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CAPITOLO 3 LA SCIENZA DI SÉ

2. Tenersi in contatto

Claudia arriva da una provincia del Lazio, ha scelto di fare archeologia dopo un percorso didattico piuttosto tortuoso. Dapprima iscritta ad un corso di studi in Germanistica, dopo alcuni mesi si iscrive a Storia dell’Arte e lo frequenta per alcuni anni arrivando a pochissimi esami dalla laurea. A questo punto succede qualcosa che la blocca completamente e che la spinge ad abbandonare l’università della grande città per trasferire i suoi studi in una realtà più di provincia, in un corso di laurea in Beni Culturali. Non che avesse davvero delle velleità di scavo, mi spiega infatti che i suoi periodi preferiti in termini storico-artistici sono il Rinascimento e l’Ottocento, «adoro Raffaello e Klimt, mi sono sentita male quando ho visto Il Bacio [di Klimt] a Vienna». Claudia è «spesso soggetta alla sindrome di Stendhal». Mi racconta che si è emozionata particolarmente alla vista del dipinto di Raffaello Sanzio La Fornarina. «Non è che Raffaello mi attirasse troppo, però… guardandolo dal vivo, c’è un pezzo della pelle dove lui ci ha scritto “Raphael”, cioè non lo so, la guardavo, [La Fornarina] con questi occhi… e ho fatto: “Ah!”. A me quella cosa mi piace molto».

Ma quindi che ci fa Claudia in uno scavo archeologico?

È la stessa Claudia a raccontarmi di quanto fino a pochi mesi prima l’idea di trovarsi a lavorare in un sito archeologico fosse impensabile:

«Io c’ho paura delle cose, di tante cose. Però mi ci butto lo stesso. Quello che succede, succede. Io per esempio l’anno scorso, o tre anni, o cinque anni fa, non avrei mai pensato di fare uno scavo, non me lo sarei mai immaginata. Infatti, prima di venire qui mi dicevo: “che cazzo ho fatto?!”. Poi però quando ho visto la mail [di ammissione allo scavo] sono scoppiata a piangere come una deficiente. La prima persona che ho chiamato è stata papà!»

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Claudia infatti mi spiega che la ragione che l’ha spinta a rimodulare il suo percorso da un ambito storico-artistico ad un ambito più archeologico è maturata in seguito ad un viaggio in Grecia in compagnia di suo padre, grande appassionato di storia antica. Si tratta di un rapporto padre-figlia carico di momenti intensi quanto problematici, fatto di presenze ed assenze, specialmente alla luce di una separazione che rende l’argomento quasi impossibile da affrontare senza che Claudia si commuova. Ma quando racconta del viaggio fatto assieme, di essersi persi e ritrovati per le stradine intorno a Delfi con i segnali in greco e la sua capacità di leggerlo, quando racconta di aver raccontato tutte le storie legate ai monumenti ad un padre mai avaro di quesiti storico-artistici, quando guarda e riguarda sullo smartphone le foto scattate in occasione di quel viaggio, Claudia ha l’espressione fiera di chi, dopo tante tribolazioni, è riuscita a stabilire un contatto.

Durante una discussione di gruppo che ho organizzato insieme ai partecipanti del suo turno di scavo si discute sui pensieri e le sensazioni che si provano durante la pratica archeologica. Claudia, prima di commuoversi, ci spiega:

«Io quando scavo penso a papà, infatti continuamente faccio le foto delle cose che ho fatto e le mando a papà. Perché anche lui è fissato con l’archeologia quindi tutto quello che io ho dietro l’ho preso da lui. A lui piaceva storia dell’arte, soprattutto l’archeologia. E mi piace che non essendo quasi mai stato presente, mi piace che in questo periodo bellissimo della mia vita che sto vivendo lui è presente. Perché vuole avere aggiornamenti su quello che piace a entrambi insomma. Quindi finalmente ho trovato un legame. Okay scusate, mi sono commossa!»

Si tratta del raggiungimento di un equilibrio relazionale quasi insperato che Claudia tenta di rinvigorire quotidianamente quando, grazie alla sua attività nello scavo e mediante l’utilizzo dello smartphone, coinvolge suo padre nell’esperienza del ritrovamento e nella ricostruzione archeologica. Claudia condivide con suo padre immagini, sensazioni nonché le stesse incognite stratigrafiche37,

