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CONCILIAZIONE TRA LAVORO E FAMIGLIA QUALI IMPLICAZIONI PER LE DONNE

1. Il quadro europeo

Il termine conciliazione, secondo la sua radice etimologica, rimanda all’atto di riportare l’armonia, l’accordo, la ricomposizione tra due parti contrastanti. Con il concetto di conciliazione tra vita lavorativa e vita familiare si fa riferimento al diritto di donne e uomini a realizzare una gestione armonica tra questi due ambiti. Il dibattito sociologico intorno alla conciliazione tra sfera familiare e sfera del lavoro per il mercato si sviluppa alla fine degli anni ’70, nell’ambito degli studi di genere. In quel periodo, l’entrata delle donne nel mercato del lavoro assume il carattere di un fenomeno di massa e mette in crisi il “sistema lavoro- famiglia” (Pleck, 1977)9 su cui si era retta l’organizzazione delle società capitalistiche dagli anni del dopoguerra. Un ordine sociale centrato sul modello familiare del male breadwinner e della female homemaker ovvero sulla divisione tra i generi del lavoro e delle responsabilità ma anche dei ruoli e delle sfere d’azione (Saraceno, 2006). Questo era stato fino a quel momento il meccanismo di conciliazione nelle società industriali democratiche (Naldini, Saraceno, 2011). Si era andata costruendo una distinzione delle biografie e delle prospettive esistenziali di uomini e donne: i primi impegnati nella sfera produttiva del lavoro retribuito e le seconde nella sfera riproduttiva, nel lavoro familiare, di cura e domestico. L’istituzionalizzazione della “doppia presenza” (Balbo, 1978) nel mercato del lavoro e nella famiglia delle donne adulte con carichi familiari, rompe                                                                                                                

questo equilibrio e fa emergere nuove problematicità, nuovi bisogni di ricomposizione, di armonizzazione tra due ambiti fino ad allora concepiti e vissuti come separati. Proprio perché la questione della conciliazione tra lavoro e famiglia nasce da un mutamento dei comportamenti delle donne, essa è stata concepita fin dall’inizio come una questione principalmente femminile. Tutt’oggi, sebbene, a livello europeo, siano avvenute delle trasformazioni nella compagine dei ruoli e delle responsabilità familiari - con una riduzione dell’asimmetria di potere all’interno della coppia - e le stesse politiche sociali non guardino più alla conciliazione solo come ad una istanza femminile, nella realtà quotidiana essa rimane ancora prevalentemente tale. Gli oneri del “lavoro familiare” 10, dell’organizzazione e dei tempi dedicati alla famiglia occupano in misura maggiore le donne rispetto agli uomini11. Nello stesso tempo le donne “scelgono” e costruiscono nel corso della vita, anche attraverso il percorso d’istruzione, l’aspettativa di un lavoro. Il lavoro è percepito come lo strumento per la tutela della propria indipendenza, per la costruzione di un’identità soggettiva, individuale, slegata dalla dipendenza ad altre figure familiari e nello stesso tempo complementare a quella legata ai ruoli nella famiglia. Inoltre il lavoro e il reddito che ne deriva, sono percepiti anche come fattori di protezione da una molteplicità di rischi quali la perdita di lavoro del partner o la potenziale fine di un matrimonio, oltre al fatto di rappresentare un veicolo per sostenere un determinato stile di vita. Ne deriva che il problema di un’armonizzazione tra responsabilità familiari e impegni lavorativi pesi ancora maggiormente sulle donne e non allo stesso modo sugli uomini. Questo emerge con particolare forza nel caso italiano,                                                                                                                

10 Per «lavoro familiare» si intende il lavoro erogato nella e per la famiglia. Esso comprende mansioni e compiti concernenti la riproduzione (procreazione, allevamento dei figli, ecc.), attività domestiche (manutenzione della casa, preparare il cibo, fare acquisti e così via), compiti burocratici (mantenere i rapporti con enti, istituzioni, servizi) e compiti assistenziali (assistenza di malati, anziani, familiari non autosufficienti) (Bianchi, 1978, p. 7).

