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Lo sviluppo delle aree periurbane e rurbanizzate: un nuovo paradigma

Il fenomeno del disurbanamento, nonostante la sistematica inapplicazione dei principi contenuti nella Legge urbanistica del 1942, a partire dagli anni ’70 è ugualmente avvenuto e in forma spontanea, avvalorando così di fatto quella lungi- mirante visione.

Solo l’INSOR, interpretando correttamente i dati censuari, ha rilevato immediata- mente l’importanza del fenomeno, incontrando tuttavia, per un lungo periodo, lo scetticismo dei diversi ambienti culturali, refrattari a una concezione dello sviluppo territoriale fondata sulla rivitalizzazione dei valori della ruralità.

Ci ha dovuto pensare il Consiglio d’Europa, quando ha lanciato nel 1987 la Campagna europea per il mondo rurale, a modificare totalmente il concetto di ruralità, distaccandolo completamente da convinzioni obsolete legate esclusiva- mente al lavoro della terra e facendo assumere alla ruralità non agricola una con- notazione e uno sviluppo autonomi.

Quali sono stati i fattori che hanno dato vita alla nuova ruralità? Innanzitutto quelli di ordine psico-sociologico. Si è scoperto da parte dei figli e dei nipoti di chi era fuggito dalla campagna alla ricerca di condizioni sociali ed economiche più appa- ganti che, a ricreare alcuni aspetti della società tradizionale fuori del suo contesto di miseria, le cose sarebbero potute andare meglio. Si sono così affermati stili di vita che integrano gli aspetti irrinunciabili della condizione urbana, dalla fruizione più facile delle diverse forme della conoscenza e della cultura all’adozione di modelli di abitabilità rispettosi della privacy, con le opportunità che solo i territori rurali sono in grado di offrire, dalla partecipazione alle fitte reti di legami sociali al piacere di coltivare un orto o di preparare una pietanza tipica.

Ma hanno agito anche fattori di ordine economico: l’alto costo degli affitti urbani che spinge le giovani coppie a evadere dalla città dove però si continua a lavorare. Una relativa abbondanza degli impieghi rurali che consente una sempre più fre- quente occupazione non agricola all’interno delle aree verdi.

Alle aree rurali spetta non meno del 35% dell’intero PIL nazionale, ma almeno il 95% di questo 35% ha origini non agricole. L’agricoltura rimane il lievito dell’eco- nomia rurale anche se non si identifica più con essa. E non solo perché molte ini- ziative industriali e nei servizi nascono per opera di imprenditori già agricoli, ma perché il mito dell’agricoltura di un tempo finisce per essere il collante dei nuovi arrivati che si dedicano sempre più ad attività legate all’ospitalità agrituristica, alla vendita diretta di prodotti aziendali e alle attività educative, terapeutiche e riabilita-

tive (Barberis, 1988).

Occorre dunque individuare un nuovo paradigma nelle politiche per lo sviluppo di questi ambiti territoriali, sostituendo definitivamente una visione dicotomico-duale dell’urbano-rurale con una visione del territorio basata sul riconoscimento di una realtà costituita da un continuum urbano-rurale, al cui interno collocare a vario titolo il periurbano e il rurale urbanizzato.

L’eliminazione dell’alterità tra la città e la campagna avviene non tanto sul versan- te dell’appianamento delle loro strutturali diversità, storiche, economiche e sociali, quanto su quello del rinnovamento delle categorie interpretative, ragionando in ter- mini di leggibilità, di contrasto tra figura e sfondo, di interpretazione delle forme a partire da quella delle sue significazioni (Choay, 1973).

Le figure diventano significative se variano in funzione della topografia dei luoghi, della composizione” e delle aspirazioni delle popolazioni, se la città e la campa- gna saranno percepite “a posteriori”, derivando la loro specificità dalla conoscenza del punto di vista degli abitanti. E il problema della leggibilità del territorio diventa il problema di quando e come le forme si rendono decifrabili per chi le abita (Donadieu, 2006).

