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LAVORO E FAMIGLIA TRA RAPPRESENTAZIONI E REALTA’

1. Il progetto migratorio

Sono molti e diversi i motivi che spingono le donne intervistate a migrare. Le donne si muovono attraverso i confini per riunirsi ai propri familiari, per fuggire da guerre, da regimi autoritari, in generale per migliorare le proprie condizioni di vita in un paese che possa offrire maggiori opportunità per sé e per i propri cari. Il gruppo delle donne che ho intervistato è molto eterogeneo in questo in senso, sia per motivazioni che hanno spinto alla migrazione sia per i modi e le fasi in cui il percorso è stato attuato. Tra le diverse storie vi è però una linea comune: ciascun percorso migratorio, ognuno a suo modo, rappresenta l’esito di una strategia familiare finalizzata a migliorare le condizioni di vita dei propri membri. C’è chi è partita per raggiungere la propria madre, chi è partita per separarsi di fatto dal marito o chi invece per riunirvisi, chi è stata allontanata da un amore non accettato dai genitori e chi invece ha seguito la persona amata, chi è partita per garantire il sostentamento dei propri figli. In tutti i casi, la decisione di emigrare non è stata una scelta presa in maniera totalmente individuale, ma è stata negoziata da queste donne in base al proprio ruolo e alla propria posizione di potere negli equilibri di genere e generazionali all’interno delle rispettive famiglie. Le storie di queste donne immigrate parlano di negoziazioni tra madri e figli, tra mogli e mariti e tra figli e genitori. Accanto a ciò, la strategia della migrazione si sviluppa sotto la spinta e l’influenza di eventi o situazioni a livello macro che stravolgono l’intera quotidianità e non permettono più di condurre la vita come si era fatto fino ad allora o come, in generale, si vorrebbe viverla. Il progetto migratorio diventa così una reazione a questi eventi, un rifiuto di

accettarli passivamente. E’ il caso delle donne che provengono dai paesi dell’ex- Unione Sovietica in seguito al crollo del socialismo reale, da scenari di guerra, di crisi economiche o di regimi totalitari.

[I]: Come hai deciso di venire in Italia?

[Lei]: Quello è un problema… insomma non andavo d’accordo con il marito prima di tutto e poi con il nostro cambiamento nel nostro paese eravamo che lavoravamo tutti e tre, in tre e non si riusciva ad arrivare a fine mese. Un marito, io e una figlia. E ho un’altra figlia e non riuscivamo ad arrivare. Il passaggio quando la Russia è finita, abbiamo deciso di avere tutti democrazia. Con l’inflazione tutti i soldi ci hanno mangiato e stipendi, mi ricordo che per un anno non ci hanno dato lo stipendio, o ti danno granoturco o così. E’ stato un po’ un periodo duro, tutti andavano per il mondo per vivere, per aiutare la famiglia e abbiamo deciso che io vengo in Italia. E sono venuta insieme con la figlia. Anche lei lavorava ma non riusciva e non voleva restare.

(Anna, 53 anni, Moldova, divorziata, operatrice socio-sanitaria)

[Lei]: Non ho voluto io, è stata la guerra. Per quello siamo scappati come i profughi, io, le mie figlie e il marito.

(Alina, 51 anni, Bosnia-Erzegovina, coniugata, operatrice socio sanitaria)

[Lei]: Facevo la libera professionista (si riferisce alla professione di

architetta) e lavoravo con diversi studi, prendevo il lavoro e lo portavo a

casa e dopo lo riconsegnavo. Dopodiché mi è venuta di nuovo l’idea (Marta

era già stata per alcuni anni in Italia con l’ex-marito per poi ritornare in Colombia in seguito alla separazione)... gente che conosco mi diceva “dai

torna” ... che là cominciava una crisi con quel settore dell’edilizia quindi il lavoro è calato moltissimo e sicuramente vengo da una famiglia molto indipendente, molto precisa, mi hanno insegnato sempre ad andare avanti e non volevo assolutamente pesare su di loro. Allora ho detto “parto”.

