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CAPITOLO 5 LA FABBRICA DEGLI IBRIDI

3. Una storia familiare

Nel territorio della Contea non è per nulla difficile imbattersi in qualcuno che si chiami Giannicola. Un cognome talmente diffuso in quest’area del Lazio che in molti casi è difficile anche stabilire se due Giannicola abbiano qualche legame parentale individuabile nelle recenti generazioni. Avere un cognome comune e stratificatosi nella storia locale non è una cosa da poco poiché, in seguito all’industrializzazione dell’area, la Contea è divenuta la terra promessa per numerosi nuovi abitanti, provenienti in particolar modo dalla provincia di Napoli e dalla provincia di Caserta.

Per quanto riguarda Giunio, pur manifestando una sorta di ironica adesione a questo criterio di autoctonia, mi riferisce di aver svolto delle ricerche storiche e genealogiche sul conto della sua famiglia paterna:

137 «Dunque, pensa che la mia famiglia qui [a Rane] passa per quella che era una di quelle più antiche, se però vai a vedere, i miei antenati erano dei massari, intesi come quelli che accudivano le bestie nelle fattorie. Gente che lavorava la terra e che poi sicuramente hanno fatto fortuna. In effetti le famiglie potenti, che c’erano in quel tempo, siamo praticamente un secolo e mezzo fa, erano pochissime. Perché? Perché quelle che comandavano, la mia compresa, quelli che avevano il potere erano quelle che avevano i terreni.»

Ma Giunio gode di un ulteriore legame parentale radicato nel territorio della Contea. Forse una discendenza ancora più notabile. Attraverso il ramo materno Giunio è imparentato con i Pelagesi, una famiglia importantissima che attraversa tutta la storia di Rane fin dal Seicento. In particolare il periodo che va dal Risorgimento alla Seconda Guerra Mondiale vede i componenti di questa famiglia come protagonisti di primo piano nelle vicende ranesi.

Giunio mi spiega:

«Sì diciamo che parliamo di una famiglia che all’epoca era la più in vista. […] Dunque, il papà di mia madre è stato anche lui sindaco di Rane, Gaetano Pelagesi […] Poi il papà di questo sindaco era stato deputato al parlamento, quel Pasquale Pelagesi a cui era dedicata la piazza. Praticamente questo Pelagesi partecipò a Napoli ai moti del Quarantotto e fu quattro volte deputato del Regno d’Italia, quando ancora il parlamento stava prima a Torino e poi a Firenze.»

Come tutte le famiglie notabili che si rispettino, i Pelagesi hanno lasciato nel centro abitato di Rane diversi segni del loro passaggio. Primo fra tutti l’omonimo palazzo che si affaccia sull’attuale piazza centrale, un tempo denominata, manco a dirlo, piazza Pasquale Pelagesi. Si tratta del medesimo palazzo in cui Giunio ha trascorso la sua infanzia, nonostante la distruzione parziale in seguito al bombardamento di Rane durante la Seconda Guerra Mondiale.

Mi racconta che «dal dopoguerra abbiamo vissuto sempre nei ruderi di questo palazzo Pelagesi. Si era conservata qualche stanza, ne ricordo una in particolare, che era la nostra camera da letto. E aveva ancora il soffitto a volta affrescato».

Il legame con questo angolo della piazza centrale di Rane sembra quasi irresistibile per Giunio, tant’è che dopo aver vissuto per qualche tempo in diverse abitazioni sparse per la Contea, decide di trasferirsi in pianta stabile in una casa a poche decine di metri dal punto dove sorgeva quel palazzo Pelagesi in cui era cresciuto. Dalle sue parole emerge il desiderio di aderire ad un legame ancestrale e al tempo stesso l’amareggiata constatazione che quel mondo, è proprio il caso di dire, sia andato completamente distrutto.

138 «Quando poi è morta mia madre ed è morto mio padre, io decisi di riattivare questa casa [in piazza]. Erano gli anni Ottanta, quindi erano passati dieci anni dalla [costruzione dello stabilimento] de La Fabbrica, la prima notte che ho dormito qui mi sono pentito. Perché mentre prima il paese era tranquillo, il casino immenso si è creato dopo. La trasformazione c’è stata, per carità, in effetti ha portato molto benessere, però […] qua è cambiato tutto. Dalla sera alla mattina. Tant’è che i primi anni che ho abitato qui maledicevo il nonno di mia madre che aveva fatto questa piazza. I miei che avevano scelto questo posto. Adesso non mi sono ancora abituato. Insomma… due tappi alle orecchie, chiudo le finestre, ho l’aria condizionata, certe cose servono. Fino a qualche mese fa avevo ancora gli infissi vecchi. Ho fatto questa spesa e adesso va meglio. Quindi qui il cambiamento è stato notevolissimo.»

