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CAPITOLO 4 GOLEM ARCHEOLOGICI

1. Costruire il proprio Golem archeologico

Parlare di archeologia, come qualsiasi altra pratica umana, significa parlare della relazione tra soggetti e spazi o se si preferisce, tra soggetto e oggetto54. Il tema è stato trattato da una letteratura sterminata, a volte anche fortemente contraddittoria. Per quel che interessa il campo delle discipline antropologiche il superamento delle prospettive che vedevano nello spazio una materia completamente inerte in balia dell’azione umana ha permesso di individuare un rapporto dialettico tra soggetti e oggetti in una trama intricata di influenze, poteri e significati. Il testo di Bourdieu (1972) sulla dimora Kabyla, uno dei più citati tra gli archeologi anglosassoni, rappresenta la dimostrazione di come lo spazio venga condizionato dai significati e di come i significati vengano veicolati dallo spazio.

Ma ecco che sorgono ulteriori complicazioni: è il soggetto a condizionare maggiormente l’oggetto o viceversa? Cosa succederebbe se superassimo questo paradigma per approdare a una visione incentrata sulla inscindibile continuità? E se elevassimo al rango di soggetti gli oggetti?

In un volume del 2005 interamente dedicato alla materialità, l’archeologo ed antropologo Daniel Miller ha notato come la polemica abbia ormai assunto il tono della disputa filosofica elevandosi sempre più dal “messy terrain of ethnography” (e nel caso degli studi di archeologia, dalla polvere e il sudore dello scavo archeologico).

Miller esplora la natura contraddittoria della nozione di materialità rilevando quanto questa venga decisa, compresa e resa sensibile attraverso dei processi sociali e culturali che definisce con il termine hegeliano di oggettivazione.

“It is not jusy that objects can be agents; it is that practices and their relationships create the appearance of both subjects and objects through the dialectics of objectification, and we need to be able to document how people internalize and then externalize the narrative. In short, we need to show how the things that people make, make people” (Miller, 2005b, pag. 38).

54 In merito agli studi antropologici sulla cultura materiale è stato notato come dopo gli anni Settanta siano fiorite molte

ricerche che hanno riflettuto sulla materialità mediante il superamento delle concezioni oggettiviste e indipendenti dalla cultura e dalla storia (Dei e Meloni, 2015). Nella nuova fase di ricerche si è molto dibattuto sul carattere reciprocamente costruito dell’oggetto e del soggetto (Bourdieu, 1972). È in questa ultima corrente che possono senza dubbio essere inseriti autori ed autrici ormai divenuti “classici” come Douglas e Isherwood (1978), Appadurai (1986), Kopytoff (1986), Weiner (1992), Latour (1993), Gell (1998), Miller (2005, 1998).

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In questo senso riuscire a risolvere l’enigma del rapporto tra soggetto e oggetto non ci aiuterebbe a comprendere il funzionamento di determinati processi di oggettivazione nella misura in cui gli archeologi che ho incontrato sembrano pensarsi come soggetti che “trovano” cocci, pavimenti, mosaici e ossa che erano semplicemente coperte da uno strato di terra55.

Michel de Certeau affronta l’analisi della pratica storiografica a partire da questa commistione contraddittoria di “realtà” e “finzione” che continuamente la storia propone.

“Distaccandosi infatti dal travaglio quotidiano, dai rischi, dalle combinazioni di micro-decisioni caratterizzanti la ricerca concreta, il discorso si situa fuori dall’esperienza che lo accredita; si dissocia dal tempo che passa, dimentica lo scorrere dei lavori e dei giorni, per formare dei «modelli» nel quadro «fittizio» del tempo passato.” (De Certeau, 2006, pag. 103, enfasi dell’autore).

La dissociazione dai travagli del mondo, dalle possibilità imponderabili e dal tempo che passa vale per la pratica storiografica come per quella archeologica.

Quest’ultima stabilisce dei continui confronti con la materialità del passato, come sanno bene tutti quelli che mentre scavano intercettano una lucerna del II sec. a.C. e dunque, toccando il beccuccio annerito, si sporcano le dita della fuliggine prodotta da una combustione di duemila anni fa.

