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CAPITOLO 2 L’ANTROPOLOGO SCARRIOLANTE

3. Gioco di specchi

Siamo al nostro quarto giorno del turno scavo e il sole di giugno picchia davvero forte in questa conca umida nella quale si trova lo scavo. Sto assistendo al lavoro in un settore ancora inesplorato nella veste di semplice «etnoscarriolatore», per usare una definizione che mi è stata scherzosamente affibbiata. Mi occupo cioè di provvedere ad una delle incombenze archeologiche meno ambite dai partecipanti, dato che si tratta essenzialmente di trasportare la terra ed i materiali di risulta fuori dal settore di scavo, in un’area di deposito convenuta spesso definita emblematicamente “butto”. Nonostante io abbia trascorso nello scavo già un’intera campagna archeologica, è la prima volta che mi ritrovo a svolgere un compito così tanto disprezzato, per giunta per mia esplicita volontà. Il motivo di questa richiesta è il desiderio di dedicare maggiore attenzione a delle fasi di scavo e a delle situazioni relazionali che non potrei mappare se rimanessi impiegato in maniera intensiva in un settore specifico. Il ruolo di scarriolatore permette, in un sol colpo, una partecipazione blanda e una osservazione approfondita: blanda perché bisogna sostanzialmente attendere che la carriola venga riempita di terra e poi andarla a scaricare in pochi secondi; approfondita perché mentre si attende tutti gli altri “fanno” e “dicono” archeologia.

29 È emblematico che pur avendo lavorato esclusivamente all’interno di scavi classici la mia collocazione fosse sempre

riferita ai settori più “medievali” o quelli meno approfonditi ovvero quei settori che i classicisti, più o meno scherzosamente, tendono a descrivere in termini di decadimento, involuzione e sporcizia (Douglas, 1970).

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Questa libertà non è mai totalmente libera (né tantomeno consigliabile) giacché, proprio in virtù del carattere collettivo e fisicamente impegnativo dello scavo, ogni occasione in cui qualcuno sfugge alle incombenze del proprio ruolo è pesantemente sanzionata, «nello scavo non si può stare senza far niente». In questo senso ho trovato indicativa la scherzosa constatazione che Alvaro, un tirocinante spagnolo, mi rivolge in merito alla mia presenza di osservatore che non vuole impegnarsi nello scavo vero e proprio: «when the sun starts to hit the anthropologist comes in to the shade».

Alvaro sanziona con l’ironia la mia mancata adesione al gioco della professionalità archeologica in virtù di una collocazione gerarchica piuttosto marginale. Gaia, che è invece collocata all’apice per via della sua qualifica di caposettore, utilizza la satira per colpire l’oscuro scrutare dell’etnografo. Durante una pausa pranzo, insieme ad una sua collega, mi annuncia di aver cominciato una «antropologia di Fulvio Cozza». Armata di taccuino e di penna scruta spasmodicamente ogni mio movimento e si appunta qualsiasi frase io dica, oppure finge di consultarsi con la sua collega circa il significato delle mie azioni «faccio come Malinowski». La cosa mi diverte e le dico che vorrei tanto leggere il piccolo diario una volta terminato, «mi interesserebbe rifletterci». Gaia, credo piuttosto interdetta dalla mia richiesta così inaspettatamente seria, mi permette di scattare delle foto al diario.

Ecco le poche frasi del diario di Gaia:

“STUDIO ANTROPOLOGICO SU FULVIO COZZA. 20-06-18. Fulvio ha la pancia. Chiede ai ragazzi “come mai? Non si capacita di come possa essere così piccolo ma avere la pancia e pesare più degli altri. Alvaro gli dice che alle donne piacciono gli uomini con la pancia. Lui sorride. Il suo problema è che si stanca subito. Alvaro lo consola. Si guarda intorno perplesso e imbarazzato. Fulvio gli dice che è “hungry less”, nella sua posizione: “HO LA PANCIA”. Fulvio ride.

22-06-18. Fulvio arriva sgommando. Vuole dimostrare al gruppo di essere il maschio alpha almeno x un’ora. Fulvio approfitta dello scavo per fare attività fisica. In fondo il suo obbiettivo del suo dottorato è buttare giù la pancia”.

Sfortunatamente – o forse per mia fortuna – il diario delle mie imprese ha coperto solo due giorni di scavo. Senza dubbio un resoconto più corposo sarebbe stato ancora più interessante anche se dubito fortemente che nelle intenzioni ci fosse davvero l’idea di realizzare un’etnografia dell’etnografo. A dimostrarlo c’è la reazione di Gaia palesemente spaesata nel momento in cui io, invece di rispondere a tono, la incoraggio a continuare in «questa cosa interessante». Il miglior modo per uccidere l’umorismo è prenderlo troppo sul serio.