Significativamente occorre notare che il percorso storiografico di Giunio abbraccia in particolar modo le vicende ranesi che vanno dal tardo Cinquecento fino all’arrivo dello stabilimento de La Fabbrica. Come a voler circoscrivere uno spazio cronologico da conservare, o meglio, un mondo da (ri)vificare attraverso il racconto, sulle pagine vergate da Giunio va in scena un Golem ranese, la cronaca di un Rane che non esiste più redatta all’insegna della nostalgia. Una Rane in cui, per fare un esempio, la distinzione tra signori (‘gnori) e cafoni è precisa, puntuale, non necessita di particolari interpretazioni al contrario della realtà contemporanea che vive Giunio:

«Qui c’è sempre stata quella cosa degli ‘gnori, che sta per “signore”. E ancora oggi capita che qualcuno me lo faccia, cioè che ti chiama ‘gnore. Ma non capisci mai se uno lo fa perché ti piglia per fesso o se lo fa per davvero. Siccome io rientro tra questi ‘gnori, io puntualmente ricambio, così siamo pari.»

Un’altra differenza che emerge tra la Rane raccontata da Giunio e quella della realtà contemporanea a Giunio è questo carattere più decisivo dell’azione umana conferito dal fatto che, come dice De Certeau, la scrittura della storia è un’operazione che già dall’inizio presuppone un inizio, uno svolgimento e una fine. Certo, una fine fittizia e parziale; ma proprio in virtù di questo carattere retorico della fine, la scrittura di una storia sembra configurarsi come la costruzione di una vicenda che ha il suo culmine nell’evidenza materica della contemporaneità. Nel caso che vorrei qui affrontare tale evidenza assume la forma più tangibile di un tratto di strada che connette la centralissima Piazza San Aurelio con la via Casilina.

Il volumetto scritto da Giunio Giannicola nel 1989 intitolato Rane, La traversa che mena alla

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amministrazione, costruzione e completamento di uno dei più importanti tracciati viari della Rane contemporanea.

In questo senso la scrittura della storia della traversa che mena alla consolare ha il carattere della edificazione del tracciato che centinaia di ranesi percorrono tutti i giorni più o meno inconsapevolmente per imboccare o uscire dal centro della città.

Vale la pena riportare l’incipit del volume che esordisce con una descrizione dello stato di grave crisi in cui si trova la cittadina di Rane:

“Quando accadevano i fatti che si stanno per raccontare, i tempi in cui Ranae godeva della privilegiata posizione sulla via Latina sono lontani secoli. Verso la fine della prima metà del XIX secolo Rane, infatti, oltre a non essere assolutamente paragonabile, per popolazione (“è poco

popolata, e li suoi cittadini appena giungono al numero di 500”, scrive l’Abate Ferdinando

Pistilli), grandezza e importanza, alla lontana antenata, diversamente da questa non si trova nemmeno più ubicata in una felice posizione strategica, ovvero su un’arteria rilevante. La strada Regia, che collega Caserta, capoluogo della Provincia di Terra di Lavoro, a Sora, capoluogo del distretto cui Rane appartiene, seppur progettata sulla falsariga della via Latina, da tempo in disuso, attraversa nella piana ranese la zona più accosto le pendici dei contrafforti del monte Grosso ed è dunque distante dall’abitato all’incirca due chilometri: se non si corre subito ai ripari, questa strada, che si è iniziata a costruire nel 1795, finirà con l’aggravare l’ormai secolare ed avvilente isolamento di Rane”(Giannicola, 1989, pag. 3, enfasi dell’autore).

Reso noto il problema che sta all’origine della storia, Giunio procede con il racconto delle vicende che individuano nella costruzione di questo nuovo braccio di strada una possibile strategia risolutiva alla crisi che affligge Rane:

“Ecco, allora, che si pensa ad un collegamento tra il centro urbano e la nuova strada. Una buona idea che, però, per concretizzarsi, deve attendere oltre dieci anni. Infatti, come spesso accade in casi del genere, ieri come oggi, del resto, c’è chi la vuole cotta e chi la vuole cruda; cioè, chi vuole che questo collegamento si faccia in un luogo, chi in un altro. Cosicché il tempo passa inutilmente finché non ci si mette d’accordo e si realizza, infine, la “traversa che mena alla Consolare”, o “provinciale”, come allora si chiama quella strada che sarebbe poi diventata la Casilina, detta anche “via Nova”, probabilmente per il fatto di costituire, ancora sino ad alcuni decenni or sono, un riferimento visto con un pizzico di invidia in un naturale e spontaneo confronto con il precario stato della viabilità locale.”(Giannicola, 1989, pag.3, enfasi dell’autore).

