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CAPITOLO 3 LA SCIENZA DI SÉ

4. Civis Globalis Sum

Ho conosciuto Valeria durante un tirocinio di scavo a Roma. Ventidue anni circa, proveniente dalla provincia di Roma, la prima cosa che mi ha chiesto quando ha saputo della mia ricerca è stata: «quindi ti occupi anche di capire a cosa credono gli archeologi?». Ne è nato un rapporto di continuo dialogo circa il ruolo che archeologia, scienza e fede rivestono nei percorsi di vita della nostra generazione.

Ma prima di stabilire questa relazione riflessiva con l’etnografo, i quesiti di Valeria sono tutti rivolti a comprendere il mio personale schieramento in merito al ruolo della scienza nella nostra società. È come se lei conducesse una sorta di manovra di avvicinamento ad uno studioso dotato di un punto di vista oggettivo sulla natura umana. Durante le nostre prime chiacchierate ho percepito il suo interesse per il mio personale punto di vista sulla religione come un suo tentativo di comprendere fino a che punto si sarebbe potuta fidare di me e conseguentemente condividere le sue riflessioni.

«Io penso che bisogna mantenere l’equilibrio su questi ragionamenti. Sembra che passi dal mistico al bigotto, capito? Invece è importante saperla usare con equilibrio questa cosa. Altrimenti è un attimo […] Mi capita spesso di parlare con le persone no? E volevo capire se tu sei una persona con la quale si può parlare. Non tanto per una questione di giudizio. Però a volte quando parli con una persona diciamo con il senso del giudizio “limitato”, cioè su certi ragionamenti si fermano. Capito? Io dovevo capire se tu eri quel tipo di persona perché non mi sarei spinta troppo con i discorsi, non tanto per una paura del giudizio, ma proprio perché altrimenti saremmo stati

47 In questa cornice è indicativo rilevare che durante i primi giorni di un turno di scavo la maggior parte delle discussioni

tra i novizi si concentrano sulla comparazione dei diversi responsabili e la relativa capacità di «far capire», cioè coinvolgere i novizi nelle vicende dello scavo.

73 impossibilitati a parlare, cioè capito se tu mi cominciavi con frasi fatte, luoghi comuni, capito? Non mi sarei messa a parlare con te. Poi a livello di giudizio, so che viste da fuori certe cose… la gente che è un po’ limitata, tra virgolette, tende a generalizzare. Quando si generalizza si prendono posizioni troppo estreme, per me è fondamentale che la persona con cui parlo non faccia questa cosa. Magari dici una frase e viene portata subito all’estremo capito? Tipo, quello di colore di ha scippato la borsa allora bruciamoli tutti. Capito? È importante che uno si sappia muovere all’interno del ragionamento per me. »

Mi sembra che da queste parole emerga una sorta di guardingo senso del pudore che esorta Valeria a problematizzare, ben prima dell’etnografo, la sua adesione all’orizzonte di senso del cattolicesimo. Mi sembra che in questi timori di Valeria ritornino le questioni inerenti la trappola scientista ovvero l’estrema difficoltà di compiere quel connubio tra pratica scientifica e interiorità di cui ho parlato nelle pagine precedenti. Parlando con Valeria percepisco continuamente questa abitudine al doversi giustificare per ciò che è o ciò che potrebbe sembrare. In alcuni momenti mi preoccupa che il suo interessamento nei confronti della mia disciplina possa essere utilizzato per legittimare positivamente il suo modo di vivere. Una responsabilità che mi fa tremare le gambe.

La domanda che continuamente fa capolino nei nostri dialoghi è: «a cosa bisogna credere veramente?».