Ma proprio perché si tratta di un diario del tutto spontaneo il documento ha la capacità di riflettere, anche se parossisticamente, l’effetto dello sguardo etnografico su di sé, «faccio come

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Malinowski». Ma più che un’antropologia di Fulvio Cozza sembra una valutazione sul suo valore, nonché l’elenco delle sue maggiori debolezze: la bassa statura, la pancia, le donne e la sua bizzarra professione. Credo che l’idea che sta dietro il reiterato riferimento ai miei svariati difetti è quella di colpire l’etnografo col medesimo sguardo giudicante che esercita (o si sospetta eserciti) quotidianamente dentro lo scavo. Allo stesso tempo il diario rappresenta una presa in giro del mio metodo etnografico e dei miei sistemi di costruzione della verità; un aspetto sentenziato dall’ultima frase del diario che spiega il “reale” obbiettivo del mio dottorato di ricerca cioè il perdere peso, non la realizzazione di una ricerca sulla pratica archeologica come andavo professando in maniera così inutilmente seriosa.

Al di là della satira il momento si è configurato come uno dei più complicati della mia ricerca sul campo poiché il siparietto, a mio parere, mette in scena una preoccupazione assolutamente incalzante che nessun etnografo può sottovalutare.

Mi riferisco al potere valutativo della ricerca etnografica, al fatto che in molte occasioni al termine di un’intervista, come se fosse un esame, la prima frase che si sente è: «sono andato bene?». Oppure la singolare espressione di stupore che noto quando mostro interesse per le cose “banali”, le «cazzate», le «sciocchezze», i «dati di fatto». Impossibile non pensare a tutte quelle volte che mi sono sentito in imbarazzo per aver assistito ad una situazione “spigolosa” e mi viene rivolta la domanda: «ma questo lo scriverai?», che spesso mi suona più che altro come un: “questo non lo scrivere”. Credo che queste incognite facciano perno su una concezione di scienza piuttosto positivista. Non che si tratti di un problema riferito solo al mondo dell’antropologia della scienza, ma è abbastanza evidente che la questione assume dei contorni più problematici quando si lavora a stretto contatto con una comunità di persone che fanno scienza e che hanno della “verità scientifica” un’opinione così granitica. In tal senso, con la sua semplice presenza l’etnografo, più o meno involontariamente, trasmette la medesima ansia di “verità” che evidentemente contraddistingue le prospettive degli scienziati che cerca di studiare.

A nulla valgono i disperati proclami relativisti dell’etnografo, né tantomeno le autoironiche constatazioni che l’antropologia è soprattutto un espediente per riflettere su sé stessi e sui propri condizionamenti culturali. Si innesca un circolo vizioso nel quale, a “parità di scienza”, il valore delle verità etnografiche sono direttamente proporzionali alle verità archeologiche.

Misurare un essere umano utilizzando dei parametri “disumani” non può che tradursi in un esercizio di spicciolo riduzionismo. Nella ricostruzione perfettamente scientifica di una stratigrafia non è solo in ballo la scienza, ad essere in gioco è l’identità dell’analista, la sua sensatezza di essere umano completato e sublimato dal suo essere archeologo, “consono”, “opportuno”, “adeguato”, “identico”.

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È importante segnalare che per cogliere l’impalcatura di questo dominio simbolico occorre situarsi nel preciso scarto tra prassi e idealismo, tra zona d’ombra e zona di luce, in quell’area nella quale la corrente travolgente dei significati sembra quasi tracimare l’alveo di ogni pia professione di conoscenza disinteressata.

L’operazione che ho appena descritto mi sembra anche utile per rispondere alle perplessità che, lecitamente, più di qualcuno potrebbe manifestare in merito all’opportunità di questa mia operazione etnografica, nonché alla adeguatezza della mia persona in qualità di analista. In fondo non sono un archeologo: “chi mi ha invitato?”, “cosa ne so della professione archeologica?”. Ma proprio il fatto di provenire da una disciplina come l’antropologia culturale, assolutamente marginale nel campo delle discipline del patrimonio culturale italiano, mi permette di interpretare le incognite e le aspettative dei diversi soggetti coinvolti in maniera più svincolata dalle sanzioni riservate ai membri “infedeli” ma invischiati nell’arena archeologica italiana. L’idea che ho cercato di sviluppare in questa ricerca è stata quella di aprire alla cassetta degli attrezzi etnografica un’area di studi curiosamente inesplorata ma che appartiene al senso comune italiano al pari della Nazionale di calcio o degli spaghetti al pomodoro. Si tratta di intraprendere un percorso denaturalizzante e complessificante, un processo complicato che chiama in causa l’annosa questione della messa in

discussione “scientifica” della scienza. Mi riferisco a quell’effetto specchio permanente che rende

possibile la ritorsione contro l’enunciatore di qualsiasi enunciato sulla scienza e che tanto preoccupava Bourdieu:

“Uno dei miei scopi è quello di fornire strumenti di conoscenza che possono ritorcersi contro il soggetto della conoscenza stessa, non per distruggere o screditare la conoscenza (scientifica) quanto piuttosto per controllarla e rafforzarla. La sociologia che pone alle altre scienze la domanda sui loro fondamenti sociali non può sottrarsi a questa messa in discussione. Portando sul mondo sociale uno sguardo ironico, che svela e smaschera, e fa emergere ciò che è nascosto, la sociologia non può dispensarsi dal portare questo sguardo su sé stessa. In un’intenzione che non è quella di distruggere la sociologia bensì di servirla, di servirsi della sociologia della sociologia per fare una sociologia migliore” (Bourdieu, 2003, pag. 15).