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CAPITOLO 3 LA SCIENZA DI SÉ

1. Due anime del medesimo lavoro

Ho iniziato a seguire un corso universitario di metodologia dello Scavo Archeologico a partire dal mio primo anno di ricerca dottorale. L’ho fatto con l’intenzione di intraprendere un percorso didattico (e riflessivo) più vicino possibile all’esperienza di una matricola universitaria alle prese con il suo primo anno di archeologia e culminante con il suo primo scavo archeologico31.

Le lezioni, molto piacevoli, si dipanano attraverso il fille rouge costituito dal volume Lezioni

di Archeologia di Daniele Manacorda (2008). A partire dalla scelta del manuale e dal contenuto delle

lezioni, la docente si sforza di trasmettere agli studenti una prospettiva epistemologica piuttosto precisa, preoccupata di schierare i futuri archeologi all’interno di un campo di studi italiani caratterizzato da due indirizzi piuttosto conflittuali (Barbanera, 2015, 1998). Sarebbe a dire una prospettiva più storico-artistica, che si cura esclusivamente degli oggetti di pregio e alla critica canonica; e una prospettiva storico-ricostruttiva, attenta alla dimensione quotidiana delle vite passate che si occupa anche (e soprattutto) di quella che, per citare una lezione, «un tempo si chiamavano schifezze o monnezza»32.

La professoressa spinge molto su questo concetto e ci spiega che:

«spesso si trovano delle “schifezze” che non sono utili all’analisi stilistica. Cosa ci fa uno storico dell’arte con duemila frammenti di ceramica da mensa? Niente. Ma possono invece essere una miniera d’oro per l’archeologo [poiché il lavoro dell’archeologo è proprio quello di] mettere in relazione tutto per raccontare una storia. [Inoltre] il contesto ci permette di partire dalle cose ed arrivare alle persone».

È questo il cuore dell’impresa archeologica che si propone di utilizzare «tutti i metodi che servono a capire una realtà che non esiste più».

La professoressa ci racconta del suo insegnante che gli disse: «“non voglio sapere quello che hai trovato, ma quello che è successo”».

31 Prima di questa ricerca etnografica non avevo mai avuto alcuna esperienza di scavo archeologico.

32 Senza dubbio questa ultima prospettiva accomuna la maggior parte i contesti archeologici nei quali ho lavorato a Roma

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A questo punto la professoressa sfodera uno dei più affascinanti paragoni sull’archeologia che io abbia mai sentito. Ci racconta di aver letto recentemente il libro La segreta geometria del cosmo dell’astrofisico Jean-Pierre Luminet (2004), «un astrofisico che non è interessato a studiare le stelle ma vuole studiare lo spazio buio intorno ad esse. Così noi dobbiamo studiare il buio tra le stelle».

In aula si ode una generale risatina di compiacimento, alcuni studenti strabuzzano gli occhi eccitati. La professoressa continua: «bisogna entrare in quel mondo e riempire le assenze», per farlo «occorre servirsi di un metodo» poiché «la metodologia unisce delle premesse culturali attraverso delle procedure scientificamente organizzate». Ma bisogna stare attenti, ci avverte, poiché «il passato è una brutta bestia» e «l’archeologo è il killer della materialità» poiché distrugge le sue fonti mentre fa la ricerca, «scavare non è smuovere la terra. Scavare è un’analisi scientifica a tutto tondo», ci spiega.

Rivolge una domanda a sé stessa e a noi: «Ma tutto questo che senso ha? Che ce ne importa a noi dei romani?». La professoressa ci dice che esistono due risposte, una istituzionale: «dobbiamo avere la consapevolezza che si sta svolgendo un servizio culturale per la collettività»; ma esiste anche una risposta personale, «ma proprio perché è personale appartiene ai propri percorsi, la risposta è soggettiva». Ecco dunque che si verifica il fatidico incontro con la trappola scientista, si biforca la pratica archeologica in due realtà che non devono assolutamente entrare in contatto al fine di non contaminare la legittimità scientifica dell’archeologia.