Non è una domanda recente nel vissuto di Valeria, tutt’altro. Come lei stessa mi racconta è il risultato di un percorso esistenziale affatto lineare:

«La situazione è stata questa: io sono cresciuta in famiglia cristiana, ambiente cristiano, scuole cristiane… quindi sono cresciuta cristiana. E fino a tredici, quattordici anni non mi è mai venuto il dubbio che esistessero altre religioni, la possibilità di non avere una religione e cose del genere. Fino alla Cresima quindi… pregavo tutte le sere con nonna, che mi aveva insegnato tutte le preghiere. Io dormivo con nonna, pregavamo insieme. E se la sera mi scordavo di pregare la mattina pregavo due volte. Cioè a livello proprio brutti! Nel senso importanti, livelli seri. Cioè pure se adesso credo in Dio, ora non le faccio più queste cose, capito? Era un approccio molto bambinesco. Poi che cosa è successo? Paradossalmente è stata la storia che prima mi ha allontanato dalla fede, intorno ai quattordici anni, e poi mi ci ha avvicinato attorno ai diciotto. Dai quattordici anni perché quando ho cominciato ad andare al liceo, a leggere i libri un po’ più seri, a farmi un po’ più di domande, ho cominciato a vedere che tipo Costantino ha fatto il panico [cioè ha manomesso profondamente gli equilibri], che ha deciso che dovevamo essere cristiani. Il concilio di Nicea mi ha fatto proprio da spartiacque verso l’ateismo. Hanno deciso tutto lì. Perché hanno deciso che c’erano i Vangeli Apocrifi, ma chi glielo ha detto che quelli erano apocrifi? […] tutto quello che adesso uno dà per religione cristiana, è uscito fuori tutto insieme. E poi mi sono

74 accorta di essere d’accordo con gli eretici, mi dicevo: ʻvedi? Alla fine non hanno tutti i torti.ʼ Quindi ho detto: ʻlasciamo perdere questo fatto della religione perché mi sa che è più una realtà culturale che una realtà vera di fedeʼ. Cioè fondamentalmente non esiste, è più un costume. E poi sono rimasta atea un po’ per tutto il liceo»

Il racconto del percorso religioso di Valeria si distingue per un “prima” e un “dopo” il contatto con la sensibilità scientifica. La Valeria di “prima” è una ragazzina di quattordici abituata a ripetere macchinosamente dei rituali «senza senso», quella del “dopo” è invece una persona che utilizza la propria conoscenza attivamente, esercitando un senso storiografico vigile e sospettoso, un qualcosa che ha molto a che fare con la ragione scientifica nell’accezione che le conferisce Valeria.

Eppure, qualcosa la spinge a rimodulare anche questa visione così rigida. Ecco che mi racconta cosa l’ha poi spinta ad affrontare un percorso alternativo, inserito nel solco del cristianesimo ma aderente al senso critico della razionalità laica. È come se Valeria avesse bisogno di crearsi un universo di senso atto a comprendere sia le sue relazioni con i circuiti sociali appartenenti all’universo del cattolicesimo praticante che le relazioni afferenti all’universo laico o addirittura antireligioso delle scienze storico-archeologiche nella loro accezione più scientista.

La chiacchierata con Valeria prosegue:

V. «Fino alla fine del liceo, ero sempre in una scuola privata coi salesiani ma l’ultimo anno cambiarono i direttori. E il nuovo preside cominciò a coinvolgermi in queste attività e io cominciai a parlare con persone diverse. Ho cominciato a riaprire il discorso, a rifarmi altre domande e un giorno un signore, laico, un professore, cristiano… mi fa un discorso. Faceva un discorso a un gruppo di ragazzi: ʻla storia ci insegna che tra le dimensioni dell’uomo esiste quella spirituale e la storia ci insegna che in un modo o nell’altro gli uomini credevano in qualcosaʼ. Cioè cambiavano nome, cambiavano rituali, cambiavano sfaccettature ma non esistevano uomini che non credessero. Perché quello di credere è un bisogno, è una necessità, che tu poi hai reso come idolo il denaro piuttosto che una figura mistica, la tua vita deve girarsi intorno a una credenza fondante su cui basi tutto il resto. Io ho detto: ʻah, la storia ce l’ha insegnato!ʼ. Questo diceva che noi siamo la prima generazione umana segnata da questa emancipazione dalla fede, da questa voglia di ateismo, perché noi ormai siamo un popolo ormai molto più intelligente rispetto a quelli che sono venuti prima di noi. Noi abbiamo la possibilità di capire che non ci serve Dio perché le cose le capiamo da noi. Ma io poi ho pensato, che per come reputo io le persone che sono venute prima di noi, determinati popoli più di altri (ma questa è un’altra storia), non era giusto pensare che noi eravamo arrivati al punto culminante di questa storia. Cioè pensare che noi avevamo capito cose che quelli del passato non avevano capito. Io credo molto più nella sapienza dei popoli antichi che nella nostra. Quindi ho rimesso in gioco tutte queste storie e ho cominciato a

75 distinguere fede e religione. Io prima non mi ero allontanata dalla fede, mi ero allontanata dalla religione, cioè dal costume. La religione è veramente un costume. Essere pagano o essere induista o cristiano, quello è un costume. È una sovrastruttura. Queste sovrastrutture si poggiano tutte sul fatto che sono tutti uomini di fede. Capito?»

