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L’esperienza degli orti urbani in Italia

Giulio Crespi30li ha definiti come <<un appezzamento di qualche centinaio al mas-

simo di metri quadrati, ad ordinamento policolturale, coltivato direttamente dall’in- teressato con l’eventuale aiuto di familiari, il cui prodotto serve in maniera prepon- derante per l’autoconsumo e si immette in un ciclo di economia di baratto>>. Gli

orti urbani rappresentano il collegamento concreto più diretto e antico tra realtà urbana e cultura contadina ma hanno testimoniato anche, con la loro graduale diminuzione e costante marginalizzazione, l’affermarsi di una cultura in cui il modello urbano viene percepito come superiore rispetto a quello rurale. In Italia, quindi, la presenza di orti nelle aree urbane non è un fenomeno recente, al contra- rio, esso ha da sempre accompagnato lo sviluppo e le trasformazioni delle nostre città. Coltivazioni orticole a ridosso delle mura cittadine facevano parte integrante del paesaggio agrario medioevale e, successivamente annesse all’interno delle forti- ficazioni, assunsero la duplice funzione difensiva e di produzione. In seguito, ana- logamente a quanto accadeva in tutta Europa, la demolizione delle mura intorno alle città, consentì la libera espansione della struttura urbana, all’interno della quale vennero inglobati appezzamenti di terreno alcuni destinati ancora alla colti- vazione altri a diventare orti-giardini per edifici privati.

Testimonianza del graduale e sofferto passaggio da una economia essenzialmente rurale a una industriale, gli orti urbani, nel corso della prima rivoluzione industria- le, coesistono con iniziali forme di assegnazione e gestione di aree orticole messe in atto direttamente da imprenditori industriali attraverso la costruzione dei cosid- detti “villaggi operai” (analogamente a quanto avveniva in Francia dove aree ortico- le erano spesso gestite dalle compagnie ferroviarie e minerarie). Pensate e progetta- te in funzione degli insediamenti industriali, le case operaie disponevano di un pic- colo giardino-orto che oltre a dare un’illusione di continuità con il passato contadi- no alla manodopera ora impegnata in fabbrica, offrivano una sorta di economia di sussistenza a integrazione dei salari provenienti dal lavoro industriale. Il villaggio operaio di Crespi d’Adda (Patrimonio dell’UNESCO) costruito nel 1877, il

29 Adalgisa Rubino, giornalista , insegna presso il Dipartimento di Urbanistica e Pianificazione del territoriodell’Università degli Studi di Firenze; Manuela Scornaienghi è CTER (Collaboratore Tecnico di Ricerca) all’INEA (Istituto Nazionale di Economia Agraria)

Leumann, edificato intorno all’omonimo cotonificio tra la fine dell’ ’800 e i primi del’900, i cosiddetti “complessi semirurali” destinati agli operai della Falck, per citarne alcuni, benché complementari e di natura diversa rispetto a quella degli orti urbani veri e propri, rivelano il rapporto privilegiato tra le prime esperienze indu- striali e la cultura contadina e spiegano, ancora oggi, la presenza e la maggiore concentrazione di spazi orticoli in determinate zone delle attuali aree metropolita- ne.

Gli orti urbani furono numerosi durante il ventennio fascista e in particolare negli anni della seconda guerra mondiale quando, per fronteggiare la grave crisi econo- mica, il regime decise di intensificare la cosiddetta “battaglia del grano” promuo- vendo la coltivazione degli “Orti di guerra”. Giardini privati, parchi pubblici e aree edificabili furono resi produttivi grazie al lavoro degli stessi cittadini e degli aderen- ti alle organizzazioni del partito. Qualcosa di analogo a quanto accadeva nel con- tempo dall’altra parte della barricata, negli Stati Uniti, dove nei cosiddetti “Giardini della Vittoria” gli americani coltivavano una percentuale importante del fabbisogno orticolo nazionale.

Ma è con il grande sviluppo industriale della seconda metà del XX secolo che, in fasce importanti del territorio italiano, soprattutto settentrionale, si assiste a un vero e proprio boom degli orti urbani, tanto da fare emergere la necessità di una loro prima regolamentazione.