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La cronaca della genesi della nuova traversa di Rane si incrocia con il percorso biografico di un antenato di Giunio di primissimo piano:

“Tutto filerebbe per il verso giusto se il decurione Gaetano Pelagesi, che si firma, comunque, qualificandosi consigliere comunale, non ufficializzasse il suo dissenso all’iniziativa denunciando che il progetto per la costruzione della “traversa” in contrada Vaticciolo a parer suo nasconderebbe un “intrigo” col chiaro scopo di far “conseguire fini privati e non l’utile pubblico” (Giannicola, 1989, pag. 5).

Consecutivamente si può vedere una lunga lista di nomi che non sembra costituire un’informazione particolarmente interessante per un lettore “forestiero”, mentre per una serie molto ristretta di abitanti della contea tale elenco rappresenta la certificazione della loro “autoctonia” (Sagnes, 2015). Ecco dunque il motivo della lunga lista di cognomi diffusi nella Contea, che la scrittura della storia sancisce in una inestricabile relazione con la costruzione della strada:

“Firmano il documento Francesco e Gregorio Di Branco, Michelangelo Frattale, Raffaele Fusco, Gaetano Pelagesi, Vincenzo Spezia e Vincenzo Venditti, facente funzioni da Sindaco, tutti nomi che, insieme a quelli di Giuseppe, Marcantonio e Rocco Bonanni, Giovanni Battista Di Branco, Claudio Donfrancesco, Antonio e Raffaele Fusco, Francesco e Giovanni Battista Iadecola, Giuseppe e Marco Mazzaroppi, Francesco e Nicola Morelli, Giuseppe e Marcantonio Pelagalli e Vincenzo Pietrantuono compaiono come esponenti del Decurionato ranese nell’arco di tempo in cui si sviluppa la storia della “traversa”.” (Giannicola, 1989, pag. 16).

Il volumetto termina con il racconto della realizzazione della strada e con il riferimento agli immancabili strascichi amministrativi e finanziari conseguenti.

Mi sono soffermato sulla descrizione di questo scritto di Giunio perché mi sembra che il testo sia attraversato da una precisa preoccupazione esistenziale. Ciò che mi sembra emerga è l’affresco di una Rane modesta, qua e là però fanno la loro comparsa degli uomini risoluti, spesso parenti diretti di Giunio, sempre comunque dotati di cognomi tipici della Contea. Sono personalità che riescono a condizionare la realtà in maniera talmente approfondita da “creare dal nulla” un pezzo di strada che ancora oggi ranesi, forestieri, turisti ed antropologi vari percorrono, spesso senza sapere a chi riconoscere il “merito” (purtroppo per Giunio).

Ma non solo, la costruzione della strada sembra aver giocato un ruolo centrale nella strutturazione dell’ancora oggi attivo mercato domenicale di Rane, una realtà molto vivida anche nella contemporaneità, un appuntamento settimanale atteso da giovani e anziani che fa convergere in

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città un nutrito gruppo di abitanti “forestieri”; si tratta di una «tradizione» che, in un certo senso, deve il suo merito all’azione di questi “lungimiranti ranesi di duecentocinquanta anni fa”.

Epperò, questa capacità di condizionare la realtà che Giunio racconta non ha eguali nella realtà che Giunio vive. L’una è una realtà ormai “verificatasi” nella forma (de)finita del testo storiografico prodotto da Giunio; l’altra è una realtà in cui il disamore per la vita politica si accompagna ad una inesorabile sensazione di inefficacia, un persuaso fatalismo circa l’impossibilità di lasciare segni tangibili, fatta eccezione proprio per quella capacità di produrre un Golem archeologico che, più o meno inefficace rispetto alla costruzione di una strada, lascia comunque delle tracce nel mondo.

In questo senso l’abitudine di ritrovarsi insieme agli altri intellettuali locali, in quella gelateria della Contea, si configura come la (ri)produzione di uno spazio sociale a “misura d’uomo”, il rinvigorimento di relazioni che permettono la condivisione di valori, obbiettivi, modi di vita e punti di vista che altrimenti non troverebbero spazio da nessun’altra parte.