È nel medesimo senso che è possibile interpretare la chiacchierata che faccio con una studentessa di magistrale con sufficiente esperienza da responsabile di un settore di scavo. Lucrezia mi spiega che fare archeologia significa essere spinti da due motivazioni: «una pubblica e una personale». Quella pubblica riguarda la «valorizzazione del patrimonio, rendere le persone consapevoli del loro passato», quella personale, invece, riguarda «la percezione di un qualcosa… restituire la vita a qualche cosa che non ce l’ha più ma che ha lasciato traccia di sé».

Lucrezia mi parla di quello che scoprirò poi essere il “grande classico” delle emozioni da scavo cioè l’individuazione delle piccole tracce di vita quotidiana: le zampettate di un gatto sui mattoni, il segno delle impronte digitali su di un coccio, il segno della combustione su una lucerna e via di questo passo. Mi spiega che a volte le «capita di pensare che queste cose le abbiano lasciate per te, è una cosa emozionante… però vabbè…». Lucrezia non conclude la frase tuttavia mi sembra evidente che ella non si sognerebbe mai di scrivere in un articolo scientifico nulla di tutto questo. Ciò

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chiama in causa l’attenzione spasmodica che un bravo archeologo deve utilizzare per evitare che il lato personale prenda il sopravvento su quello collettivo33.

Per quel che mi interessa questa particolare preoccupazione per lo sporco e per il pericolo della trasmissione contaminata mi sembra il diretto risultato di una concezione della professionalità come applicazione meccanica di una tecnica che rinchiude in compartimenti stagni le due anime dell’archeologa: quella collettiva e quella personale.

Questa visione dell’archeologia come mera dissipazione di forza lavoro archeologica34, a mio

parere, è uno dei limiti che l’archeologia si possa dare e che è possibile anche rintracciare in quelle etnografie dell’archeologia portate avanti da Edgeworth (2006, 2003) e Abu El-Haj (2001). Si tratta di pensare allo scavo come un luogo chiuso, all’interno del quale gli esseri umani conducono un’impresa fine a sé stessa.

Al di là delle distinzioni analitiche funzionali le svariate strategie epistemologiche disciplinari il tema del lavoro ha senza dubbio stimolato il dibattito antropologico spingendolo ad osservare come questo sia un fenomeno comune a tutta l’umanità e allo stesso tempo come questo fosse continuamente soggetto alle variegate organizzazioni dei modi di vita (Angioni, 1986, 1984).

“Un contributo originale dell’etnologo e del demologo allo studio del lavoro sembra poter venire per lo meno come conseguenza della tipica preoccupazione dell’antropologo di considerare anche questo fenomeno come una variabile sociale e culturale, senza però essere portato a dimenticare o a trascurare quanto di generale, transculturale, elementarmente umano direbbe Cirese, gioca il suo ruolo, e senza perciò abbandonare la preoccupazione di affinare sempre più le nozioni, a cominciare con quella di lavoro, verso la generalizzazione, la formulazione minima e universale, interdisciplinare, che tenga fermi alcuni punti nell’estrema variabilità della fenomenologia.” (Angioni, 1984).

Se si volge lo sguardo al mondo dell’archeologia italiana ciò che spesso sembra emergere è che la tecnica archeologica e l’apprendimento di essa è scisso in un ruolo biforcato e disgiunto: da un lato l’adesione pressoché acritica alle tecniche e agli strumenti dello scavo, dall’altra il portato emotivo di significati e relazioni sociali. Occorre denaturalizzare questo modo di fare.

Diversi studi hanno illustrato come gli individui semplicemente partecipando ai contesti di lavoro ne escano in qualche modo influenzati nell’identità (Ardener e Moore, 2007; Wenger, 2006; Wright, 1994).

33 Forse questa specifica preoccupazione potrebbe apparire come il tentativo di adoperare il metodo riflessivo ma ad uno

sguardo più approfondito l’idea rivela più di una sfumatura positivista poiché si presuppone che l’applicazione zelante del metodo garantisca il raggiungimento di un punto di vista neutrale su ciò che si guarda.

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È proprio su quest’ultimo aspetto che vorrei concentrare la mia ricerca. Tenterò cioè di realizzare una descrizione etnografica di come la pratica archeologica trasforma l’identità dei propri praticanti e allo stesso tempo come l’identità dei praticanti trasforma l’archeologia che praticano.