La cosiddetta “seconda rivoluzione industriale” investe in particolare le aree periur- bane, cioè quelle zone di “transizione” tra città e campagna destinate storicamente ad accogliere determinate attività (grandi impianti industriali, infrastrutture ferrovia- rie e aeroportuali, cimiteri, ecc.). Tali aree in quegli anni furono assorbite dalle città, caratterizzandosi però per il diffuso degrado e l’isolamento sociale tipici dei quartieri delle estreme periferie cittadine. Sono queste le zone in cui saranno edifi- cati i complessi abitativi destinati alla nuova manodopera industriale proveniente dalle regioni dell’Italia meridionale, e sono queste le aree in cui il fenomeno degli orti urbani avrà il suo massimo sviluppo. Il caso di Torino è significativo a riguardo. Tra gli anni ’50 e ’60 del secolo scorso il capoluogo piemontese passa da una popolazione di 600.000 abitanti a circa un milione; negli anni ’7031gli orti urbani interessavano quasi 2 milioni di mq di territorio urbano e periurbano e nel 1980 su una popolazione residente di 1.143.263 abitanti risultava una superficie ortiva di 146.4 ettari. I dati, oltre a indicare l’estensione del fenomeno spiegano la preoccu-

pazione da parte delle Istituzioni locali per una situazione inconsueta che, tra l’al- tro, si presentava quasi del tutto abusiva.

Analoghe condizioni si riscontrano in altre città, soprattutto Milano, Bologna, Firenze e Roma dove, all’aumento consistente della popolazione coincide un’ espansione delle aree orticole gestite, nella maggior parte dei casi in maniera abu- siva da parte dei nuovi residenti, generalmente immigrati meridionali: contadini, braccianti, pastori che, costretti a trasformarsi in operai nelle grandi fabbriche o in addetti di altri settori produttivi, mantenevano un rapporto con la loro cultura d’ori- gine attraverso la coltivazione di decine di migliaia di piccoli appezzamenti, rica- vati lungo le rive dei fiumi cittadini, le reti ferroviarie, i tracciati viari e in qualun- que altro pezzo di terreno residuale. Una integrazione al reddito, ottenuta con grande fatica (spesso i terreni si presentavano come vere e proprie discariche), ma anche la volontà di recuperare valori ed esperienze lontani attraverso strumenti come la terra e l’agricoltura legati al vissuto di questi nuovi contadini di città. L’orto dunque si rivela elemento di identificazione per gli immigrati, ma non solo; esso rappresenta anche opportunità di svago, di impiego del tempo libero, un’occasione di ritrovo.

Il legame della nuova società industrializzata con la cultura contadina che i primi imprenditori italiani avevano intuito come elemento fondamentale per il benessere dei loro operai-contadini (maggiore qualità della vita, migliore produttività) e ripro- dotto attraverso la creazione dei villaggi operai, dopo circa un secolo di grande svi- luppo industriale appariva dunque, più forte che mai.

L’esigenza di una regolamentazione: da orti abusivi a orti sociali

L’esigenza di contenere gli aspetti di spontaneità e abusivismo del fenomeno orti urbani e il riconoscimento dell’ importanza socio-economica da essi esercitata si tradussero, negli anni ’80, nella redazione delle prime normative relative all’asse- gnazione di aree orticole ai cittadini interessati.

Collegati alle politiche a favore delle classi disagiate (anziani, disoccupati, disabili), i regolamenti per assegnazione degli orti in base a criteri sociali, se da un lato san- civano, finalmente, il riconoscimento ufficiale del fenomeno, dall’altro ne provoca- vano, inevitabilmente, il contenimento, limitandone fortemente il carattere di spon- taneità e “creatività”. Molte delle aree orticole si caratterizzavano, infatti, per il dif- fuso degrado, l’utilizzo di materiali riciclati, spesso non idonei all’uso, oltre che scadenti dal punto di vista estetico. Cosa che, di fatto, ancora oggi si riscontra nelle aree orticole non sottoposte a regolamentazione.

Il primo regolamento italiano di orti sociali comunali fu redatto nel 1980 a Modena32, e sulla sua base furono assegnati a pensionati di età superiore ai 55 anni sei orti per anziani su un terreno suburbano non edificabile. Di questa prima nor- mativa è importante sottolineare la provvisorietà della concessione (ogni sei mesi o a raccolto avvenuto gli orti dovevano essere riassegnati) e il notevole controllo sugli anziani assegnatari, tenuti a coltivare gli orti in prima persona, anche se il contribu- to di familiari era ammesso.

