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Sin dalla sua origine, l’agricoltura contadina è stata custode dei saperi e dei sapori della terra. Da quando, cioè, le prime comunità sedentarie del Neolitico, oltre 12.000 anni fa, hanno imparato ad addomesticare gli animali - e a ricavarne carne, latte, uova, lana e pelli - e hanno scoperto che le piante hanno un ciclo e si rigene- rano attraverso i loro semi.

La terra, dapprima lavorata con la zappa, poi con l’aratro a mano a un vomere in legno (6000 A.C.) e, successivamente, con l’aratro a un vomere in ferro adatto ai terreni più compatti, trainato dai buoi (1200 A.C.) e, in seguito, anche dai cavalli (800 A.C.), restituiva frutti sempre più abbondanti, dalla cui manipolazione l’uomo cominciò a ottenere pane, olio, vino.

Per centinaia di anni l’aratro, strumento agricolo per eccellenza, ha agevolato il lavoro della terra, consentendo di produrre oltre la sopravvivenza e di stoccare il cibo per far fronte alle avversità della natura e dell’uomo, rendendo possibile la nascita di classi sociali e di nuovi mestieri. Il legame che univa l’uomo contadino agli animali, utilizzati per il lavoro nei campi, per l’alimentazione e il vestiario, per la concimazione della terra, per il trasporto dei prodotti ai mercati, sempre più diventava un vincolo di necessità e sussistenza.

Cultivar e razze autoctone rappresentano, oggi, il frutto di una selezione operata nel tempo sia dalla natura che dall’uomo: piante e animali si sono evoluti nelle forme e nelle caratteristiche genetiche in modo tale da resistere e adattarsi alle disponibilità offerte dall’ambiente naturale e alle tecniche colturali e di allevamen- to imposte dall’uomo per rispondere alle proprie necessità. Nel tempo, il patrimo- nio di conoscenze, esperienze e tradizioni del mondo contadino è stato, dunque, tramandato di generazione in generazione per il lavoro nei campi e negli insedia- menti e per l’uso ottimale delle varietà e delle specie locali.

Per molto tempo l’agricoltura si è basata sulla rotazione biennale e sul maggese, con un ulteriore miglioramento nella capacità di lavorare la terra avvenuto in epoca medievale, con la nascita del primo aratro asimmetrico a trazione animale che, nel

tempo, è andato migliorando nelle forme consentendo, con minor fatica per l’uo- mo e l’animale, di smuovere le zolle fino a girarle completamente. Ma, in realtà, le prime innovazioni in agricoltura si manifestano a partire dal XVII secolo, quando le scoperte geografiche, il progressivo sviluppo dei commerci e l’introduzione di spe- cie non autoctone hanno reso possibile adottare nuove tecniche produttive in grado di migliorare la resa dei terreni. Con la diffusione dei mezzi meccanici - innanzi tutto la seminatrice, inventata nel 1701 dall’inglese Jethro Tull, poi la trebbiatrice, in uso nella seconda metà dell’800 -, dei mezzi a vapore come la mietitrice, bre- vettata nel 1849 da James Usher, e dei primi trattori a motore, frutto dello sviluppo industriale, si realizza un cambiamento epocale del modo di fare agricoltura e di migliorare la produttività della terra (AA.VV., 2008). Tale cambiamento trova la sua massima espressione nella seconda metà del XIX secolo, quando non solo si diffon- dono nuovi strumenti aratori e migliori sistemi di semina - con l’acquisizione su un mercato più ampio di nuove sementi e nuove piante con elevata produttività - ma fanno la loro comparsa i concimi minerali, i fertilizzanti azotati messi a punto dal tedesco Justus Von Liebig.

L’avvento della moderna società dei consumi, imperniata sull’industrializzazione e sullo sviluppo urbano, porta a una nuova dimensione agricola nel XX secolo, con i Paesi industrializzati che, a partire dagli anni ’60, nell’ambito di quella che fu defi- nita la “Rivoluzione verde”, investono in maniera consistente nella ricerca agricola direttamente sui campi degli agricoltori, per creare nuovi sistemi che portino alla massima resa produttiva.

Se facciamo un passo indietro nell’Italia del secondo dopoguerra, lo scenario che troviamo è quello di un Paese agricolo-manifatturiero con le “campagne alla fame” e una disoccupazione diffusa, conseguenza di una pressione demografica notevole a seguito, anche, della riduzione delle migrazioni verso l’America e verso i Paesi del Centro Europa durante il periodo fascista (Minoia, 2007).

Secondo i dati del censimento ISTAT, nel 1931 oltre il 46,8% della popolazione attiva era impiegato in agricoltura e gli addetti alle manifatture e all’artigianato erano il 22,4%, ma subito dopo il conflitto mondiale gli occupati nel settore prima- rio erano scesi a 8,6 milioni e il settore agricolo forniva un quarto del prodotto interno lordo (PIL). Il Paese “contadino”, che era stato investito da trasformazioni sociali “traumatiche” che avevano portato all’abbandono delle campagne da parte di migliaia di famiglie, si trovò a vivere grandi cambiamenti nelle politiche agrarie e nell’uso del suolo con la riforma agraria degli anni ’50, volta a rimuovere la società contadina tradizionalmente associata al latifondo e ai baronati - e legata

alla diffusione della monocultura - a favore di una classe di contadini proprietari, sullo sfondo delle spinte verso l’industrializzazione e l’urbanizzazione del Paese che hanno segnato proprio l’esodo dalle campagne.

In pieno “boom economico”, a cavallo tra gli anni ’50 e ’60, mentre esplodeva l’Italia “cittadina”, cresciuta e assoggettata a fini urbanistici, industriali e speculativi (e cominciava il degrado ambientale), iniziava la “dissoluzione” dell’Italia agricola (secondo l’ISTAT nel 1970 gli occupati in agricoltura erano scesi a 4 milioni, poco più del 20% della popolazione attiva) che, sull’onda della “Rivoluzione verde”, veniva investita da innovazioni meccaniche, chimiche e biologiche - con materiali genetici innovativi - destinate a intensificarsi nei decenni successivi e a rivoluziona- re le tradizionali pratiche agricole.