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CAPITOLO 5 LA FABBRICA DEGLI IBRIDI

1. Una matassa di storie ingarbugliate

Questa storia è ambientata nei dintorni della valle del fiume Liri in un’area del Lazio Meridionale, in provincia di Frosinone, a cavallo tra i territori di Lumache e di Rane che da qui in avanti chiamerò la Contea. È una storia che ha talmente tante origini che chi si trova a doverne selezionare una non può che vivere il proverbiale imbarazzo della scelta.

È una storia che comincia sin dalla Protostoria, a partire dal Bronzo Medio/Bronzo Finale, quando si assiste ad un incastellamento ante litteram le cui tracce sono ancora oggi visibili in cima al monte Secco, in territorio comunale di Lumache.

Ma è una storia che comincia anche nel IV sec. a.C., quando si assiste ad un’evoluzione urbanistica che interessa tutta l’area. La gente insediata sul Secco comincia a scendere a valle, proprio in coincidenza del confine che oggi corre tra il comune di Lumache e quello di Rane, recandosi in una pianura rigogliosa e talmente ricca di acqua che la nascente cittadina di Ranae prende il nome proprio da questa abbondanza di stagni.

Ma ancora, questa storia comincia nella seconda metà del III sec. a.C., quando la città di Ranae è ormai una realtà urbana affermata a tal punto dal potersi permettere una emissione monetale all’interno di un circuito con altre città campane più o meno vicine.

Forse, sarebbe meglio dire che questa storia comincia dopo il 125 a.C., quando i romani assaltano la vicina città di Fregellae e la radono al suolo per lanciare un segnale ben preciso a tutte le altre cittadine nei dintorni nel caso in cui queste manifestassero l’intenzione di contraddire la nascente potenza latina. Il punto di riferimento politico dell’area si sposta da un’influenza campana a una decisamente più romana. La città di Ranae assume il ruolo di centro manifatturiero specializzato nella produzione e nella tintura di stoffe, come ricordano anche alcuni passi di Orazio.

Per altri ancora questa storia comincia invece a cavallo tra IV e V secolo d.C. quando Ranae viene lentamente abbandonata in favore degli speroni rocciosi più facilmente difendibili dagli attacchi delle popolazioni barbariche.

Succede così che dalle rovine dell’antica città di Ranae sorgono almeno due insediamenti; uno intorno alla cima del Monte Secco che diventerà l’attuale borgo di Lumache, un altro nelle immediate vicinanze della Ranae romana e che da questa conserverà il nome giunto fino a noi di Rane, da cui la Contea di Rane, piuttosto celebre per il suo passato medievale.

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A intricare la matassa degli incroci e dei passaggi d’identità della Contea si devono aggiungere altri confini che nel corso del tempo hanno interessato un raggio di territorio leggermente più ampio, come nel caso del confine tra Stato Pontificio e Regno delle Due Sicilie, il passaggio da un’attrazione degli ‘gnori (signori) locali per la Napoli dei Borbone, a un’attrazione per la Roma oramai divenuta capitale d’Italia; il passaggio dalla Provincia di Capua a quella di Frosinone, nel quadro dei rimaneggiamenti fascisti; oltre alle vicende legate alla Battaglia di Montecassino.

Come se non bastasse, agli inizi degli anni Settanta, l’insediamento nel territorio di una importante stabilimento industriale, che qui chiamerò La Fabbrica, produce due ulteriori confini identitari: uno tra l’universo agreste e quello dell’industrializzazione, un altro tra “i locali” e gli “operai napoletani” giunti con le loro famiglie in seguito ad una agognata assunzione nell’indotto de La Fabbrica.

Qualcuno potrebbe domandarsi quale sia il motivo di una tale riflessione etnografica all’interno di un lavoro dedicato al senso della professionalità archeologica e al ruolo che essa svolge sulle soggettività che la praticano. L’idea è quella di osservare il medesimo processo all’interno di un territorio ben preciso, cioè osservare se e come le pratiche archeologiche influenzano le culture dei contesti in cui opera.

In questo capitolo mi soffermerò su questa relazione tra industria, identità e racconto del passato. Un nodo che torna continuamente in molta letteratura etnografica sui processi di deindustrializzazione. Dalla Baltimora studiata da Harvey (2001) ai processi di patrimonializzazione dello stabilimento di Nowa Huta studiati da Pozniak (2013) e in altri saggi, quel che torna sempre sono questi tentativi di influenzare lo spazio per (ri)produrre un racconto del proprio passato, quindi una identità.