37 Sulla definizione di Stratigrafia scrive Enrico Zanini: “Sotto il profilo della ricerca applicata, il carattere più rilevante

dello scavo archeologico è quello di qualificarsi come indagine analitica virtualmente irripetibile, giacché la sua esecuzione comporta necessariamente la distruzione definitiva della stratigrafia indagata. Ciò comporta evidentemente una precisa assunzione di responsabilità da parte dell’archeologo e, di conseguenza, apre la delicata questione dei metodi e delle strategie che debbono presiedere alla conduzione dello scavo archeologico al fine di trarre da quest’opera distruttiva il massimo possibile dei dati e delle informazioni […] Base di partenza della teoria e della pratica dello scavo stratigrafico è dunque il concetto di stratificazione archeologica, intesa come risultante fisica delle tracce lasciate nel terreno delle attività umane e dell’azione degli agenti naturali nel passato. La moderna stratigrafia archeologica, che ha trovato la sua più puntuale elaborazione teorica nel lavoro di E. C. Harris (1983), si basa infatti sull’assunto che ogni attività umana e ogni fenomeno naturale modificano in misura maggiore o minore l’ambiente in cui si svolgono, aggiungendo o sottraendo nuovi elementi al paesaggio. Nel loro incessante susseguirsi nel corso del tempo, attività umane e agenti naturali determinano quindi un grandissimo numero di modificazioni più o meno significative e di buona parte di tali modificazioni rimane una traccia visibile nella stratificazione del terreno, che nel progressivo rialzarsi dei suoi livelli arriva così a configurarsi come una sorta di archivio dei paesaggi naturali e antropici succedutisi nel corso dei secoli su di un singolo sito. Il terreno archeologico risulta dunque costituito da una sequenza di elementi di diversa natura, che possono essere schematicamente raggruppati in due categorie: Unità stratigrafiche positive, frutto di azioni di accumulo

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infatti invia a suo padre un’immagine del suo settore e si domanda, più o meno retoricamente, «chissà che cacchio c’è sotto queste tegole?!». Il quesito stimola la conversazione tra i due, le ingenue illazioni archeologiche del padre vengono bonariamente rimbrottate da una Claudia che indossa l’inedita veste di esperta, di raffinata conoscitrice delle “leggi della stratigrafia”, una “navigata” archeologa che ride sorniona delle buffe proposte ricostruttive paterne.

Questa costruzione di relazioni non si ferma solo nell’insieme temporale contemporaneo ma avviene anche mediante una triangolazione più immaginifica con il passato romano.

Trattandosi di uno scavo romano Claudia può giocare con la storia unendo le vicende della sua famiglia paterna e di origini romane a quelle che è possibile ricostruire all’interno dello scavo. Per Claudia è molto importante potersi collocare nel solco della romanità, indipendentemente che questa sia una romanità antica o contemporanea. Mi spiega che «purtroppo sono una bastarda. Mamma pugliese, papà romano, mio nonno è romano, mio bisnonno è romano. Sono cresciuta a Roma, sto sempre a Roma».

Claudia effettua una selezione tra una discendenza accattivante e una meno accattivante attraverso un processo molto simile al floating gap di cui parla Vansina38. Seleziona e si colloca nella discendenza romana attraverso la quale può sancire un’identità ben definita, tangibile e attraente.

«Io quando scavo e trovo qualcosa penso pure: “chissà che ci hanno fatto?”. Magari metto mano su una pietra e dico: “qui ci ha appoggiato il culo qualcuno”. Io magari tocco il chiodo e dico:

o costruzione, che determinano quindi un incremento di volume della stratificazione, e Unità stratigrafiche negative, frutto di azioni di erosione o distruzione, che determinano per contro un decremento del volume della stratificazione. Ogni stratificazione archeologica risulterà quindi composta da una serie di unità stratigrafiche positive e negative, disposte in una sequenza fisica in cui più in basso si collocano le US più antiche, a partire dalla prima traccia di frequentazione umana sul terreno vergine, e progressivamente più in alto quelle via via più recenti, fino a giungere alle tracce riconoscibili come frutto delle attività umane e dei fenomeni naturali a noi contemporanei. L’analisi della sequenza deve peraltro tenere conto anche delle trasformazioni che si verificano all’interno della stratificazione, prodotte da eventi meteorici e climatici, dalle attività di pedogenesi o da altri fenomeni di alterazione successivi alla formazione del deposito, che vanno appunto sotto il nome di fenomeni postdeposizionali […] sulla base di queste premesse, lo scavo archeologico condotto secondo il metodo stratigrafico si propone dunque come uno smontaggio della stratificazione, eseguito procedendo nell’ordine inverso rispetto a quello in cui la stratificazione stessa si era formata e andando quindi a individuare, documentare e scavare per prima l’unità stratigrafica più recente, per procedere poi attraverso una sequenza ripetitiva di procedura standardizzate all’individuazione, alla documentazione e allo scavo di quelle via via più antiche.” (Zanini, 2002, pp. 258- 259, enfasi dell’autore).