(Marta, 48 anni, Colombia, divorziata, operatrice socio-sanitaria)

[Lei]: Io sono contentissima in Italia perché in Italia mi hanno dato quello che io avevo voluto in mio paese e che non mi hanno dato, perciò sono immigrata: che io lavoro, mia figlia studia, io pago affitto, un mutuo. Una vita normale. Io questo ho voluto, ma da noi non ci hanno dato perché la situazione politica fa schifo là.

(Samira, 51 anni, Iran, divorziata, da 13 anni in Italia, assistente familiare)

Nei  casi  delle  donne  ricongiunte,  la  scelta  della  migrazione  è  secondaria   a  quella  di  perseguire  un  progetto  di  vita  familiare.    

[Lei]: Ti dico la verità, io mai avuta l’idea di uscire fuori da Marocco...si magari per turismo ma per fare un’altra vita fuori dal mio paese no...prima di sposarmi dicevo sempre a mio marito c’è la possibilità che magari tu entri e facciamo una vita qua...fino all’ultimo...lui mi diceva no perché lui aveva lavoro qua, casa qua, non si può mollare tutto e partire da zero. Non è una scelta mia… sì, ho scelto la famiglia.

(Aisha, 34 anni, Marocco, coniugata, assistente familiare)

[Lei]: Il mio ex marito era italiano, abbiamo vissuto un anno in Perù poi lui diceva che non riusciva a trovare lavoro là e se potevamo andare in Italia che li avrebbe trovato lavoro.

(Dolores, 41 anni, Perù, divorziata, impiegata)

Talvolta però, la migrazione può diventare anche un fatto subito alla luce di una posizione di debolezza all’interno della propria famiglia, causata dall’età, dal ruolo di figlia e da determinati modelli culturali e contratti di genere, come nel caso di Juliet:

[Lei]: Io non volevo venire qui. Io facevo parrucchiera là in mio paese. Stavo bene, contenta. Ma ero innamorata di un ragazzo che mia famiglia non voleva. E c’era una sorella, una del paese vicino, che era qua, che diceva che trovava un lavoro e miei genitori allora mi hanno detto di venire qui. Lontano da lui. Sono arrivata qui… è cominciato una cosa terribile.

(Juliet, 43 anni, Nigeria, coniugata, operaia)

Un ruolo centrale è svolto dai parenti, gli amici o i conoscenti presenti già in Italia, che fungono da appoggio nei primi tempi della migrazione e guidano il primo inserimento nel mercato del lavoro. Eccetto coloro che sono arrivate a seguito dei propri mariti, le altre donne spesso sono giunte insieme alle proprie figlie maggiori o a seguito delle proprie madri, creando delle catene migratorie fortemente femminili. Le cause sono da ritrovarsi nell’esistenza di determinati canali di collocazione nel mondo del lavoro, in particolare nell’ambito del settore

domestico, ma anche nei forti legami che si instaurano tra madri e figlie nei casi in cui vi siano difficoltà coniugali o separazioni dei genitori. Chi è giunta sola, invece, ha trovato nelle proprie connazionali il primo supporto sia per quanto riguarda l’abitazione, il lavoro ma anche per l’orientamento ai servizi e alle procedure burocratiche per l’ottenimento del permesso di soggiorno.

[I]: Come hai deciso di venire in Italia?

[Lei]: La verità perché mia mamma sono 17 anni che vive qua. Allora lei ci ha fatto ricongiungimento familiare e ci ha fatto venire (lei e sua figlia). […] Si, mia mamma è diventata cittadina italiana e per quello abbiamo potuto venire tutte e due insieme subito.

(Maria, 29 anni, Colombia, nubile, assistente familiare)

[I]: Come sei arrivata in Italia?

[Lei]: Insieme con la mia mamma. Siamo arrivate insieme nell’estate 2003, siamo state a Torino poi dopo qualche mese ci ha raggiunto il fidanzato di mia mamma e ci siamo spostati a Padova. Perché degli amici ci avevano trovato del lavoro qua. Innanzitutto per mia mamma e poi piano piano anche per mio papà e io per ultima.

