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Il caso dell’area metropolitana di Roma

Le trasformazioni dell’area metropolitana romana avvenute negli ultimi decenni rappresentano un esempio plasticamente significativo delle riflessioni finora svilup- pate.

9 Vedi Regione Lazio, Progetto Integrato Aree Rurali Romane (PIARR) – Documento del Gruppo di Lavoro composto da G. Cafiero, C. Cecchi, R. Finuola, G. Lucatello, A. Pascale, S. Senni, inedito, 2006.

L’immagine zenitale della sua attuale configurazione, se guardata a occhi socchiusi in una visione sgranata e pulviscolare, ricorda le ipotesi di assetto del territorio romano e regionale elaborate nella prima metà del secolo scorso (dal Programma

urbanistico di Roma del 1929, al Progetto di massima del Piano Regionale di Roma

del 1930, allo Schema preliminare del piano regolatore della zona da Roma al mare del 1938-39, fino alla cosiddetta Variante del ventennale del 1942), cioè a tutti quei progetti irrealizzati che, per unanime convinzione del pensiero urbanistico del tempo, avrebbero dovuto restituirci una città-territorio sorretta da un’ossatura urba- nistica e tipologico-insediativa fatta di quartieri satelliti disposti secondo un model- lo a nuclei staccati, opportunamente dislocati “a rosario” sulle colline, verso il mare, verso i Colli Albani, verso Civitavecchia, lungo le direttrici della Pontina, della Tiburtina e delle altre strade consolari, verso Anguillara Sabazia e il Lago di Bracciano, in una alternanza di costruzioni, di parchi, di impianti sportivi e di ser- vizi, di aree agricole e aree industriali, non una continuità edilizia, insomma, ma una continuità urbanistica, assicurata da un’adeguata rete di infrastrutture di colle- gamento e di trasporto pubblico collettivo rapide ed economiche (Civico, 1937). Guardata a occhi aperti, quella stessa immagine, come le altre che si possono oggi cogliere ad altezza d’uomo, mostra che di quel sogno ci resta ora solo la “marmel- lata insediativa” delle attuali conurbazioni metropolitane, che contraddicono e annullano l’organizzazione policentrica e reticolare un tempo immaginata.

In 50 anni si è infatti registrata una ciclicità entro cui il rapporto tra popolazione insediata a Roma e nella provincia è passato da circa tre a uno negli anni ’50, a quattro a uno negli anni ’70, di nuovo tre a uno negli anni ’90, fino a quasi due a uno nei giorni nostri.

Una “respirazione demografica” che, senza il controllo di adeguate strategie piani- ficatorie e dietro l’incalzare della dispersione insediativa nell’area metropolitana, non è avvenuta senza lasciare pesanti deformazioni nello status complessivo del territorio provinciale: l’irreversibile spostamento del “baricentro” demografico di Roma e provincia verso la fascia costiera; il definitivo appannamento dei ruoli stra- tegici svolti dai “nodi” dell’originario sistema multipolare (Civitavecchia, Colleferro, Velletri, Anzio-Nettuno); l’anomalo ingigantimento della dimensione metropolitana che scaraventa popolazione oltre Roma, oltre i comuni di prima cin- tura, in una nebulosa di frammenti edilizi depositati nel territorio aperto.

È il “big bang” di Roma e dell’area romana, ovvero la sua dilatazione “fredda”, per- ché a saldo demografico negativo, “a macchia d’olio”, perché isotropa, e nel vuoto, perché verso uno spazio ormai privo di qualsiasi elemento strutturante.

I flussi migratori di popolazione verso l’hinterland metropolitano che stanno avve- nendo oggi sia a scapito della Capitale sia dalle regioni periferiche più depresse, corrispondono, infatti, alla drastica riduzione delle superfici utilizzate per fini agri- coli produttivi; una diminuzione che i dati del censimento del 2000 rispetto a quel- lo del 1991 indicano pari a quasi il 20%, portando la quota di superficie agricola nella provincia di Roma ad appena il 53,64% di quella totale, ovvero oltre 1/3 in meno di quella degli anni ’50, quando era più dell’85% (Di Mario, 2006).

