euristico della Comunità di Pratica sta nel fatto che riesce a conservare il senso collettivo e cognitivo dei processi di apprendimento senza sacrificare le potenzialità individuali63. Quel che ne emerge è proprio il carattere trasformativo, dunque creativo

62 Per una panoramica a tutto tondo si veda il volume di Grasseni e Ronzon (2004). Per quanto riguarda gli aspetti socio-

cognitivi si veda il testo curato da Chaiklin e Lave (1993). Per una panoramica del concetto di Comunità di Pratica si vedano i lavori di Wenger e Lave (2006) e i singoli contributi di Wenger (2006) e Lave (2011).

63 Scrive Wenger: “Nella vita quotidiana è difficile e direi anche sostanzialmente inutile stabilire esattamente dove finisce

la sfera dell’individuale e dove comincia la sfera del collettivo. Ogni atto di partecipazione e di reificazione, dal più pubblico al più privato, riflette la costituzione reciproca tra individui e collettività. Le nostre pratiche, i nostri linguaggi, i nostri artefatti e la nostra visione del mondo riflettono tutti quanti le nostre relazioni sociali. Anche i nostri pensieri più privati impiegano concetti, immagini e prospettive che riusciamo a comprendere attraverso la partecipazione alle comunità sociali.”(Wenger, 2006, pag. 168).

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della partecipazione e della condivisione dell’identità di una data pratica. Questa, lungi dall’essere sempre uguale a sé stessa, viene appunto rinnovata attraverso l’inclusione dei novizi nella comunità dei praticanti.

Quando chiedo ad Elio di raccontarmi le vicende e i luoghi archeologici dove si è svolta gran parte della sua vita archeologica egli mi guida innanzi al suo primo settore di scavo, ormai interrato da più di un decennio, e quindi passa a descrivermi le privazioni e le difficoltà con le quali dovette confrontarsi a quel tempo. Impossibile non individuare in questo racconto del suo primo scavo le caratteristiche distintive che lo avrebbero poi reso uno dei massimi esponenti della Giungla.

«Io so stato sbattuto a scavare in questo quadratino e in più c’erano queste radici dell’albero che non potevano essere tagliate e quindi [la radice] mi passava sopra. Scavavo col maleppeggio perché era tutto troppo stretto, non si poteva fare altrimenti. E questo è stato il mio primo settore! Primo anno di università e primo scavo. […] Era un buco infernale in cui non so che diavolo ci stava non si sa che cosa, toglievi uno strato e ce ne stava un altro, poi ancora e ancora… non che ci fosse molto da capire, […] però a un certo punto ho trovato un deposito votivo.»

Lo spirito di sacrificio dimostrato dallo scavare in un «buco infernale», la destrezza del maneggiare il maleppeggio (l’attrezzo tra i meno apprezzati), l’attenzione certosina per la stratigrafia; si tratta di diversi elementi che descrivono molto esaustivamente l’adesione di Elio allo stile della Giungla e allo stesso tempo mostrano quanto di suo ci sia nello stile della Giungla, a tal punto che in molti casi mi sembra assolutamente impossibile individuare una cesura tra ciò che è di Elio e ciò che è della Giungla64.

Sollevare questo tema significa esercitare la completa rottura con una certa visione dell’archeologia come mera esecuzione di fredde metodologie archeologiche per rivolgersi verso un modello più attento alla dimensione creativa dell’archeologia.

Non sto assolutamente dicendo che l’archeologia produca menzogne, né che gli archeologi siano degli inconsapevoli imbroglioni o peggio ancora degli incalliti truffatori. Il concetto di creatività archeologica che vorrei sottolineare si basa su una concezione più sociale della creatività a partire dalla fondante constatazione antropologica che non esiste la creatività dal nulla o ex nihilo (Favole, 2010; Lai, 2006).

In tal senso Eraclito e il Lucrezio del De Rerum Natura sono perfettamente in linea con gli studi sulle Comunità di Pratica portati avanti da Lave e Wenger. Quest’ultimi hanno accolto le diverse

64 Scrive Wenger: “L’apprendimento si colloca a mezza strada. È il veicolo per l’evoluzione delle pratiche e per

l’inclusione dei nuovi arrivati, ma anche (e attraverso lo stesso processo) il veicolo per lo sviluppo e la trasformazione dell’identità.” (Wenger, pag. 22).