(Marika, 27 anni, Romania, coniugata, colf)

[Lei]: Siccome iraniani sono pochi in Italia, quindi io che sono iraniana subito gli iraniani mi hanno dato una mano. Subito sono andata a casa di mia amica e poi di là mi ha portato da avvocato, prefettura, questura, tutto regolare. (…) Per fortuna che avevo degli amici iraniani che già conoscevo in Iran. Allora per aiutarmi mi davano lavoro a casa di loro, come pulizie, e poi piano piano mi hanno trovato anche altri lavori.

(Samira, 51 anni, Iran, divorziata, assistente familiare)

Dai racconti emerge con chiarezza come le necessità economiche, i motivi familiari, la volontà di emancipazione, l’esistenza di networks tra paese di provenienza e d’immigrazione s’intreccino tra loro nello sviluppo della decisione di partire.

Alla luce dei legami familiari delle donne intervistate, il processo di migrazione avviene nella maggior parte dei casi in più fasi successive. Il forte coinvolgimento delle donne in legami familiari, verso i partner o i figli, fa sì che

le donne guardino alla migrazione come ad un processo che non si conclude con il loro stesso arrivo in Italia. E’ solo nel momento in cui si sia riuscite a ricongiungere quello che è considerato soggettivamente il proprio nucleo familiare che tale processo transitorio in qualche modo si conclude. Le donne che partono per prime spesso lo fanno con le figlie maggiori, per poi ricongiungere in un secondo momento i compagni uomini e i figli minori. Al contrario, se per primi sono gli uomini a migrare poi successivamente vengono ricongiunte le partner e poi i figli. Fino al momento in cui non si è riunito l’intero nucleo, gran parte delle energie e delle risorse materiali vengono convogliati nell’ottenimento dei requisiti per il ricongiungimento. E’ solo dopo che il nucleo familiare è di nuovo riunito che le donne iniziano ad investire pienamente nella loro vita nel paese d’origine e la vita può apparire meno sospesa tra i confini.

Per gran parte delle donne che ho incontrato, la migrazione in Italia rappresenta una scelta definitiva. Questo è vero soprattutto per le donne più adulte e con una maggiore anzianità migratoria che hanno ricongiunto e fatto crescere qui i loro figli, hanno consolidato il proprio profilo professionale e in diversi casi hanno richiesto ed ottenuto la cittadinanza. Queste donne prospettano il loro futuro innanzitutto vicino ai propri figli con i quali mantengono i legami di solidarietà familiare più forti. È verso i figli che esse sentono di non aver ancora esaurito le responsabilità connesse al proprio ruolo materno ed è in loro che tacitamente ripongono l’aspettativa di essere sostenute quando diventeranno anziane. Inoltre, in alcuni casi molti parenti – fratelli, madri, cugini – si trovano anch’essi in Italia. Il legame con il paese d’origine non viene però disconosciuto, si mantiene vivo attraverso le visite, i viaggi, le telefonate, i doni ai familiari lontani.

[I]: Cosa vedi nel tuo futuro?

[Lei]: Il mio sogno è avere una casa mia, propria. [I]: Qui o in Italia?

[Lei]: Qui perché la mia figlia grande è sposata di qua, l’altra piccola, che non è più piccola, è fidanzata di qua, ormai sono tutti di qua. Dove vado? Si vado una volta ogni due anni a trovare i miei familiari. E poi adesso c’è il

computer che quasi ogni sera ci parliamo, quello ha migliorato tanto la vita per comunicare con chi ti manca.

(Anna, 53 anni, Moldova, divorziata, operatrice socio-sanitaria)

[I]]: Pensi che ritornerai alla casa a Sarajevo che hai rimesso a posto? [Lei]: Adesso no, le mie figlie vogliono rimanere qua e io rimango con loro.