Da allora la creazione e l’assegnazione di aree orticole da parte delle amministra- zioni comunali di gran parte del Paese è notevolmente aumentata ed è spesso inse- rita nell’ambito di progetti di riqualificazione ambientale che fanno riferimento a modelli di sostenibilità delle aree urbane che tengono conto di nuove esigenze sociali culturali e ambientali in linea, oltre che con il movimento di riscoperta di un’agricoltura self-made, (nel contesto internazionale si parla di urban agriculture), con la Convenzione Europea del Paesaggio (CEP) e con il concetto di multifunzio- nalità in agricoltura. È in questo ambito che si inserisce, ad esempio, il progetto di riqualificazione delle aree industriali e agricole periurbane del milanese con la costituzione del Parco Nord di Milano.

Sorto alla fine degli anni ’70 su un territorio caratterizzato da un esteso fenomeno di abusivismo orticolo, il parco attualmente ospita 250 orti, collocati in aree di confine con gli insediamenti urbani, gestiti da 350 persone; altri nuclei ortivi sono in fase di realizzazione perché la richiesta di terra da coltivare è molto elevata. Ogni orto ha una superficie di 50 mq e dispone di un contenitore per attrezzi e un attacco per l’acqua. Gli orti, recintati e chiusi, si affacciano su vialetti transitabili in modo da formare un itinerario ortivo, della cui bellezza possono godere tutti i visi- tatori del parco. L’estetica è molto curata: il regolamento infatti, oltre a vietare costruzioni prevede che almeno il 10% della superficie dell’orto sia coltivata a fiori. Hanno diritto all’assegnazione pensionati, casalinghe con oltre 60 anni di età e disoccupati, residenti in uno dei comuni facenti parte del consorzio del Parco. L’assegnazione dura sei anni, con possibilità di rinnovo per altri sei e poi annuale; in caso di assenza prolungata dell’assegnatario, un’apposita delega consente di affi- dare la cura dell’orto ad altra persona. È previsto, inoltre, il pagamento di un cano- ne annuale calcolato in base al reddito dell’ortista e l’impegno a conoscere e rispettare con rigore gli articoli del regolamento.

In continuità con le varie esperienze di orticoltura urbana cittadina, si inserisce la

recente assegnazione, avvenuta nell’aprile 2007, di orti urbani nell’ambito del pro- getto “Riqualificazione Parco del Sangone” a Torino. Sono 101, su 270 domande, gli appezzamenti di circa 100 mq di terreno, da coltivare esclusivamente a ortaggi per consumo familiare, affidati ai cittadini per cinque anni. La creazione di questa nuova area orticola urbana, che ha visto la rimozione delle recinzione e dei capan- ni di 230 orti abusivi, si inserisce nel progetto di riqualificazione ambientale di un’ampia area verde (circa 190 mila metri quadrati) lungo la sponda sinistra del torrente Sangone, e prevede, oltre agli orti regolamentati, settecento metri di pista ciclabile, punti sosta, pergolati in legno e altri interventi per il recupero e la trasfor- mazione in parco pubblico dell’area, nell’ambito del piano “Torino Città d’Acque”. Nel campo più ampio dell’agricoltura sociale si inserisce l’esperienza del progetto “Orti in città” realizzato dall’amministrazione di Pontecagnano Faiano (SA) in col- laborazione con la locale sezione di Legambiente. Nata nel 2001 con il patrocinio della Soprintendenza Archeologica di Salerno e dall’Aiab (Associazione Italiana Agicoltura Biologica), la prima esperienza di orti cittadini regolamentati del meri- dione d’Italia, assegnava a pensionati con reddito basso, mediante bando pubblico, otto appezzamenti di terreno di 100 mq da coltivare in base ai principi dell’agricol- tura biologica. Il successo dell’iniziativa oltre a indurre gli organizzatori, nel corso degli anni, ad ampliarla, anche con l’istituzione di laboratori didattici aperti alle scuole (gli ortisti insieme a esperti incontrano, periodicamente, gli alunni delle scuole dell’obbligo per insegnare la cura delle piante e la loro trasformazione in cibo) ha portato, d’intesa con il Centro Giustizia Minorile Campania, alla promo- zione di un nuovo progetto per lo svolgimento di attività di volontariato da parte di minori sottoposti a provvedimenti dell’Autorità Giudiziaria Minorile. È importante sottolineare che gli orti di Pontecagnano sono inseriti all’interno di un Parco Archeologico Urbano in cui sono presenti spazi verdi a uso pubblico che si integra- no alle vere e proprie evidenze archeologiche. Il luogo è così diventato uno spazio vivo, un punto di incontro per tutti i cittadini in cui vivere e condividere esperienze sociali, culturali, didattiche (è prevista anche la realizzazione di un museo botani- co all’aperto, nel quale saranno coltivate specie vegetali autoctone e in via di estin- zione).