11 L’indagine Eurostat, “Reconciliation between work, private and family life in European Union”

(2009) mette in evidenza che nei 27 paesi dell’Unione Europea, nel 2005, in media le donne spendevano molto più tempo rispetto agli uomini nel lavoro non retribuito soprattutto nelle fasce d’età tra i 35 e i 39 anni (31,8 ore alla settimana contro le 9,2 ore spese dai coetanei uomini) e tra i 40 e i 54 anni (26,9 ore settimanali contro le 8,6 degli uomini). Inoltre, sebbene gli uomini spendessero più tempo per il lavoro retribuito, le donne lavoravano molte più ore nel complesso,

dove è ancora presente una forte divisione del lavoro che vede la madre come la principale responsabile dell’organizzazione del lavoro familiare. Gli uomini rimangono prevalentemente rivolti verso il mondo produttivo sebbene negli ultimi anni si assista, da parte dei padri, ad una maggiore volontà di condivisione nella cura dei figli. Le altre sfere del lavoro familiare rimangono ancora compito prevalentemente delle donne. Se vi è stata una parziale riduzione delle differenze di genere in quest’ambito, essa non è tanto dovuta ad una maggiore partecipazione maschile, quanto piuttosto al fatto che le donne si rivolgono ai servizi pubblici e al mercato per sostenere il peso dei lavori domestici e di cura.

L’ingresso massiccio delle donne nel mercato del lavoro s’intreccia ad altri fenomeni di ordine demografico, culturale, comportamentale, a livello macro e micro, che influiscono nella definizione dei bisogni di conciliazione delle famiglie. In ambito europeo, due sono le principali trasformazioni che caratterizzano maggiormente l’epoca contemporanea contribuendo a modificare i bisogni di conciliazione: i mutamenti demografici e quelli relativi all’organizzazione del lavoro.

A livello demografico, il calo della fecondità, le migliori condizioni di vita (sanitarie, alimentari, igieniche) e l’assenza di conflitti bellici hanno allungato la speranza di vita portando all’invecchiamento della popolazione. Proprio l’invecchiamento della popolazione e quindi delle reti familiari si traduce in una crescente presenza di anziani potenzialmente fragili, delineando così una nuova domanda di cura e di assistenza (Naldini, Saraceno, 2011). Accanto a ciò, la bassa fecondità muta il rapporto numerico tra potenziali familiari caregiver e familiari bisognosi di cura. Se le ricerche fino ad ora si sono focalizzate sui problemi di conciliazione tra lavoro e carichi familiari legati alla presenza di figli piccoli, oggi la questione si amplia anche alla presenza dei familiari anziani all’interno delle famiglie, la cui responsabilità grava sempre più spesso su un unico, o meglio ancora, su un’unica figlia. Nel corso di vita di una donna, aumenta la possibilità di dover occuparsi di più familiari non autosufficienti in più fasi della vita: prima i figli, poi i nipoti e i propri genitori anziani.

L’altro fattore fondamentale che influisce su una modificazione dei bisogni di conciliazione è la trasformazione del mercato del lavoro che ha reso i rapporti di lavoro più flessibili, precari, temporanei, deregolamentati e ha supportato un aumento dello sfruttamento del lavoro attraverso l’allungamento degli orari lavorativi, l’accelerazione dei ritmi del lavoro e la dequalificazione di buona parte delle occupazioni (Perocco, 2012a). Le conseguenze di questo fenomeno hanno avuto un impatto negativo a tutti i livelli della scala dei lavoratori – esclusa una ristretta élite - ma le conseguenze peggiori le scontano coloro che si trovano ai gradini medio-bassi dal momento che per loro vi è sempre meno possibilità e potere di negoziazione all’interno dei luoghi di lavoro e, di fronte al rischio della disoccupazione, si ritrovano ad accettare condizioni contrattuali e salariali svantaggiose che si traducono anche in peggiori condizioni di vita.