Da una parte, si assiste alla fluttuazione dei rapporti demografici tra Roma e gli altri comuni della provincia nell’arco di tempo considerato, una “respirazione” appun- to, scandita dal nuovo urbanesimo degli anni ‘50 e ’60, e dall’inversione di questo processo, con passo lento a partire dagli anni ’70, fino agli odierni, ormai prorom- penti, fenomeni di dispersione insediativa.

Dall’altra, si registra la costante dismissione delle attività agricole produttive, con un picco nell’ultimo decennio tanto negativo da sommare tutti i precedenti, e lo spostamento degli epicentri geografici a più spiccata vocazione produttiva dalla montagna alla pianura, dalla pianura alla montagna, poi ovunque, e infine confina- ti in isole sempre più circoscritte e marginali.

Due processi concorrenti, dispersione insediativa e dismissione delle attività agri- cole, la cui più recente simmetrica dirompenza ha sovente indotto a giustificarne, e semplificarne, il risultato entro un rapporto diretto di causa-effetto (il “consumo di suolo” è causa della dispersione insediativa), e di cui invece appare fondamentale considerarne, per valutare l’effettivo grado di interdipendenza, sia le già evidenzia- te differenze di fenomenologia storica sia la diversa genesi.

Infatti, sebbene intimamente collegati, i processi descritti agiscono nel territorio e nel tessuto socio-economico con motivazioni diverse e tra loro indipendenti sinteti- camente riconducibili ai seguenti fattori di natura economica, geopolitica e tecno- logica: dal plusvalore fondiario accumulato nelle aree fabbricabili urbane alla tra- sformazione dei profili produttivi agricoli, dalla fuga dalla metropoli alla propensio- ne all’abitazione monofamiliare, nel caso della dispersione insediativa; dallo spo- stamento in aree extra europee delle grandi coltivazioni alla progressiva riduzione delle provvidenze finanziarie erogate dall’UE, dalle trasformazioni tecnologiche, che rendono le pratiche agrarie sempre più classificabili nell’ambito del settore secondario piuttosto che in quello tradizionalmente primario, alla conseguente riduzione dell’influenza dei “vincoli” naturali (potenziale di crescita biologica, geomorfologia, esposizione, caratteristiche chimico-fisiche dei suoli, quantità d’ac- qua disponibile, clima locale) e predominanza dei vantaggi di localizzazione

rispetto alle reti infrastrutturali, nel caso delle trasformazioni degli usi agricoli dei suoli.

Il codice genetico di questi processi ne fa immaginare la durevolezza degli effetti, e ne evidenzia anche aspetti e funzionamenti spesso non sufficientemente considera- ti: le dinamiche demografiche e quelle connesse all’uso agricolo dei suoli, seppure reciprocamente influenzate, funzionano con regole proprie e tra loro indipendenti; tra avanzamento del disperso insediativo e dismissione delle pratiche agricole pro- duttive sussiste un rapporto assimilabile a un principio di vasi comunicanti (a usi abbandonati se ne sostituiscono di nuovi); le diverse e autonome razionalità di fun- zionamento dei due fenomeni, come pure il principio dei vasi comunicanti a cui sembrerebbero assoggettati, contraddicono il pensiero ricorrente secondo cui il cosiddetto “consumo di suolo” dipende pressoché esclusivamente dalla dispersione insediativa dalle città verso la campagna.