Oggi gli orti a Pontecagnano sono 47, altri 18 si trovano nel vicino comune di Eboli e altri ancora, data la grande richiesta, sono in procinto di essere realizzati in vari centri della provincia di Salerno, tanto che Legambiente Campania ha da poco pro- posto la creazione di una Rete regionale di orti urbani, allo scopo di recuperare dal degrado ambientale aree urbane periferiche o marginali valorizzandole attraverso

la costituzione di aree orticole in cui i cittadini possano diventare protagonisti-frui- tori dell’ambiente in cui vivono.

Un caso particolare all’interno del panorama italiano è quello della città di Roma, dove il fenomeno dell’abusivismo orticolo è ancora molto elevato. Secondo uno studio commissionato dalla stessa Amministrazione cittadina nel 2005, gli orti spontanei nella capitale sono 2.303 per una superficie di circa 887.050 metri qua- drati. Come nelle altre realtà caratterizzate dal fenomeno dell’abusivismo, la situa- zione si presenta particolarmente difficile da gestire in quanto l’evidente e pressan- te domanda di ruralità, espressa dai cittadini romani attraverso la continua occupa- zione illegale di spazi orticoli, si scontra con la necessità di una regolamentazione che tenga conto di necessità di natura ambientali, sanitarie, urbanistiche e sociali. Accogliendo le indicazioni contenute nel concetto di multifunzionalità agricola, il progetto dell’Assessorato all’Ambiente denominato “Parco degli orti urbani”, intra- preso nel 2000, mirava ad affrontare e risolvere tali problematiche, trasformando le aree orticole abusive in aree nelle quali, secondo precisi regolamenti, si potessero, sinergicamente, integrare la “domanda di ruralità” degli orticoltori tradizionali con quella di altre componenti sociali, quali nuovi hobbisti, bambini e soggetti con disagio. Le difficoltà culturali, politiche e burocratiche hanno limitato fortemente lo sviluppo del progetto, tanto che a oggi solo nel 16° municipio è stata avviata la vera e propria realizzazione. Un esempio, quello di Roma, di come sia ancora diffi- cile organizzare e realizzare una regolamentazione orticola di vaste dimensioni e che di fatto impedisce una evoluzione del settore in chiave moderna, nonostante sollecitazioni e riflessioni sull’argomento nella capitale siano presenti e diffuse fin dai primi anni ’80 del secolo scorso.

Un rapido sguardo oltre confine: Europa e Stati Uniti

Negli ultimi anni gli orti urbani sono al centro delle politiche di riqualificazione urbana in diversi contesti metropolitani per le varie funzioni che svolgono a livello sociale, ambientale, economico e culturale. Presenti con accezioni e modalità dif- ferenti in Europa, America del Nord e in Giappone, sono uno strumento di sviluppo sociale, di riappropriazione dei luoghi e di costruzione di comunità capaci di rispondere a una nuova domanda sociale, a un bisogno di naturalità e di rapporto con la terra e gli spazi naturali.

Gli orti urbani sono realtà riscontrabili nella maggioranza dei Paesi europei e rive- stono un ruolo e un valore che si differenzia nei diversi contesti, come si evince anche dalle diverse denominazioni che assumono: in Francia, sono generalmente

chiamati jardins familiaux, in Spagna il termine huertos familiares sta lentamente sostituendo quello di huertos marginales, così come in Italia il termine orti urbani quello di orti abusivi; in Germania e in Austria sono chiamati kleingarten (piccoli giardini) e in Inghilterra viene usato il termine allotment garden (letteralmente orti di giardino). Diverse denominazioni che fanno riferimento a “insiemi di piccoli orti,

generalmente situati in zone urbane e periurbane, ma disgiunti dai luoghi di abita- zione dei loro coltivatori che li mettono in valore con dei fini di autoconsumo fami- liare”33. Tale finalità, che vieta la vendita dei prodotti, accomuna la normativa di

diversi Paesi europei ad eccezione della Polonia e della Repubblica Ceca dove, infatti, la vendita è autorizzata.