Le implicazioni di questo fenomeno sulle famiglie, in termini di possibilità di conciliazione, sono molteplici e differiscono da paese a paese e all’interno di ogni paese poiché vanno lette alla luce di numerose variabili: dei tipi di contratto e dal livello di qualificazione del lavoro svolto, delle forme di protezione sociale ad essi associate, delle risorse formali e informali fruibili da ciascun individuo o famiglia, dai sistemi di welfare locali e nazionali, dalla possibilità e dal grado di accesso a diritti civili e sociali dei singoli. In generale, è possibile affermare che la precarietà sia diventata un tratto caratteristico di tutte le sfere della vita sociale, da quella lavorativa ed economica a quella esistenziale, individuale e collettiva (Ibidem). Guardando all’assetto dell’attuale mercato del lavoro insieme al graduale ritiro dei sistemi di protezione sociale pubblica, le famiglie sperimentano quotidianamente una condizione di vulnerabilità sociale ed economica. L’instabilità che deriva da rapporti di lavoro precari aumenta la percezione d’insicurezza negli individui con effetti negativi sullo sviluppo delle strategie familiari di lungo periodo – sempre più spesso, ad esempio, si rimanda la decisione di fare famiglia o di avere figli (Naldini, Saraceno, 2011). E se da un lato, in alcuni casi, la presenza di orari flessibili o “atipici” dei coniugi può aiutare una conciliazione dei tempi e una redistribuzione delle responsabilità - ad

esempio, permettendo un’alternanza della presenza dei genitori per la cura dei figli e una maggiore divisione dei compiti - dall’altro, gran parte di questo tipo di rapporti di lavoro non consentono di accedere agli strumenti tradizionali di conciliazione (ad esempio congedi e permessi retribuiti) proprio perché pensati dalle politiche sociali in riferimento a rapporti di lavoro “standard”. Inoltre, diverse ricerche mostrano come siano aumentati la tensione e il rischio di stress e di conflitti nelle famiglie a causa degli orari di lavoro lunghi e in giorni e fasi della giornata sfavorevoli - turni di notte e nel weekend ad esempio – che portano ad una diminuzione del tempo fruibile nella famiglia e per sé stessi (Presser, 2008; Eurostat, 2009; Steiber, 2009). In definitiva, rimane ancora molto controversa e dibattuta la questione se e come il lavoro flessibile possa costituire un’effettiva risorsa per la conciliazione nel breve e nel lungo periodo.

Di fronte all’impatto sociale di questi mutamenti, già a partire dagli anni ’70, le politiche sociali degli stati della Comunità Europea hanno iniziato a focalizzare e a predisporre i primi strumenti nell’ambito della conciliazione tra sfera professionale e familiare. Inizialmente, la questione si è focalizzata sul permettere la partecipazione al mercato del lavoro delle madri lavoratrici, introducendo il congedo di maternità, il congedo parentale facoltativo e formulando le prime politiche di cura rivolte ai bambini di età prescolare (Saraceno, 2003). Nel corso degli anni ’90, il problema della conciliazione tra vita professionale e responsabilità familiari è riformulato all’interno delle politiche di uguaglianza e di pari opportunità. Con la raccomandazione 92/241/CEE, il Consiglio Europeo incoraggia gli Stati membri a predisporre degli strumenti che permettano a donne e uomini di conciliare le proprie responsabilità in ambito professionale e familiare. In particolare, si raccomanda di intervenire nell’ambito dei servizi per l’infanzia, del sistema dei congedi, dell’organizzazione del lavoro e promuovere la suddivisione delle responsabilità tra i generi. Un secondo tassello al quadro delle politiche di conciliazione europee è costituito dalla direttiva 96/34/CE che introduce il diritto-dovere dei padri alla condivisione con le madri della cura dei figli attraverso il quadro dei congedi parentali.