F. «Quindi se la religione è un costume, la fede invece che cosa è?»

V. «Eh! Ti ci scrivo un libro se so rispondere a questa domanda. Dunque, la fede è una spinta. Una spinta interiore, un impulso, una necessità. Vedila così, la spiritualità è come avere i polmoni, fanno parte di te. La fede è come respirare, cioè una conseguenza del fatto di essere un essere spirituale. Mamma mia! Adesso sto facendo la teologa! Però se tu pensi che sto esagerando fermami.»

Valeria non vuole rinunciare alla forza significante che le trasmette la fede cattolica, né tantomeno vuole rinunciare al circuito di relazioni che frequenta quotidianamente e nel quale si rende partecipe svolgendo delle attività di volontariato48.

V. «Mi reputo una persona di fede, una persona spirituale però non vado la domenica a messa, non mi confesso una volta a settimana. È particolare. Pregare sì, lo faccio. Però la parte dei rituali esiste comunque, la parte dei rituali è una sovrastruttura per quanto mi riguarda. La parte spirituale vera è quella del monaco, capito?»

F. «Ma come mai questo linguaggio un po’ marxista? Il concetto di sovrastruttura è un grande classico del marxismo.»

V. «Va tutto preso con le giuste misure, però la cosa della sovrastruttura è corretta. Come il superficiale e l’essenziale, capito? Il necessario e il superfluo. È centrale, anzi è un problema di oggi che si confondono le due cose.»

Il mondo di significati in cui Valeria si trova proiettata tutti i giorni è in continuo movimento e i sistemi atti ad afferrarlo e controllarlo sembrano sfuggirle dalle mani. La questione della confusione che si prova nell’attribuzione di senso al mondo contemporaneo risulta essere un elemento centrale non solo per Valeria. I complessi fenomeni della globalizzazione, infatti, con la

48 In merito alla mia domanda sulla tipologia di religiosità che contraddistingue i suoi coetanei, Valeria mi spiega: «sono

religiosi i miei coetanei? Questa è la domanda che mi devi fare. Ah ah ah… allora, i miei coetanei sono soprattutto atei. Poi ci sono persone che sono religiose come me, cioè che seguono dei principi della religione senza essere praticanti in una specifica religione. E poi sì, ne conosco anche altri che si faranno preti. Che sono in un percorso insomma».

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velocizzazione degli spostamenti, risorse e pratiche hanno ampliato in maniera caleidoscopica le possibilità delle forme di vita degli esseri umani e hanno prodotto un particolarissimo modo di rapportarsi al “passato tradizionale”.

“Gli elementi della tradizione vengono messi radicalmente in discussione dai meccanismi della modernizzazione. Gli orizzonti fissi che in precedenza garantivano una relazione stabile e univoca col mondo-ambiente iniziano a sfaldarsi. La crescente mobilità pone in essere nuovi modelli comportamentali, la nascente complessità sociale mette in crisi univoche appartenenze di gruppo, e il nuovo, il mai visto diventa un valore in sé. Sorgono attitudini nuove e forme di vita plurime (anche in contraddizione fra loro) che sovente hanno un effetto irritante sugli individui.” (Bausinger, 2008).

Lungi dallo scomparire, i mondi “locali” e “tradizionali” hanno iniziato a confrontarsi con le pressioni esercitate dalla cultura di massa finendo per produrre un universo di senso comune, caratterizzato non più da una rigida appartenenza di classe e di ceto, quella appartenenza per nascita che faceva sì che la figlia di una casalinga facesse “naturalmente” la casalinga.