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intuizioni formulate circa effetti trasformativi dell’apprendimento pratico giungendo all’individuazione di questo effetto di coordinamento che si verifica ogniqualvolta gli operatori devono modulare la cornice appropriata per praticare quella data mansione. È questo “nesso di multiappartenenza” che permette a Marco di fare archeologia come se stesse facendo pugilato e allo stesso tempo di fare pugilato come se stesse facendo archeologia. Il risultato è che se l’archeologia di Marco è arricchita dal pugilato, il pugilato di Marco è arricchito dalla archeologia. Le due mansioni, inevitabilmente, nel loro sviluppo pratico risentiranno della biografia di Marco, e perché no, magari anche di quella sua passione per la cucina o per la pesca.

Nonostante la trappola scientista sia continuamente impegnata a censurare tutti questi atteggiamenti bollandoli come “personali” e “soggettivi”, mi sembra che questa capacità di “abitare” la pratica archeologica ed i relativi reperti e monumenti, offra invece l’occasione per cogliere la forza poietica della pratica archeologica. Non c’è dubbio che una certa vigilanza riflessiva debba sempre essere al centro di ogni processo interpretativo, fuggire dalle tenaglie del positivismo per impantanarsi in quelle del soggettivismo più autoreferenziale non sembra proprio una buona idea.

Ma esistono delle strade intermedie, già costruite e percorse quotidianamente da tutti quegli archeologi che si ricavano degli spazi intimi dentro i quali fare archeologia significa spesso condurre una entusiasmante opera di riflessione “personale” senza per forza rinunciare al rigore di una pratica collettiva con i piedi ben piantati nella terra dello scavo e nell’analisi rigorosa della stratigrafia e dei materiali. La forza della prospettiva che vorrei avanzare è quella sancita da una definizione alquanto calzante spuntata fuori, quasi inavvertitamente, dalla bocca di Claudio e che ho poi ritrovato parlando con tanti altri interlocutori: si tratta della definizione di Casa Archeologica.

Può coincidere con uno specifico settore, con un intero sito così come può essere adoperato per definire una determinata campagna di scavo in cui ci si è «sentiti a casa».

Livio, trent’anni, caposettore, mi parla della sua casa archeologica:

«Il mio posto nel sito di Roma è quello, poi sono anche stato fortunato perché ho sempre trovato persone con le quali mi sono trovato bene. Non è mai capitato che mi sono trovato con persone con le quali non mi prendessi. Tra le persone del mio livello o che mi comandavano mi sono sempre trovato bene. Poi c’è un prima e un dopo. Quando stai chiuso mesi con un obbiettivo per me è stato naturale creare una specie di tribù.»

Oppure Lucio Flavio, cinquant’anni, archeologo e docente:

«Sono di origini calabresi. Mi sento calabrese, ma sono nato vissuto e cresciuto a Roma. Ma sono ventisei anni che lavoro a Bologna e quindi anche Bologna, l’Emilia è importante. E allora a

107 seconda di dove sto, a seconda del momento, posso essere più cose. Però riconosco sia Roma, che la Calabria, le mie radici, la mia nascita e la mia attuale posizione nel luogo dove lavoro. Ma anche qui [nello scavo in cui ci troviamo], tutto sommato sono più di dieci anni di scavo e quasi vent’anni di ricerche, mi sento a casa.»

Quel che caratterizza la “casa archeologica” è il raggiungimento di equilibrio quasi insperato tra partecipazione, identità e creatività archeologica.

La capacità cioè di farsi autori di una (ri)costruzione archeologica entusiasmante, restando legati ad un contesto materiale ben definito in cui le vicende biografiche degli archeologi sono il corollario invisibile dei resoconti archeologici. Gli scherzi, le privazioni, i giochi sullo scavo, le vicende biografiche del passato come quelle del tempo dello scavo, sono tutte catalizzate nella casa archeologica.

Nel prossimo paragrafo cercherò di riflettere su questo carattere di autorialità archeologica.