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CAPITOLO 2 L’ANTROPOLOGO SCARRIOLANTE

4. Misurarsi per misurare

È una afosa serata di giugno e per cercare un po’ di refrigerio ci siamo tutti e sedici sistemati nel cortile della casa di campagna dove vive parte dei partecipanti dello scavo in questa area del Lazio. Tra questi Galvino ed io siamo i due membri più anziani del gruppo e dunque quando ci capita di parlare del più e del meno, ma soprattutto di archeologia, succede che molti altri seguano attentamente in nostri scambi. Ma c’è un ulteriore aspetto che credo desti l’interesse dei ragazzi e

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delle ragazze che ci stanno intorno, il fatto che molti seguono le discussioni tra me e Galvino per cercare di farsi un’idea su come relazionarsi con la mia presenza da ricercatore.

L’attenzione che tutti i «giovani» dedicano a ciò che dice e fa Galvino è dovuta al fatto che egli ha tutti gli attributi del leader; un’esperienza di scavo decennale, un fisico da bodybuilder arricchito da numerosi tatuaggi dei quali nessuno ha il coraggio di chiedere il significato (men che meno l’etnografo) e un atteggiamento che lui stesso definisce «burbero», ma allo stesso tempo, come mi spiega una studentessa, «protettivo».

Si parla di ciò che si fa prima di andare a dormire comparando ciò che si fa durante lo scavo con ciò che si fa fuori dallo scavo. Molti si meravigliano del fatto che riescono ad andare a dormire prestissimo «rispetto alla normalità» per via della stanchezza e io spiego di non riuscire comunque ad addormentarmi senza leggere qualcosa. A questo punto Galvino interviene nella conversazione con una battuta, «tu non puoi andare a dormire subito», dice sornione, «prima devi scriverti le stronzate che facciamo e diciamo noi». Come se squarciasse un velo di timore reverenziale per la mia presenza, la frase spiritosa di Galvino apre la discussione sul mio ruolo, la mia ricerca e i miei metodi. In molti mi rivolgono le domande che definisco “classiche”30 e notano quanto l’antropologia «obbliga a

pensare e scrivere tantissimo». Il paragone tra archeologia e antropologia culturale spinge in molti a rilevare come quest’ultima sia «più faticosa a livello mentale» mentre l’archeologia «è più faticosa a livello fisico».

A tal proposito Galvino mi racconta che all’indomani dovrà svuotare da solo alcune macerie da un settore in un tempo massimo di quattro ore. Mi riferisce di non essere spaventato dalla sfida e che con grande probabilità a sera svolgerà comunque i suoi esercizi di body building quotidiani, del resto l’archeologia è anche questo: «ti devi sapere adattare». La frase di Galvino coglie nel segno il mio senso di colpa scaturito dal fatto che, come ho già riferito, da qualche settimana avevo chiesto e ottenuto la possibilità di essere affrancato dalle incombenze archeologiche in favore di una attività osservativa e archeologicamente ausiliare coronata dal mio ruolo di “scarriolatore osservante”. Ma tra le fatiche dello scavo è praticamente impossibile resistere alla legge della reciprocità (Aria, 2018). Sentendomi in debito per la possibilità concessami di svolgere il mio lavoro di ricerca, senza aver contraccambiato il “dono” mediante una docile adesione alle mansioni affidate dai miei responsabili

30 Mi riferisco alle curiosità e alle ambiguità che mi vengono palesate praticamente ogni volta che mi presento e spiego

di essere un antropologo che vuole studiare il mondo dell’archeologia. Il più comune fraintendimento è con il noto immaginario psicologico, “siamo tutti pazzi, ci serve una seduta antropologica”. Ma al di là dell’ambiguità terminologica tra la figura dell’antropologo fisico e quella dell’antropologo culturale, mi ha particolarmente colpito la spiccata tendenza ad associarmi a figure professionali impegnati solo ed esclusivamente nello studio delle popolazioni esotiche e “primitive”. In questo senso è emblematico che una delle frasi più ricorrenti fosse: “non sapevo che [voi antropologi] vi occupavate anche di popoli moderni” oppure “quindi gli archeologi sono i tuoi cavernicoli?”, “noi siamo i tuoi indigeni?”. Mi sembra che da tali malintesi emerga l’assai diffusa tendenza a percepirsi come individui unici, svincolati da qualsiasi tipo di influenza sociale e culturale, in perfetta sintonia con il paradigma individualistico di cui parlano, tra gli altri, Beck (2008) ed Elliot e Lemert (2007).