Livia, circa 24 anni, mi racconta:

“Io ho fatto la tesi su delle lucerne di uno scavo della basilica Iulia. Analizzando… mi era stato chiesto di fare l’analisi di ogni pezzo, però la cosa che mi ha emozionato di più è stato trovare… sentire il contatto con le persone che lo avevano utilizzato. Vedendo delle tracce di combustione per esempio, oppure delle impronte sull’argilla. […] le lucerne mi piacciono moltissimo per il ruolo che avevano nella società romana. Un ruolo a tutto tondo perché le lucerne erano quasi l’unica fonte di illuminazione del mondo romano. E quindi anche a seconda di dove venivano usate avevano diversi tipi di decorazione. Dall’anfiteatro, alla persona in mezzo alla strada, in casa in una famiglia. Erano votive pure, venivano messe nelle tombe, nei santuari. E quindi il fatto che le lucerne che avevo io in mano non erano… erano massimo due cm di lucerna… Quindi

55 Da questo punto di vista gli scavi in cui ho lavorato confermano quanto rilevato da Edgeworth (2003) circa ciò che lo

studioso inglese descrive come “metafora del documento”. Si tratta di una prospettiva che ha una lunga storia all’interno della costruzione del sapere scientifico occidentale inestricabilmente legato alla scrittura, al feticismo della fonte e alle ragioni delle istituzioni accademiche sempre basate sull’erudizione libresca. In archeologia la metafora del documento fa sì che si percepiscano i reperti come delle cose che sono sotto la terra e attendono di essere scoperte (in una prospettiva oggettivista) o descritte (in una prospettiva interpretativista). Per superare l’impasse, Edgeworth propone la metafora della materia grezza (raw material) simile all’oggettivazione di cui parla Miller (2005). La materia grezza è costantemente sottoposta ad un processo di raffinamento, modellamento, lavorazione e dunque di (ri)produzione.

90 non era possibile stabilire da dove venissero perché erano in un butto56 praticamente. Però pensare

che queste possono aver contribuito, in diversi modi, nell’epoca diciamo primo imperiale (siamo sotto Augusto), mi ha fatto emozionare. Perché è un periodo che mi piace e perché penso che le ho fatte in qualche modo rivivere.”

Quel che mi interessa sottolineare è il valore interiore ed emotivo di una pratica che mette i propri operatori nella condizione di farsi autori di una storia reale. Cioè una storia che è passata attraverso una rigorosa serie di dispositivi scientifici di validazione.

Ma trovare una lucerna del II sec. a.C. non innesca semplicemente la piatta recitazione di una serie di informazioni tipologiche, stilistiche e stratigrafiche (significativamente tutto ciò che va nei “testi scientifici”); trovare una lucerna contempla anche la (ri)costruzione di un ventaglio di vicende, «i Romani facevano diversi tipi di lucerna»; più o meno “fittizie” che disegnano un percorso cronologico deciso da un operatore, «era già rotta, quindi sarà stata buttata qui perché inservibile»; dunque autorializzato ed in quanto tale tempestato di ragioni morali personali: «mi piacciono le lucerne perché comunicano una sensazione di quotidianità familiare. E poi erano indispensabili: senza di loro non vedevi i tuoi familiari».

Un buon modo per riflettere su questa bizzarra finzione reale è partire dal concetto di Golem. Non è necessario indugiare troppo sulla letteratura inerente questa celebre figura dell’immaginario mitteleuropeo, quel che mi interessa sfruttare in questa sede è la forza suggestiva che comunica tale idea del Golem come di una materia grezza che si vivifica grazie all’articolazione di un racconto. Il Golem è allo stesso tempo risultato della scrittura di un autore e sostanza estranea, burattino senza fili ed automa con una coscienza personale, storia oggettiva e parabola morale.

Un mondo reale sotto il pressoché completo controllo del proprio creatore.

Tenterò di esplorare la natura di questo concetto contradditorio descrivendo un resoconto di tutte le volte che questo si è manifestato mentre facevo archeologia insieme ai miei interlocutori.

Sin da subito è possibile notare la strettissima relazione che il Golem archeologico sembra intrecciare con la trappola scientista. L’una è il nutrimento dell’altro e viceversa. Tanto più è scientista il sistema per decretare il carattere oggettivo della ricostruzione archeologica, tanto più sarà potente il Golem archeologico. Si apre un ventaglio di poetiche e di sistemi per “fare a patti” con il mondo e con sé stessi che la concezione dell’archeologia come scienza neutrale costantemente cela, oblitera e censura.

Sono gli archeologi che attraverso le loro pratiche scientifiche, in maniera collettiva, (ri)creano l’esperienza del passato. Sono gli archeologi che (ri)creano la loro stessa (ri)collocazione

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identitaria ed esistenziale in un quadro di continuità che unisce fasi cronologiche che possono anche

attraversare i millenni57.