In questa contemporanea e fluttuante configurazione socioculturale la figlia di una casalinga cresce guardando Jurassic Park, sogna di diventare la nuova Alberto Angela e poi si iscrive ad archeologia per entrare in contatto con i suoi antenati romani (vissuti rigorosamente prima del 476 d.C.), e allo stesso tempo prega un Dio cattolico, crede nel giudizio divino, nella famiglia tradizionale e scambia quotidianamente messaggi con un’amica newyorkese conosciuta a Parigi durante un viaggio parrocchiale.

Ammesso che siano mai esistiti in maniera così granitica i confini tra la cultura delle classi dominanti e quelle delle classi popolari sembrano quasi definitivamente scomparsi, succede cioè che la “Cultura Italiana”, quella di cui senza dubbio faceva parte l’archeologia, si è “contaminata” con le “culture degli italiani” e cioè anche con il mondo delle preghiere “senza senso” della nonna di Valeria (Dei, 2018; Bausinger, 2014, 2008, 2005).

Data questa situazione di grande complessità socioculturale emerge un contesto caratterizzato dalla confusione e dalla moltiplicazione degli eventi innanzi ai quali gli individui si trovano “costretti” a dover effettuare delle selezioni e dei percorsi distintivi (Bourdieu, 1979). Si tratta di pratiche molto spesso caratterizzate da un certo grado di individualismo performativo che sottopone le varie soggettività all’onore della loro personale messa in discussione. Ciò che emerge da questi processi è la febbrile ricerca di una qualche tipologia di punto fisso, di costante culturale.

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Hermann Bausinger ha incentrato la sua analisi su questi particolari processi di domesticazione della eterogeneità della cultura di massa riflettendo sul concetto di “patria” (Heimat, in tedesco) che descrive così:

“significa senso dell’orientamento, punti di riferimento ed esperienze costanti ed affidabili. In questo senso, in quanto strumento identitario, la patria costituisce un importante contraltare alle ormai diffuse tendenze globali. Non è necessario stabilire i confini precisi della patria su una carta geografica. Qual è la propria patria? La casa, la strada, il quartiere o la città in cui si abita; il comune, la provincia, la regione o addirittura l’intero paese? Risposta: un po’ dappertutto, a seconda della situazione. I riferimenti e anche i sentimenti patriottici traggono vantaggio dalla molteplicità di ciò che può essere considerato ʻcasaʼ ”. (Bausinger, 2008, pag. 33).

In tal senso non è affatto contraddittorio che queste preoccupazioni, così urgentemente contemporanee, siano espresse da una ragazza che coltiva il sogno di svolgere una professione concentrata sul contatto e lo studio del passato antico. Il passato romano, proprio in virtù dell’immaginario che ha assunto nella contemporaneità (specialmente quella italiana), può conferire a Valeria tutta una serie di spunti per affrontare e interpretare il mondo che la circonda. Si tratta del più nobile tra i passati, di una grandezza impossibile da riafferrare, di un modello culturale che non necessità di nessuna interpretazione perché sempre e comunque coerente, opportuno, corretto e “naturale”.

V: «Secondo me i romani hanno fatto un mezzo miracolo, i romani in generale sono stati un mezzo miracolo nel percorso dell’umanità. Cioè sono un pezzo di storia dell’umanità per cui noi dovremmo ringraziare che sono esistiti e che hanno fatto quello che hanno fatto. E dovremmo fustigarci per non aver imparato abbastanza di tutto quello che dovevamo imparare.»

F: «Tipo?»

V: «Tipo, l’altro giorno camminavo per le strade, qua a Roma. E pensavo: “ma porca zozza, no? Ma io dico, ma avevamo i romani che ci hanno insegnato come fare le strade e noi non abbiamo capito di dare la pendenza alla strada per non fare le pozzanghere?!” È una cavolata! Però i romani le facevano ad occhi chiusi. Noi oggi facciamo i marciapiedi e i turisti zompano come i Teletubbies sulle pozzanghere. Ché poi si lamentano e mi si spezza il cuore, ma poi come ti giustifichi? Non te poi giustifica’! Ma tu hai visto il Colosseo che sta ancora là? La Colonna Traiana! Mi fa pensare che… ieri proprio ci pensavo, stavo a Piazza Venezia e pensavo che le cose che stanno a Roma, i monumenti che stanno a Roma. In generale la maggior parte so cose

