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CAPITOLO 2 L’ANTROPOLOGO SCARRIOLANTE

2. Scavare o non scavare?

Fare l’etnografia di uno scavo archeologico, specialmente se si tratta di uno scavo archeologico didattico, comporta una particolare tipologia di partecipazione etnografica. Mi riferisco alla peculiare possibilità di poter vivere la professionalità che si vuole studiare, osservando sulla propria pelle i ritmi, le gerarchie, le tensioni, le incognite e i valori che la muovono.

Ed ecco che si fa avanti un primo quesito che ricorda un po’ l’essere o non essere shakesperiano: scavare o non scavare? Essere talmente presi dalle fatiche e dagli impegni dello scavo dal non riuscire neppure ad avere il tempo di riflettere su ciò che si sta facendo? Costringendosi poi, se si ha tempo e memoria, a delle nebulose scritture diaristiche prima di andare a dormire esausti. Oppure abdicare il più possibile la collaborazione archeologica in favore di un ascolto minuzioso e riflessivo, magari con tanto di taccuino? Da qualsiasi punto la si guardi, la questione presuppone dei punti di forza così come dei punti di debolezza ed emergono una postura maggiormente osservante e una postura maggiormente partecipante. È questa la ragione che mi ha suggerito di adottarle entrambe al fine di utilizzare l’una per illuminare l’altra.

Per postura partecipante intendo un’adesione più completa possibile alle regole del gioco archeologico, con le sue politiche, le sue ingiustizie, le sue gerarchie ed i suoi obbiettivi. Si tratta di una postura immersa a riflettere e oggettivare le emozioni e le aspettative interiori vissute durante la giornata. Ho saggiato sulla mia pelle il senso di umiliazione scatenato dalla mancanza di fiducia da parte del mio caposettore allorquando, insieme agli altri “novellini”, siamo stati spostati dalle incombenze dello scavo e del contatto con il disvelamento della stratigrafia, al meno bramato lavaggio e asciugatura dei cocci. E sempre sulla mia pelle ho saggiato la forza emotiva del ritrovamento di un

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reperto, così come quella dell’essere giudicato da alcuni “novellini” come una figura alla quale chiedere indicazioni e suggerimenti su come procedere con il lavoro.

Come illustrano bene le ricerche sulle comunità di pratica, è proprio il senso comune del gruppo ad esercitare una forza attrattiva per tutti quegli adepti che iniziano un processo di incorporazione di un sapere. Lentamente, e in base alle relazioni che scelgono di saldare, così come a quelle che scelgono di troncare, i “novellini” superano quel percorso disseminato di imponderabili e gaffes per arrivare ad una partecipazione situata “spontanea” produttrice di una identità. Le azioni e le relazioni si traducono in appartenenza e partecipazione (Wenger, 2006; Lave e Wenger, 2006).

Eppure, di per sé, questa postura partecipante non basta, poiché è proprio attraverso il processo di incorporazione dell’identità professionale che si realizza quella tacita sottomissione naturalizzante che non permette l’oggettivazione del percorso nel quale si è rimasti invischiati e coinvolti27. Proprio

perché si tratta di una dotta ignoranza, un sapere che si dà per scontato, questo presenta l’insidiosa caratteristica di mutare piuttosto in fretta da “bisogna fare così” a “è così” (Bourdieu, 1972).

È per tal motivo che ho deciso di associare alla postura partecipante una postura osservante, sarebbe a dire una dimensione riflessiva e di rottura col senso comune, un qualcosa con un coefficiente di alterità e di estraneità adeguato all’individuazione di tutte quelle alternative proposte dagli altri partecipanti alla comunità provenienti da percorsi altri. Come fare? Ho cercato di mutare il mio atteggiamento e con esso la mia posizione all’interno del campo sociale in cui sono coinvolto. Da una docilità alle regole dello scavo alla richiesta di maggiore libertà di manovra28.

Passare dalla postura partecipante alla postura osservante rende possibile, ad esempio, l’individuazione di questioni relative alla costituzione e gestione delle diverse squadre nei diversi settori di scavo. In moltissime occasioni, infatti, ho avuto la percezione che la collocazione e le mansioni assegnatemi fossero in diretta relazione alla volontà di controllare e ordinare la mia esperienza di scavo in senso normativo. In alcuni casi è stato evidente quanto la mia zona d’intervento fosse stata circoscritta a tutti quei settori che non presentavano particolari “enigmi” archeologici o che presupponevano delle mansioni tecniche a scarso contatto con quel passato nobile così

27 In tal senso vorrei riportare un episodio che mi ha fatto molto riflettere. Durante la prima settimana di scavo della mia

vita eravamo stati impiegati in quello che i responsabili del settore dicevano essere un immondezzaio rinascimentale. Per sette giorni interi avevamo portato alla luce una quantità ingente di frammenti ceramici dalla caratteristica colorazione tra il beige e il grigio, frammenti particolarmente difficili da individuare dato che la terra che li conteneva aveva quasi la medesima colorazione. A fine scavo, sulla via del ritorno, mi sono accorto di scrutare il suolo del marciapiede sotto casa mia nella istintiva ricerca di frammenti ceramici tardomedievali. Senza rendermene conto stavo adoperando fuori contesto il medesimo atteggiamento che avevo incorporato nello scavo.

28 Non è mia intenzione raffigurare un cambiamento così meccanico della collocazione sociale dell’etnografo. La

differenziazione tra postura partecipante e postura osservante deve essere intesa nel senso più sfumato possibile giacché è evidente che questo cambiamento non cade esclusivamente sotto il controllo dell’analista, né tantomeno questi è immune da tutta una serie di legami sociali che lo “inchiodano” ora ad una postura osservante, ora ad una postura partecipante.

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febbrilmente ricercato29. Non che questa collocazione fosse necessariamente negativa, tutt’altro. Come ho già detto mi ha permesso di condividere con altri tirocinanti la delusione del «non essere coinvolti».

Ma proprio la postura osservante e oggettivante sugli altri settori di scavo, e la constatazione che tutti gli “inesperti” e i “non coinvolti” fossero preventivamente collocati in settori meno problematici, mi ha convinto successivamente ad abbandonare l’idea che quella mia collocazione così marginale e cautelata non fosse la diretta conseguenza, o comunque non l’unica, di un tentativo di attutire la mia presenza di osservatore, quasi poliziesco, delle vicende dentro lo scavo, ma più semplicemente una prassi piuttosto condivisa. Per ironia della sorte, ma in ragione di un meccanismo sociale piuttosto scontato, i primi evidenti tentativi di fronteggiare la presenza dell’etnografo si realizzano nell’esatto momento in cui effettuo il passaggio dalla postura partecipante alla postura osservante, sarebbe a dire nel momento in cui comincio a produrre un sapere sul sapere mutando il mio posizionamento sociale nella comunità dello scavo da discepolo docile a figura capace di proporre una visione alternativa.