Se nei territori della periurbanità la percezione spaziale e sociale dei cittadini e degli agricoltori è sempre meno distante fino a confondersi, bisognerà leggere que- sti spazi prestando ascolto a una società meticcia che si riconosce nello scarto tra la voglia di vivere nella città e la scelta di starne fuori, mettendo a profitto la prossi- mità tra l’una e l’altra, la breve distanza tra i loro confini e della percezione del mondo.

Se, invece, la città e la campagna continuano a essere viste in opposizione – in una logica che considera le dinamiche economiche lente e a bassa performance della campagna aprioristicamente non competitive con quelle a rapida trasformabilità della città – non si riuscirà a cogliere il ruolo della campagna urbana, vista come uno spazio tutto da fondare, abitata da cittadini, detentori della cultura della collet- tività, e da agricoltori, produttori e costruttori dello spazio rurale.

La campagna urbana contiene la maggior parte delle nuove figure della città con- temporanea, ma in essa vanno rifondati i principi di una nuova abitabilità (Mininni in Donadieu, 2006). La lingua tedesca - ci ricorda Giorgio Grassi citando Cattaneo - chiama con la medesima voce l’arte di edificare e l’arte di coltivare. “Il nome del- l’agricoltore non suona coltivazione ma costruzione, Ackerbau, il colono è un edi- ficatore Bauer, e quindi un popolo deve edificare i suoi campi come una città”; e il termine antico tedesco, buan, da cui deriva quella voce, significa “abitare” (Grassi,

1975). Per governare un territorio, che non è più agricolo in termini meramente produttivistici, dobbiamo, pertanto, anche noi unificare tutti questi significati. La campagna urbana è quel territorio meno dotato di un progetto, ancora poco compreso dalla cultura urbanistica e scarsamente messo a fuoco da quella agricola, molto interpretato e poco descritto, perché richiede un’esperienza nuova dello spa- zio, un ordine da inventare più che da indovinare. È, pertanto, un territorio instabi- le che oppone una debole resistenza ai cambiamenti perché è lo spazio di espan- sione futura della città, nell’attesa di valorizzazione immobiliare, sia per i cittadini sia per gli agricoltori.

La campagna urbana ha caratteri propri e spesso innovativi, diversi da quelli della campagna rurale che segue maggiormente le logiche di mercato, poiché elabora modelli economici e sociali più creativi, derivanti non solo dalla trasformazione del mondo rurale tradizionale ma soprattutto dalla prossimità della città.

La campagna urbana può, quindi, partecipare alla definizione del territorio della città, portando con sé i suoi simboli e il suo patrimonio territoriale basato sui suoi campi, orti, spazi aperti e sul suo patrimonio socio-culturale rappresentato dagli agricoltori. L’agricoltura periurbana rappresenta, pertanto, una complessa articola- zione di attività inerenti la produzione di alimenti, la pesca, la silvicoltura e l’ero- gazione di servizi sociali, culturali, ricreativi e ambientali che si sviluppano ai mar- gini della città sia nei Paesi industrializzati che in quelli in via di sviluppo.