La riflessione sul carattere sociale e culturale del lavoro è stata al centro della celebre etnografia di Paul Willis (2012) sui giovani lads inglesi della seconda metà degli anni Settanta. Il volume parte dalla apparentemente contraddittoria constatazione che i giovani della classe operaia vanno a lavorare in fabbrica perché lo scelgono da sé e non perché “non hanno scelta”. In questo senso l’adesione culturale all’universo di significato della working class individuata da Willis effettua una decisa rottura con tutta una serie di modelli marxisti che avevano dato per scontato il crudo e incontrastato potere della riproduzione capitalistica.

Scrive Willis:

“Ciò che voglio sostenere non è semplicemente che i figli ʻfallitiʼ della classe operaia si collochino sulla curva discendente del lavoro nel punto in cui si ritirano gli individui meno ʻriuscitiʼ della classe media, o i figli ʻvincentiʼ della classe operaia. Invece di dare per scontato che la società articoli la sua struttura occupazionale/di classe per gradi progressivamente inferiori di abilità, dobbiamo comprendere la radicale rottura che l’interfaccia delle forme culturali rappresenta. […] E questa cultura di classe non è un modello neutrale, una categoria mentale oppure un insieme di variabili che colpiscono la scuola dal di fuori. Essa anzi comprende esperienze, relazioni, e insiemi di tipologie sistematiche che stabiliscono non solo ʻscelteʼ e ʻdecisioniʼ particolari in tempi particolari, ma strutturano nella vita reale anche il mondo in cui tali ʻscelteʼ siano realizzate e soprattutto definite” (Willis, 2012, pag. 84, enfasi dell’autore).

Willis sposta il fulcro dell’analisi sulla dimensione intima e manipolatoria del lavoro e della professionalità35. Un’esperienza umana descritta attraverso i caratteri dell’informalità e che tuttavia costituisce un set di skills e valori atti a stabilire il posizionamento di questi giovani maschi nell’universo sociale in cui sono immersi nonché nella temperie culturale dei tardi anni Settanta, una realtà fatta di consumo performativo e costruzione identitaria (Simonicca, 2012).

35 Come cercherò di mostrare nelle pagine che seguiranno i medesimi processi di manipolazione informale del processo

produttivo sono il fulcro della pratica archeologica di studenti e professionisti. In tal senso, scrive Willis: “Un altro tema importante della cultura di fabbrica – almeno per quanto ho avuto modo di osservare e registrare nelle fabbriche manifatturiere delle Midlands – è costituito dal tentativo di acquisire il controllo informale del processo lavorativo. La limitazione del risultato, anche detto ʻrallentamento sistematicoʼ o ʻfare lo scansafaticheʼ da Taylor (1911) in poi, è stato osservato dal punto di vista particolare del manager; tuttavia è evidente che il tentativo di acquisire il controllo del processo produttivo – sebbene ancora informalmente – sia un processo molto più concertato. Talvolta accade che siano gli stessi uomini a determinare da ogni punto di vista per lo meno l’organico e il ritmo di produzione. Ancora una volta questo aspetto, per noi, si riflette nei tentativi che compiono i ragazzi della classe operaia di ricorrere all’ausilio delle risorse della cultura di appartenenza, per prendere il controllo delle classi scolastiche, sostituirvi i loro orari non ufficiali, controllare le proprie routine e i propri spazi di vita” (Willis, 2012, pag. 147, enfasi dell’autore).

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Facendo tesoro della lezione di Paul Willis, ma tenendo a mente che l’archeologia gode di un riconoscimento istituzionale di gran lunga più elevato dell’universo operaio, non sembra un azzardo affermare che è proprio in virtù di questo carattere gnoseologico e valoriale che si gioca questa opera di (ri)collocazione sociologica nel mondo.

L’archeologia penetrando nei recessi più reconditi del proprio sé preriflessivo attraverso i ben noti processi di incorporazione del sapere dota i rispettivi praticanti di una padronanza da utilizzare anche al di fuori del contesto prettamente archeologico. L’archeologia sia come prassi scientifica che come tecnica del sé, al pari di una religione, assume la funzione pratica e politica di assolutizzazione

del relativo e di legittimazione dell’arbitrario36.