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di settore, dico a Galvino che se gli occorre una mano sono a sua completa disposizione (Bourdieu, 1980).

Galvino accetta praticamente subito cosicché al mattino seguente, appena arrivato, annuncia: «Fulvio oggi viene con me». Andiamo insieme a prendere gli attrezzi nel capanno e mi ordina «prendi una carriola, una pala e un piccone, oggi la trowel non ci serve», quindi dopo una pausa comica mi fa: «vedi se trovi un’altra carriola. Così facciamo più in fretta».

Arrivati sul settore armati di tutto punto, Galvino mi spiega che il punto dove dovremo lavorare è molto stretto e sarà quindi opportuno alternarci con un turno di piccone che dissoda la terra, e un turno di pala che la carica nella carriola. Mi chiede se voglio iniziare col piccone o con la pala, scelgo quest’ultima e finalmente comincia l’azione.

Galvino avvia lo spicconamento con la sua consueta possente perizia e dopo aver dissodato una buona porzione di terra mi invita a procedere: «forza, voglio vedere che sai fare». Inizio la mia opera sotto l’occhio vigile di Galvino. Mi affanno a raccogliere la maggior quantità di terra nel minor tempo possibile, ma d’un tratto non posso che bloccarmi e incrociare il suo sguardo corrugato. «Che succede?», gli domando. «Ti sto osservando», mi risponde Galvino, «se continui così stanotte non ti muovi nel letto». Afferra la mia pala e mima il mio movimento confrontandolo con quello corretto, «tu fai questo. Ma devi fare questo. Altrimenti ti spezzi la schiena». Fioccano i miei tentativi e Galvino comincia ad approvare e notare i miei progressi.

Ma ecco che si fa innanzi l’ennesima mia carenza sulle skills archeologiche: «la palombella» cioè la capacità di servirsi della pala per lanciare la terra smossa dentro la carriola pur trovandosi a una certa distanza da quest’ultima. Galvino mi spiega che si tratta di un’abilità che ha appreso dagli operai con i quali ha lavorato nei cantieri di archeologia preventiva. Mi spiega che se ci si trova in una buca, se non si dispone di una carrucola, o peggio ancora, se ci si trova soli nel cantiere, la palombella è l’unica soluzione atta a far risparmiare tempo e fatica. Galvino insiste molto su questo punto, mi spiega che «l’archeologia non è solo la ceramica o la scheda US. L’archeologia è pure essere svegli e avere voglia di fare le cose. Così quando te ne torni a casa sei contento perché ti sei fatto il culo ma hai imparato una cosa nuova». E così continuiamo a la nostra opera di scavo, Galvino corregge anche il mio modo di picconare, quello di portare la carriola, di leggere lo strato e ancora e ancora, mettendomi continuamente alla prova e sottoponendo al vaglio della mia attenzione etnografica gli indizi e gli enigmi della ricerca archeologica «hai notato che prima ho risparmiato questo angolo? Perché l’ho fatto secondo te?» oppure «lo senti che adesso il suono è diverso qui? Come ti avevo detto prima!».

Il metodo pedagogico di Galvino ricorda quello del maestro a bottega, un sapere che a volte deve essere rubato con gli occhi e le orecchie, un sapere che si trasmette mediante delle

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contrapposizioni e il gioco della sfida, un sapere che prevede un allievo docile, cioè che si sottomette al sapere, ma è soprattutto un sapere che misura il discente, costringendolo a misurarsi con la complessità dei percorsi e dei significati interni e interiori dei praticanti (Herzfeld, 2004; Chaiklin e Lave, 1993).

In tutta sincerità nutro più di qualche dubbio sul fatto che Galvino avesse davvero bisogno del mio aiuto per portare a termine quel lavoro. E quindi mi sembra che il suo comportamento rifletta più che altro una certa volontà di utilizzare la mia presenza per inglobare e assoggettare alle fatiche del sapere archeologico un sapere etnografico che si propone l’ambizioso e ingenuo compito di comprendere il senso profondo della pratica archeologica senza viverla a pieno regime con i muscoli, la passione, il pensiero vigile. E dunque il suo modo di travolgere la mia attenzione con quella miriade di segnali e variabili che uno scavo propone quotidianamente suona quasi come un invito a non credere di aver capito tutto, a non derubricare una pratica così complessa ad una sterile modellizzazione comportamentale.

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