78 romane. Mi fanno pensare… vado sul romantico, mi fanno pensare che può esistere qualcosa che dura. Può esistere qualcosa che rimane nel tempo, e rimane perfettamente perché è fatta bene e va sempre bene così. E non va cambiata, non ha bisogno di modifiche, non ha bisogno di essere sostituita con qualcosa di più nuovo e di più bello perché è già perfetta così. Mentre noi non ce l’abbiamo più questa mentalità. A livello proprio sociale, siamo ormai nella mentalità del tutto cambia, tutto scorre, il futuro fa paura, puoi perdere il lavoro domani. Capito? Tutte queste cose qua. Non siamo più abituati alle cose che restano, alle relazioni che restano, ai lavori che restano, alle cose costanti della vita. E invece quando passeggi per Roma a dispetto magari di tante città in cui tutto cambia, tutto si rinnova, Roma ti ricorda che ci stanno cose che vanno bene. E vanno bene che rimangono, duemila anni! E vanno bene altri duemila anni e basta! E quindi niente, i romani sono spettacolari.»

Dato questo modo di relazionarsi con il passato romano, qualsiasi definizione di archeologia come di “semplice” storiografia non farebbe altro che sminuire la portata delle attribuzioni di senso che questa pratica è capace di conferire a Valeria e a tanti altri suoi colleghi. Ad emergere potentemente è tutto un universo di significati e di punti di aggancio attraverso i quali è possibile rivolgersi all’esperienza quotidiana con una maggiore fiducia nei confronti di un mondo incomprensibile e sfuggente. L’archeologia diventa una pratica del sé, un modo di fare e di sentire che permette a degli individui “ordinari” di disegnare traiettorie di vita e relazioni distintive, accomunate dalla condivisione di un universo di significato “esperto”, da “addetti ai lavori”.

A tal proposito, proprio durante le nostre chiacchierate sulla relazione tra scienza e fede, chiedo a Valeria il ruolo dell’archeologia nella sua vita.

F. «Senti ma che c’entra l’archeologia?»

V. «Con la fede? Cioè questo torna al discorso che facevamo all’inizio. Io la fede l’ho rivalutata grazie all’opinione che ho di popoli antichi. Non l’ho rivalutata su basi contemporanee. L’ho rivalutata studiando quello che per me è l’uomo. Ma quello che è per me l’uomo esiste solo in rapporto al suo passato, okay? Studiando gli uomini, la storia degli uomini, a me piace l’idea di recuperare quella che è l’umanità. Studiando questo, quando mi rapporto a popolazioni più antiche, ma anche di parecchio eh. In generale al passato della storia dell’umanità ho ritrovato questo elemento fondante dell’umanità. Questo bisogno dell’umanità intrinseco all’umanità stessa. E l’ho ritrovato nel passato e non nella mia contemporaneità. Nella mia contemporaneità lo vedo molto sopito il bisogno, mentre nel passato emerge evidente.»

79 V. «Nel senso che adesso non c’è. Nel mondo che vedo intorno a me, che frequento spesso, manca la necessità di andare in profondità. Il bisogno della spiritualità non è altro che il bisogno di cercare di arrivare ad un punto X irraggiungibile.»

F. «Manca un punto fermo?»

V. «Sì, l’assoluto. Dio è quello alla fine. Il punto assoluto. A parte la società del relativismo, queste cose così. Il relativismo, secondo me, ha anche un fondamento sul piano immanente. Ha senso, quando parli di popoli e culture diverse, parlare di fondamento. Il relativismo morale ti apre tutta una questione che neanche la fede ti risolve. Però, per non perdere il punto principale, la mia contemporaneità, cioè il mondo oggi, rimane molto superficiale alle cose. Rimanere molto superficiali vuol dire attaccarsi alle sovrastrutture, il che implica anche i religiosi. Perché quelli che si attaccano alle sovrastrutture sono i bigotti cristiani che vanno a messa e poi sputano in faccia al marocchino. Quelli per me rimangono attaccati alle sovrastrutture. Nel passato, loro partivano dalla struttura, partivano dal fondamento e in base a quello riconoscevano strutture e sovrastrutture. Questa cosa si è persa, per una serie di cambiamenti sociali, storici. Adesso c’è

troppa confusione. Non si sa più, ognuno punta più su quello che in teoria gli funziona meglio