Ecco che allora la biforcazione della pratica archeologica in “lavoro di Stato” e “lavoro per sé” favorita dalla trappola scientista diventa decisiva per circoscrivere un’area esclusiva di intervento, contatti, pratiche e vicinanze consentite. La sensazione fortissima è che la riproduzione di questa distinzione tra professione strumentale e professione gratificante, tra professioni “da dovere” a professioni “da piacere”, si giochi la fondamentale partita per il monopolio del controllo del punto di vista ufficiale. In tal senso la riproduzione di un confine tra pubblico/oggettivo e privato/soggettivo costituisce la maschera di Stato dietro la quale i diversi attori ai vertici possono porsi al riparo dalle contaminazioni e dalle molteplici negoziazioni di senso che il patrimonio archeologico e le pratiche archeologiche quotidianamente (ri)costruiscono.

Vorrei sottolineare che con questo discorso non intendo denunciare o disvelare chissà quali disoneste manipolazioni. Su questo punto spero davvero di non essere travisato. Ho avanzato la definizione di trappola scientista proprio per richiamare l’attenzione sul carattere culturale di un tale atteggiamento “distintivamente scientista”. Nelle pagine che seguiranno cercherò di mostrare un ventaglio di pratiche archeologiche personali che vedono la luce negli spazi angusti dei contesti

36 Mi sembra che il testo sulla genesi e la struttura del campo religioso di Bourdieu possa illustrare in maniera esaustiva

sia l’adesione alla scienza archeologica positiva che la relativa e contrapposta adesione all’archeologia “non autorizzata” o “impura”. Scrive Bourdieu: “In quanto sistema simbolico strutturato funzionante come principio di strutturazione che: (1) nel momento stesso in cui la esprime, costruisce l’esperienza in forma di logica allo stato pratico, di condizione impensata di ogni pensiero e di problematica implicita – ossia di sistema di questioni indiscusse delimitanti il campo di ciò che merita di essere discusso di contro a ciò che è fuori discussione, e quindi ammesso senza discussione – e che, (2) in virtù dell’effetto i consacrazione (o di legittimazione) prodotto dalla semplice esplicitazione, impone un cambio di natura al sistema delle disposizioni verso i mondi naturale e sociale inculcate dalle condizioni di esistenza, trasformando in particolare l’ethos come sistema di schemi impliciti di azione e valutazione in etica come insieme sistematizzato e razionalizzato di norme esplicite, la religione è predisposta ad assumere una funzione ideologica: funzione cioè pratica

e politica di assolutizzazione del relativo e di legittimazione dell’arbitrario che può svolgere solamente nella misura in

cui essa assicura una funzione logica e gnoseologica e che consiste nell’accrescere la forza materiale o simbolica in grado di essere mobilitata da un gruppo o da una classe tramite legittimazione di tutto ciò che definisce socialmente questo gruppo o questa classe – ossia di tutte le proprietà distintive di un modo di esistere tra i tanti, tratti perciò stesso arbitrari che al gruppo o alla classe si associano per il fatto stesso che occupano una determinata posizione nella struttura sociale (effetto di consacrazione nei termini di una sacralizzazione tramite «naturalizzazione» ed eternizzazione).”(Bourdieu, 2012, pp. 94-95, enfasi dell’autore).

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intimi. Sono del parare che tali potenzialità creative ed esistenziali possano dotare i siti archeologici di spunti fruttuosi nell’ottica di una valorizzazione attenta ai contesti sociali circostanti.

La tesi che vorrei proporre parte dall’idea, forse un poco controintuitiva, che proprio la rinnovata considerazione politica e sociale di questa forza (ri)costruttiva personale possa rivelarsi una preziosa risorsa alla quale attingere ogniqualvolta gli scavi archeologici ed i relativi beni sembrano vivere isolati dal contesto sociale e ambientale circostante, abbandonati come frutti avvelenati di una purezza che li ha resi quasi completamente incommestibili. Aprire lo scavo alle incognite e alle aspettative di studenti, professionisti e appassionati (locali o outsiders) significa riconfigurare l’archeologia da prassi ricostruttiva-normativa a prassi ricostruttiva-sociale e sociologica.