38 Jan Vansina (1985) ha definito floating gap lo spazio nebuloso in cui il tempo delle origini si connette al passato

prossimo; è proprio in virtù di questa lacuna fluttuante che molti archeologi possono lecitamente definirsi la potenziale continuazione di quei medesimi romani che hanno costruito il Colosseo, hanno utilizzato la moneta rinvenuta nello scavo o sono semplicemente passati in quella data antica città nella quale stanno lavorando. In un testo più recente, partendo dalla lezione halbwachsiana della memoria come opera di costruzione che si sviluppa dalla contemporaneità (Halbwachs, 2001), Jan Assmann ha posto la lacuna fluttuante nella connessione tra una memoria comunicativa (legata all’esperienza quotidiana ed effimera) e una memoria culturale (legata invece ad un piano istituzionale e rituale). Scrive Assmann: “la distinzione tra memoria comunicativa e memoria culturale dipende da quella tra quotidianità e festa, tra profano e sacro, tra effimero e durevole/fondante, tra particolare e generale, e che questa distinzione ha una sua storia. La memoria culturale è un organo del ricordo extraquotidiano. La differenza principale rispetto alla memoria comunicativa sta nella sua formalizzazione e nella cerimonialità delle sue occasioni.” (Assmann, 1997, pag. 32).

65 “questo l’ha toccato uno che lavorava al forno”. Metto mano alle cose nel bagno delle donne e dico: “qui ci ha appoggiato il culo una donna romana!”. Magari uno dei miei parenti antichissimi da qui c’è passato. Io me la sento così. Magari un servo, che ha battuto il chiodo lì o chissà cosa. Però oh, io me la sento così.»

La pratica archeologica portata avanti da Claudia rivela un quadro di significati assai ingrovigliato che costringe a ripensare alle più comuni concezioni circa il lavoro e la professionalità. Quando per venti giorni consecutivi, dalle 7.00 alle 16.00, la quotidianità di Claudia è fatta dello scavo del crollo di un tetto, con dozzine di coppi39 identici gli uni dagli altri, tutti coperti dalla medesima tipologia di terra, non si faticherebbe troppo a chiamare in causa una qualche forma di alienazione, ancorché stereotipata ma pur sempre fatta di lavoro ripetitivo che Claudia non manca di segnalare con sbuffi e continue richieste di «quanto manca alla pausa?».

Claudia, anche quando esce dallo scavo, continua a confrontarsi con i suoi colleghi circa gli eventi che l’hanno vista protagonista nello scavo.

L’esistenza di Claudia e le sue relazioni fuori dallo scavo assumono una sorta di connessione simbiotica con le vicende lavorative dello scavo, le incognite, le metafore, i valori e le stesse competizioni che il tirocinio nel sito archeologico pongono a lei come agli altri praticanti. Il lavoro archeologico diventa parte della sua forma di vita.

Claudia si concentra sul lavoro in maniera ancora più indefessa poiché mossa dal desiderio di “mostrarsi” e mostrare (soprattutto a suo padre) le sue qualità di archeologa, le sue sensibilità archeologiche, il suo fiuto per le tracce, la loro comune unione nel segno dei nobili antenati romani antichi e contemporanei. Claudia si colloca in una storia identitaria rettilinea, fondante e legittimante. Dopo giorni e giorni di «coppi e cocci» finalmente Claudia ha l’occasione di padroneggiare un reperto più raro e più vivido, nella misura in cui un chiodo può mostrare ancora i segni delle martellate ricevute 2000 anni fa. Mi spiega infatti: «Oggi ho trovato un chiodino! Finalmente guarda, dopo tutti quei coppi che volevo prendere a picconate dalla disperazione. Il chiodino mi ha dato una speranza finalmente». Non si tratta esclusivamente di riuscire a individuare un reperto, per Claudia svolgere al meglio il proprio compito significa moltiplicare le occasioni per rinvigorire il legame con suo padre. Claudia sintetizza il concetto con una frase emblematica circa il senso dell’archeologia:

«Se una cosa ha senso per me allora ha senso […] se non ti emozioni, se non hai una soddisfazione allora quello non ha senso. Poi magari non trovo lavoro, ma è una passione che faccio per me.

39 Il coppo è una tipologia di tegola curva utilizzata dai romani e diffusa oggi in gran parte del bacino del mediterraneo

per la copertura dei tetti. Ha la forma di un terzo di tronco di cono, le dimensioni assai variabili si aggirano tra i 40-50 cm di lunghezza e i 13-20 cm di larghezza.

66 Noi lo facciamo perché dà senso alla nostra vita, lo scavo mi ha aiutato nella mia vita personale, mi ha aiutato sulla mia insicurezza personale. Io ho il terrore di sentirmi fuori luogo. Mi ha aiutato a stare insieme. Per questo ho detto che non mi farei problemi a farlo gratis, è brutto ma è così.»