Se gli orti urbani rispondono in Europa a una definizione morfologica sostanzial- mente univoca, le situazioni sono molto diverse, “esiste una vera linea di demarca-

zione, situata approssimativamente lungo il 45 parallelo. A Nord di questa frontiera, gli orti urbani, molto sviluppati, si impongono come delle realtà istituzionali e cultu-

rali e si inseriscono fortemente nelle pratiche locali”34. È il caso di Germania,

Austria, Belgio, Gran Bretagna, Repubblica Ceca e Polonia. Al Sud, come in Italia e Spagna, gli orti urbani sono una realtà più marginale sia per quantità che per gli usi anche se, come visto precedentemente, negli ultimi decenni sono al centro di diverse importanti iniziative.

Gli orti urbani dei Paesi del Nord si distinguono sotto il profilo delle pratiche collet- tive. Nati sia per favorire l’autoconsumo sia per creare occasioni di vita comunita- ria si integrano al loro contesto urbano assumendo la vera e propria configurazio- ne di infrastruttura territoriale: hanno un carattere fortemente ricreativo e sono luogo di incontro, di passeggiate, di pic-nic e in un certo qual modo anche di vil- leggiatura. In Germania e in Austria, per esempio, la legge prevede che i capanni degli orti possano essere usati come una sorta di residenza secondaria. In Francia, invece, vige un modello più restrittivo che punta sulla vocazione produttiva delle aree orticole vietando il soggiorno prolungato nei capanni le cui dimensioni per legge, non possono superare i 2 mq (sono dunque esclusivamente un ricovero degli attrezzi) mentre in Germania sono concessi 24 mq. In Francia, inoltre, si riscontra una forte tensione estetica e progettuale che si esplica non solo nell’integrazione paesaggistica del sito, ma anche nell’attenzione della progettazione dei capanni.

33 Definizione della Bergerie National della Francia (1996)

34 J. N. Consales Le jardins familiaux a Marseille, Gens et Baecelone laboratories territoriaux de l’agricolture urbane dans l’arc mediterranee.

Diversa è la situazione nei Paesi dell’Europa meridionale dove pochi sono gli esem- pi strutturati, manca una legislazione precisa e spesso l’esistenza di aree orticole dipende dalla volontà dei diversi amministratori più che dagli strumenti di pianifi- cazione e, a differenza degli altri Paesi europei, pochi sono gli istituti di gestione. In Italia, l’unica associazione, attiva dal 1990, è l’ANCeSCAO (Associazione Nazionale Centri Sociali, Comitati Anziani e Orti). Il nome orti è stato inserito nella denominazione in quanto al Coordinamento possono aderire i Comitati di gestione delle zone ortive assegnate alle persone anziane dagli Enti locali.

Nell’Europa del Nord le competenze in materia sono affidate alle amministrazioni comunali che inseriscono gli orti nei loro strumenti di pianificazione, ma anche ad altre istituzioni come le società delle ferrovie, gli istituti case popolari, o le associa- zioni caritatevoli. Molte delle organizzazioni fanno capo a una federazione nazio- nale che, a sua volta, appartiene a una rete più ampia di scala europea: l’Office

International du Coin de Terre et des jardins familiaux35, una federazione che offre ai

comitati locali o alle associazioni aderenti competenze in materia giuridica, finan- ziaria, informativa e di tipo progettuale. Nata nel 1926 al fine di diffondere la prati- ca degli orti urbani svolge ancora oggi un importante ruolo di confronto e di coor- dinamento tra le diverse esperienze ormai consolidate specie nei Paesi del Nord e dell’Est europeo. In particolare, in Europa, l’Office International du coin de Terre et

des Jardins Familiaux riunisce le associazioni di 15 Paesi (Germania, Austria, Belgio,

Danimarca, Finlandia, Francia, Gran Bretagna, Lussemburgo, Norvegia, Paesi Bassi, Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia, Svezia e Svizzera) con l’obiettivo di diffondere esperienze e coordinare attività, specialmente in aree dove è necessario interagire con le istituzioni, per ottenere spazi necessari e la possibilità di gestirli. Negli ultimi mesi, l’organizzazione ha stretto i contatti anche con l’omologa associazione giap- ponese, attraverso un accordo di cooperazione, in cui, entrambi i soggetti, si impe- gnano alla collaborazione e allo scambio di conoscenze.

Negli Stati Uniti e in Canada, l’American Community Gardening Association riuni- sce principalmente le iniziative di Community Gardening e di City Farming, dando