Il punto di svolta nel discorso europeo sulla conciliazione si ha nel 1997, con il trattato di Amsterdam che introduce la Strategia Europea per l’Occupazione (ESS) improntata a sviluppare, in maniera coordinata tra gli Stati membri, un mercato del lavoro più reattivo ai mutamenti economici e in cui “tutti” siano chiamati a partecipare attivamente (Naldini, Saraceno, 2011). Il discorso sulla conciliazione viene in questo modo riformulato all’interno di misure il cui fine è primariamente quello di un’inclusione occupazionale delle donne e, proprio in linea con questo obbiettivo, vengono incentivati quali strumenti di conciliazione soprattutto i servizi per l’infanzia, a discapito del sistema dei congedi parentali. Vengono così posti in secondo piano la promozione dell’uguaglianza di genere nelle responsabilità familiari e la parità tra uomini e donne nel mercato del lavoro, rendendoli strumenti funzionali alle esigenze del mercato e agli obbiettivi sull’occupazione (Stratigaki, 2004). In linea con questa prospettiva, dal Trattato di Lisbona, nel 2000, si sviluppano alcune tendenze generali: si sviluppano politiche sociali volte ad incrementare l’occupazione, in particolare delle donne; si abbandona la politica del “maternalismo” che riconosceva il ruolo di madre come fonte di diritti e di protezione sociale a favore, invece, di quella della “defamilizzazione” in cui parte delle responsabilità di cura sono demandate alla società (seppure con forti differenze da paese a paese); infine, l’uguaglianza di genere viene considerata come funzionale agli obbiettivi economici (Ostner, 2012).

Le direttive europee sono state accolte in ciascun paese in maniera diversa, in base ai quadri economici, politici ed istituzionali nazionali e ai modelli di

welfare di riferimento, con diverse gradazioni nello sviluppo e nella combinazione

tra modelli di “defamilizzazione” e di “familismo sostenuto”12 (Naldini, Saraceno, 2011).

Nel discorso sulla conciliazione le politiche adottate in ciascun paese svolgono un ruolo chiave, perché se da un lato creano un sistema di vincoli ed                                                                                                                

12 Per politiche di “familismo sostenuto” s’intendono quelle politiche che incentivano sostegni di tempo (congedi parentali) e finanziari (indennità di maternità, genitoriali e altri tipi di

opportunità ai comportamenti dei singoli e delle famiglie, dall’altro hanno conseguenze anche a livello macro, ad esempio incentivando determinati modelli di occupazione e di fecondità.

In conclusione a questo primo sguardo sul tema, vorrei sottolineare come sia centrale, nella questione della conciliazione, l’elemento del tempo. In Europa, sia per gli uomini che per le donne, è aumentato il tempo speso nel lavoro retribuito e diminuito quello speso per il lavoro familiare. Se gli uomini spendono più tempo nel lavoro per il mercato, le donne lavorano nel complesso più ore degli uomini poiché dedicano molto più tempo al lavoro familiare e di conseguenza hanno meno tempo libero (Eurostat, 2009). Il tempo rappresenta così un bene prezioso, una risorsa che appare sempre meno sufficiente a soddisfare non solo i bisogni della famiglia, ma anche le esigenze di riposo e del tempo per sé stessi, per i propri interessi nonché per mantenere le relazioni al di fuori della famiglia e per la partecipazione sociale e politica. La mancanza di tempo per queste attività rischia di tradursi in un impoverimento del capitale sociale e delle relazioni umane per gli uomini, ma soprattutto per le donne. Già alla fine degli anni ’70, Laura Balbo (1978) sollevava la questione: «il modello della “doppia presenza” presuppone che le donne si dividano tra il lavoro professionale e il lavoro familiare, precludendo la loro presenza in qualsiasi altro ambito. E’ verso questo tipo di organizzazione sociale, in questo modo razionalizzata, privatizzata, controllata, che stiamo andando?» (Ivi, p. 6). In questi termini il problema della conciliazione si allarga a tenere conto del diritto di donne e uomini ad un equilibrio non solo tra il lavoro e la famiglia, ma includendo il tempo per sé stessi.