(Alina, 51 anni, Bosnia-Erzegovina, coniugata, operatrice socio- sanitaria)

Le donne più giovani hanno invece un approccio più ambivalente e talvolta contradditorio verso il futuro: da un lato mantengono aperta la porta del ritorno, ad esempio portando avanti il progetto di costruzione di una propria casa nel paese d’origine che possa fungere da alternativa nell’eventualità di un insuccesso del progetto migratorio. Sono soprattutto le donne coniugate - inserite in modelli familiari dove il principale percettore di reddito è il marito - che avanzano le maggiori incertezze verso il futuro. Per costoro la crisi economica è il fattore che maggiormente incide nell’indecisione se rimanere o tornare: la perdita di lavoro da parte dei mariti o solo una minaccia in tal senso, mantiene viva la possibilità di un ritorno e mette in dubbio la sostenibilità dell’intero progetto migratorio. La precarietà e l’insicurezza economica si traducono così nella difficoltà di delineare scenari futuri a lungo termine che possano considerarsi definitivi.

[Lei]: Questo mese mio marito ha preso 1.200 euro. 600 euro per l’affitto, 600 euro assicurazione della macchina. E così viviamo dei soldi che guadagno io, 100 euro alla settimana. La fabbrica di mio marito ne ha messi 8 in cassa integrazione questo mese. Non c’è produzione, non c’è lavoro. Se lui perde il lavoro cosa facciamo qua? Almeno là possiamo andare a vivere a casa sua o nell’appartamento mio. Lui là può lavorare per suo zio, che ha la fattoria, ha la terra.

(Marika, 27 anni, Romania, coniugata, colf)

[Lei]: Cosa facciamo un mutuo qua? Che magari non ce la facciamo a pagarlo perché c’è sempre meno lavoro per mio marito. Lì almeno mi costa poco fare la casa. Conviene investire là che se qualcosa va male torniamo.

Dall’altro, nei racconti delle loro visite nei paesi di provenienza, emergono spesso insoddisfazione e disagio nei confronti di determinate condizioni o stili di vita in cui sempre più a fatica riescono a riconoscersi dopo anni di vita vissuta in Italia.

[Lei]: In Romania se vado adesso non riesco a finire la casa. Lo stipendio è di massimo 300 euro e le cose al supermercato costano più di qua. Ci sono i grandi magazzini come qua ma se io vado lì vestita così, normale o in tuta, mi guardano come una che chiede elemosina. Non è come qua. Si vive male in Romania.

(Ester, 29 anni, Romania, coniugata, colf)

Inoltre, gli scenari prospettati dalle donne più giovani appaiono spesso scissi tra ciò che progettano per loro stesse e per i propri figli. Per un verso, parlare di futuro significa porre di fronte a sé innanzitutto quello dei propri figli. Il momento presente rappresenta la base su cui poggia il tempo futuro dei figli. Parte delle madri intervistate trae proprio dalla presenza e dal senso di responsabilità verso i figli, il senso e la forza di vivere ogni giorno le difficoltà nel paese d’immigrazione. Questo rappresenta per loro il luogo che può offrirgli maggiori opportunità di benessere e mobilità sociale; questo è il loro paese, dove sono nati o sono cresciuti e si stanno formando. D’altro canto, alcune di loro, sperano quando i figli saranno autonomi, di poter tornare a vivere nel paese d’origine. L’esperienza delle donne adulte incontrate, ci porta però a supporre che questo desiderio con gli anni possa affievolire tanto più le donne e le loro famiglie riescono ad integrarsi nel tessuto sociale ed economico del paese d’arrivo.

Non mancano però i casi, tra le donne più giovani, in cui il progetto è chiaramente quello di stabilirsi definitivamente, mirando ad esempio ad accedere ad un mutuo per l’acquisto di una casa; questa prospettiva è rinforzata dalla presenza di una rete di solidarietà familiare solida in Italia (madri, zii, fratelli) o dal parallelo indebolimento dei legami con il paese d’origine e dalla presenza di un’attività lavorativa propria o del coniuge che si ritiene consolidata.

[I]: Cosa vedi nel tuo futuro per te e i tuoi figli?

[Lei]: Lo vedo qua il mio futuro per adesso, intanto vorrei fare un mutuo e che mia figlia studia quello che vuole studiare. Mi auguro tanto che studi e sia qualcuno in più.

(Maria, Colombia, 29 anni, nubile, assistente familiare)