Gli strumenti più recentemente varati, dal nuovo Piano Regolatore Generale (PGR) di Roma al nuovo Piano Territoriale Paesistico della Regione Lazio (PTPR), sembra- no tuttavia riflettere una tuttora diffusa inconsapevolezza dei fattori genetici profon- di alla base delle mutazioni che si stanno producendo (Palazzo, 2008). È parados- sale la distanza abissale tra quanto previsto da questi strumenti e le misure del Programma di Sviluppo Rurale 2007-2013 della Regione Lazio. Ciò dimostra la scarsa integrazione tra politiche di programmazione e pianificazione, mentre, vice- versa, è proprio questa integrazione una delle priorità che l’attuale scenario territo- riale reclama. Cartina al tornasole di questa situazione è l’attuale dibattito in corso a Roma e nel Lazio in merito alle politiche abitative e al Social Housing a seguito del bando emanato dalla giunta Capitolina per il reperimento anche in zona agri- cola di aree necessarie alla realizzazione di interventi di edilizia sociale nell’ambi- to del Piano casa nazionale. In campo vi sono le posizioni di chi, in nome della resistenza ai processi di “consumo di suolo” e agli interessi degli speculatori del momento, ritiene che i nuovi interventi debbano circoscriversi solo nell’ambito della città compatta, nelle zone a ciò destinate nel nuovo PRG di Roma, anche a costo di riconsiderare le effettive esigenze in termini di nuovi alloggi da destinarsi ai “senza casa”, da una parte; dall’altra, quelle di chi, considerando necessario e prioritario dar corso alla realizzazione dei nuovi programmi finanziati di edilizia sociale e valutando già insufficiente il potenziale edificatorio residuo che il PRG mette a disposizione, non esclude, se necessario, l’impegno di nuove aree attual- mente con destinazione agricola (Pascale-Di Mario, 2008).

zioni che negli ultimi decenni si sono progressivamente verificate, i brandelli del- l’urbanizzazione senza regole che scardinando i tradizionali confini tra città com- patta e spazi aperti si sono progressivamente sovrapposti, cancellandole, alle arti- colazioni storiche delle tenute e dei casali della Campagna romana come alle trame degli interventi di bonifica. Un dibattito che non sembra cogliere quanto l’Agro romano non sia più l’Agro romano delle nostre bucoliche immaginazioni, e quanto invece sia oggi uno spazio ibrido, una periferia urbana e metropolitana, che non è più campagna e che non può definirsi città, uno spazio che è oltre la città e oltre la campagna.

Ebbene, di fronte a questo diverso scenario, a questo “nuovo mondo” in cui si con- densano e annidano problemi spaventosi di organizzazione e gestione dei servizi alla popolazione, di degrado materiale e spirituale, di giustizia e di sicurezza socia- le, il dibattito sta invece ruotando esclusivamente intorno ai criteri di localizzazio- ne dei nuovi interventi di edilizia sociale finanziati dal “Piano casa”: come se tutta la questione possa risolversi su dove - e chi debba decidere dove -, costruire le “nuove borgate”; come se non fosse invece necessaria non solo una valutazione più integrata del tema del Social Housing ma anche e soprattutto una rivisitazione alla radice del concetto stesso del cosiddetto “consumo di suolo”.

La realizzazione in forma intensiva di nuovi quartieri di edilizia sociale non sembra affatto l’unica risposta possibile, mentre al contrario, così come avvenne al tempo della Città-giardino Aniene e della Garbatella, sarebbe più che mai utile e interes- sante la sperimentazione di nuove forme di urbanità, a bassa e bassissima densità, anche di autocostruzione, capaci di generare maggiore integrazione tra città e cam- pagna, sfruttando e capitalizzando le contiguità con gli ambiti rurali e agricoli in termini di approvvigionamento alimentare e di scambio di servizi.

Allo stesso modo, l’incentivazione dell’agricoltura nuova potrebbe rivelarsi utile, in termini sia di maggiore equilibrio ecologico tra natura e città, sia di accentuazione dello scambio virtuoso di beni e benefici tra le dimensioni rurali e urbane, sia di consolidamento delle reti di protezione e di inclusione sociale nello spazio urbano e metropolitano.

Un caso esemplare di progettazione integrata territoriale nel basso