La campagna urbana è, infine, luogo d’elezione dell’agricoltura sociale, ossia di quelle esperienze che vedono persone provate da diverse forme di disagio trovare nelle attività agricole un modo per realizzare il proprio progetto personale verso l’autonomia. Si tratta di quei percorsi finalizzati a promuovere inclusione sociale e lavorativa e servizi educativi, terapeutici e riabilitativi. L’inserimento lavorativo in agricoltura può riguardare persone con disabilità, ex tossicodipendenti, ex detenu- ti, disoccupati di lungo periodo, giovani con difficoltà nell’apprendimento o nel- l’organizzare la loro rete di relazioni, ecc. e si ottiene sia attraverso l’assunzione in imprese già esistenti, sia mediante percorsi di autoimprenditorialità. D’altro canto, i servizi terapeutici, riabilitativi e di inclusione sociale mediante l’utilizzo di risorse agricole possono interessare soggetti con disabilità gravi, anziani, malati terminali, donne che hanno subito violenza, extracomunitari, ecc. e sono erogati da aziende, enti pubblici, fondazioni, onlus. Per quanto riguarda, infine, i servizi educativi, vanno considerate le attività rivolte alla fascia di età prescolare mediante l’istituzio- ne di agrinidi e quelle orientate a supportare l’integrazione di alunni svantaggiati nelle scuole di ogni ordine e grado. Tali servizi costituiscono il naturale prolunga-

mento dei percorsi formativi già largamente sperimentati con le fattorie didattiche (Finuola-Pascale, 2008).

Nel rilevare le potenzialità delle pratiche agricole svolte nelle aree periurbane, alcuni studiosi osservano con preoccupazione che queste sono condizionate dal- l’ambiente urbano e dalla sua continua espansione. Il presupposto per affrontare correttamente la questione periurbana è dunque non considerare più le zone periurbane come se fossero l’ultimo anello mancante di una continuità urbana, ma valutarne le esigenze specifiche e la sfida che pone l’integrazione di vaste ed etero- genee zone conurbate. Di conseguenza, la necessità di dare coerenza ai processi di dilatazione urbana acquisisce oggi senso grazie all’enfasi che si sta mettendo nella valorizzazione degli attributi patrimoniali degli spazi rurali conurbati, i quali radunano indifferentemente il loro potenziale agricolo assieme ai valori paesaggi- stici, d’intrattenimento e d’integrazione sociale.

Tuttavia, non è semplice capire e prevedere in tutte le sue dimensioni lo svolgimen- to delle funzioni residenziali e produttive delle zone rurali vicine ai centri urbani. È possibile pensare alla riqualificazione e al recupero delle aree periurbane per mezzo dell’incorporazione di valori simbolici nei processi produttivi o come soste- gno di nuove attività. In altre parole, produrre un nuovo territorio mediante una relazione fertile tra l’elemento umano e l’ambiente: uno sviluppo locale autososte- nibile, basato sulle interazioni di quattro elementi imprescindibili e propri di ogni territorio, quali natura, storia, cultura e legami sociali. Il collante tra questi quattro elementi può essere costituito proprio da un’attività secolare e fondamentale in ogni società: l’agricoltura (Gomez). Un’agricoltura però non rurale ma urbana. Un’agricoltura urbana da non confondere con la manutenzione del “verde”. Le aree verdi non sono un luogo ma porzioni di terreno indifferenziate, i cui limiti vengono stabiliti sull’universo astratto di una mappa; non hanno nulla a che vedere con la storia e con la cultura ma sono soltanto spazi sistemati secondo le “regole” della comodità (Le Dantec, 1987). L’agricoltura urbana è invece un insieme di atti- vità produttive di beni e servizi che contribuiscono ad artialiser le aree periurbane, cioè a “forgiare modelli di visione capaci di dare loro valore estetico” (Roger, 2009). È per questo motivo che andrebbe inserita in un processo partecipativo di restauro condiviso del paesaggio.

Ma come attuare un adeguato processo per individuare e consolidare specifiche politiche di sviluppo per le aree periurbane? È necessaria una politica per l’agricol- tura periurbana o uno spazio per l’agricoltura periurbana in tutte le politiche? Occorre un sostegno alla produzione di servizi e beni agricoli offerti alle comunità

urbane oppure un supporto alla diversificazione delle aziende agricole per avere in cambio una fornitura di servizi rurali alla città? Sono interrogativi a cui non è facile rispondere e che meriterebbero un’analisi e un approfondimento di studiosi e di

policy maker.

Il riconoscimento dell’agricoltura periurbana nella pianificazione