Il tema dell’identità e del senso dei luoghi è al centro dell’etnografia che Mary Dudley (1994) ha condotto sul processo di deindustrializzazione che ha coinvolto la fabbrica Chrysler di Kenosha, nello stato americano del Wisconsin. In The End of the Line l’autrice si concentra sulla descrizione di come le grandi trasformazioni imposte dal mercato globale abbiano avuto profondissimi effetti sulle vite degli abitanti di Kenosha. Questi ultimi, caratterizzati da una quasi secolare “cultura operaia”, alla chiusura dello stabilimento automobilistico si vedono “costretti” a convertire il loro modo di vita. Dudley descrive il passaggio da un sistema valoriale incentrato sulla predominanza della “cultura della mano” (culture of the hand), a una incentrata sulla “cultura della mente” (culture

of the mind) cioè la cultura dei colletti bianchi della rampante middle-class.

Dalla etnografia di Dudley vorrei trarre in particolare quei passaggi del testo in cui si riflette su questo senso di incompletezza e di inadeguatezza che pervade tutte quelle figure che non si adeguano al modello culturale egemone (sia perché non possono, sia perché non vogliono). Si tratta

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di una serie di processi che avvengono proprio attraverso un’opportuna opera di (ri)significazione di storie, spazi e identità:

“The decline of manufacturing leaves its most permanent mark on the urban landscapes it is irrevocably changing. As economic restructuring alters our roles in the marketplace, it also reorganizes our sense of “place” as it transforms the character of specific places. Place is a kind of cultural artifact that dramatizes, in the rise and fall of various landscapes, the conflitct and cohesion of the social groups occupying the geographical space. Political conflict and cultural antagonism are expressed and exprecienced in the kind of built environments that rise out of the rubble of deserted factory towns.” (Dudley, 1994, pag. 28).

In questo quadro riflettere sul contesto della Contea significa osservare la nascita e l’evoluzione di necessità di (auto)rappresentazione e (auto)percezione prodotti proprio dalla profonda mutazione socioeconomica e valoriale impressa su questo territorio.

Richiamandomi a Dudley cercherò di illustrare il passaggio degli abitanti della Contea da una “cultura mezzadrile” a una “cultura operaia” e poi da questa a una nuova “cultura da classe media”. Naturalmente il panorama si presenta assai più stratificato e queste diverse “culture” di cui parlo segnalano delle tendenze e non certo degli insiemi essenzialistici.

Nell’arena locale della Contea operano svariati attori che si pongono più o meno palesemente l’obbiettivo di risolvere queste ansie (auto)rappresentative. Gli stereotipi ed i frutti della pratica archeologica offrono un set piuttosto efficace di strumenti per tale operazione.

Come abbiamo visto nella prima parte di questa ricerca, la destrezza del buon archeologo si vede proprio dalla sua capacità di conferire vita ad uno specifico Golem archeologico, cioè ad un ordine morale e spazio-temporale definito all’interno di una caotica realtà complessa fatta di sovrapposizioni, rimaneggiamenti, fratture, sporcizie e immoralità. Si tratta proprio di quel disordine che secondo molti pervade tutto il territorio della Contea così come buona parte dei suoi abitanti.

La letteratura sullo spazio restituisce una ricca messe di prospettive che tuttavia si basano tutte su una mutua costituzione di spazio e pratiche (Low, 2017; Giddens, 1979; Bourdieu, 1979).

Scrive Tilley:

“Place is both “internal” and “external” to the human subject, a personally embedded centre of meanings and physical locus for action. All place thus have metonymic qualities (places and their contents consist of part-whole relations) and differential densities of meanings to their inhabitants according to the events and actions they wittness, partake in and remember” (Tilley, 2004, pag. 18).

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Osservando la dimensione politica di questi processi di (ri)produzione dello spazio uno degli aspetti che più saltano agli occhi è che le possibilità di accesso a questa riproduzione sono in diretta relazione col posizionamento di gruppi e individui all’interno di un campo di potere70.

Esplorarne le diverse modalità di raccontare il luogo significa osservare come i gruppi di interesse più potenti escludono o cercano di depurare la storia e la memoria dalla presenza di tutti quei residenti più poveri e che non si prestano al modello proposto dall’egemonia (Pozniak, 2013; Altena e van der Linden, 2011; Mollona, 2009; Harvey, 2001; Dudley, 1994).