È proprio la pratica archeologica a produrre il materiale che ricostruisce la frattura, tappa i buchi, ricuce gli strappi e assembla i pezzi risparmiati con pezzi creati da zero, come se la morte non fosse mai intervenuta58. Emerge un orizzonte retorico ed esperienziale all’interno del quale è proprio la creatività, cioè la capacità di farsi autori di un destino (scientificamente dato per già verificatosi) ad essere il fattore di senso fondante dell’operazione archeologica. Questo potere creativo e decisivo dell’archeologo si realizza in un racconto che segnala e seleziona punti fermi emotivi, morali e sociali. L’articolazione dei diversi elementi del Golem, siano essi fonti scritte, reperti in stratigrafia, rilevamenti topografici, sistemi simbologici, raffigurazioni, aneddoti personali, prospettive epistemologiche etc., si agglutinano in una esperienza di (ri)conoscimento tra il modello delle necessità e il modello dell’autopercezione dell’operatore.

In tal senso il Golem dà conferme sul proprio ruolo nel mondo e sulle proprie relazioni con esso.

La selezione di una cornice così definita scientisticamente permette di pensare al tempo passato, cioè al corso della storia, quasi che questa non fosse chiusa per sempre come nella legge dello spazio-tempo ma come un’esperienza in cui si può intervenire, selezionare, gestire, rimodulare, cambiare senza il timore che intervengano gli imponderabili della vita, le fratture, le cesure, gli eventi disastrosi.

57 Per fare un esempio, unisce un sito archeologico dell’IV secolo a.C. alle vicende sentimentali di due ragazzi nati

nell’ultimo decennio del XX secolo d.C. Durante la mia ricerca ho conosciuto tanti casi di “innamoramento” dentro lo scavo e senza dubbio sarebbe opportuno rifletterci in maniera approfondita giacché queste tipologie di “storie” hanno quasi sempre un inizio e una fine circoscritta al turno di scavo, come si sente dire spesso: «quel che succede nello scavo resta nello scavo». Vorrei però accennare brevemente ad un particolare episodio che ho trovato molto significativo. Durante un turno di scavo ho conosciuto Ottaviano, studente romano ma di origini campane. Dopo qualche tempo, Ottaviano mi rivela di avere un debole per Emilia, una studentessa di Benevento, ma di non sentirsi affatto in grado di dichiararsi né tantomeno di corteggiarla dato che una oppressiva timidezza gli impedisce quasi di parlarle. Durante una discussione sul passato e sulle rispettive origini Emilia mi spiega che essendo di Benevento nelle sue vene scorre il sangue dei Sanniti, ed ecco che immediatamente interviene Ottaviano, il quale, con il suo accento romanesco, spiega di avere una nonna di Napoli e dunque, «anche io so sannita! Semo cugini!». Al di là della, credo involontaria, ambiguità dell’affermazione sull’essere cugini pronunciata da Ottaviano, mi ha colpito il suo tentativo di costruire un legame con Emilia che si fondasse sul passato antico e sulla condivisione di un orizzonte valoriale che rende nobile e opportuno tutto ciò che proviene da quella origine antica.

58 Le riflessioni di Michel de Certeau, raccolte in L’Écriture de l’histoire del 1975, vertono proprio su questi aspetti

contraddittori dell’operazione storiografica, sarebbe a dire l’organizzazione di un luogo sociale, delle pratiche e una scrittura mirate a creare una relazione tra reale e discorso, due termini che secondo lo studioso francese sono in aperta contrapposizione. “La storiografia tende a provare che il luogo dove essa si produce è capace di comprendere il passato:

strana procedura, che pone la morte, frattura ovunque ripetuta nel discorso, e che nega la perdita, attribuendo al presente il privilegio di ricapitolare il passato in un sapere. Lavoro di morte e lavoro contro la morte. Questa paradossale procedura si simbolizza e si effettua in un gesto che ha insieme valore di mito e di rito: la scrittura. La scrittura infatti sostituisce alle rappresentazioni tradizionali che autorizzano il presente un lavoro rappresentativo che articola in uno stesso spazio l’assenza e la produzione, nella sua forma più elementare, scrivere significa costruire una frase percorrendo un luogo supposto bianco, la pagina. Ma l’attività che ri-comincia da un tempo nuovo separato da quelli vecchi e che si prende carico della costruzione di una ragione in questo presente, non è la storiografia?” (de Certeau, 2006, pag. 10,

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Queste preoccupazioni non rappresentano forse il quadro di incognite e necessità vissute dagli studenti e dai professionisti di cui parla questa tesi?