Cercherò di mostrare l’opera narrativa messa in campo da diversi soggetti dell’arena locale al fine di condizionare e (ri)strutturare rappresentazioni e forme del territorio della Contea e dei suoi abitanti71. Come scrive Tilley:

“The naming and identification of particular topographical features, such as sand dunes, bays and inlets, mountain peaks, etc. settlement and sites is crucial for the establishment and maintenance of their identity. Through an act of naming and through the development of human and mythological associations such places became invested with meaning and significance. Place names are of such vital significance because they act so as to transform the shearry physical and geographical into something that is historycally and socially experienced” (Tilley, 2004, pag. 18).

La pratica archeologica, con il suo carattere oggettivante (Miller, 2005, 1998; Handler, 1985), cioè con la sua capacità di mostrare ciò che è invisibile, si configura come un potente mezzo per intervenire sulla contemporaneità, (ri)produrre una distinzione concreta e tangibile atta anche a contrastare e a giocare con un quadro di essenzialismi locali (Teti, 2013; Herzfeld, 1997).

Nel 2008, dopo un primo saggio esplorativo di pochi metri quadri, prende avvio una campagna di scavi archeologici che nel corso degli anni porterà alla luce un importantissimo impianto termale, secondo alcuni capace di rivaleggiare con quelli di Pompei. Si tratta delle terme dell’antica città romana di Ranae, in territorio di Lumache.

70 Così come pianificatori e architetti possono realizzare delle approfondite trasformazioni di spazi è anche vero che i

destinatari di questi progetti possono mettere in campo delle forme di contestazione piuttosto vigorose al fine di condizionare tutte quelle pratiche che li assoggettano al dominio di elites governative ed economiche (Low, 2017; Sawalha, 2010; Herzfeld, 1991; Castells, 1983; Lefebvre, 1974).

71 In tal senso le intuizioni di Austin (1962) sulla fattualità attiva delle parole mostrano come i discorsi sulla località, lungi

dall’essere un semplice racconto, sono utilizzati per avanzare richieste di controllo e diritti su una determinata località: “A fundamental tenet of sociolinguistics is that language is a form of social practice historically situated and dialectical to the social context, thus both socially shaped and socially shaping. Since language is widely perceived as transparent, it is often difficult to see how language produces, reproduces and transforms social structures and social relations. Yet it is through talk and discourse that social control and social domination are exercised – through the everyday social action of language” (Low, 2017, pag. 124).

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Il Golem archeologico messo in moto nella Contea non è un’entità volatile, ma uno spazio reale e definito, all’interno del quale si muovono altri esseri umani alla ricerca di senso, moralità e di una modalità per impattare sulla contemporaneità.

In questo quadro, un contesto spesso rappresentato come problematico, impuro e sbagliato è un contesto più predisposto all’accoglienza di caratteri distintivi che si accompagnano all’evidenza tangibile del Golem archeologico, con i suoi reperti, le statue di marmo, lo splendore (ri)vivificato e gli edifici monumentali, maestosa testimonianza di una grandezza alla quale bisogna ritornare. Più o meno involontariamente il sapere degli archeologi produce dei risultati sugli abitanti che vivono nel loro Golem così come gli archeologi finiscono nel Golem degli abitanti costituito soprattutto da una particolare nostalgia strutturale (Herzfeld, 1997).

Gli attori dell’arena politica, nella febbrile ricerca di sistemi per raccontare e raccontarsi, non esitano a giocarsi queste preziosissime risorse più o meno simboliche (i famosi beni culturali) nelle arene della valorizzazione territoriale e turistica (Simonicca, 2014; Iuso, 2011). Ma non sempre tutto va nel verso che si era previsto, negli interstizi delle località, negli spazi intimi, i movimenti del Golem sembrano più incerti poiché questi si trova costretto a misurarsi con esigenze diverse e diversi sistemi di oggettivazione, ora in combutta, ora in conflitto.

Quel che ne emerge è l’esigenza di fare a patti con una realtà confusionaria, complessa e sfuggente che continuamente sottopone gli abitanti di Rane e Lumache alla febbrile ricerca di una soluzione al comune problema dell’identità multipla, dell’ibridismo, delle identità “bastarde” e di quelle “né carne né pesce”.

Il bisogno di essere unici è per definizione un bisogno esclusivo.