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Valorizzazione e promozione dei saperi e dei sapor

Riguardo, infine, alla caratterizzazione della qualità dei prodotti autoctoni (ad esempio un’antica varietà di frutta o di vite, un formaggio esclusivo di una razza caprina alpina, ecc.) e alla loro promozione in sintonia con il bioterritorio di pro- duzione, occorre tener conto che produrre secondo le metodiche autentiche/stori- che, a partire dal sistema di coltivazione e di allevamento (pastorale tradizionale), garantisce l’identità vera del prodotto “tipico” perché è espressione di un’autentica “identità agricola/pastorale” in un rapporto di continuità territoriale o culturale; la “rivisitazione” della metodica di produzione, per consentire la produzione in con- testi contadini e di allevamento non tradizionali, invece, sminuisce il prodotto “tipico”, riconducendolo a semplice prodotto “locale”, anche se ottenibile con lavorazioni artigianali (Brambilla, 2008).

Si possono riconoscere almeno quattro elementi che conferiscono tipicità al pro- dotto (Giuca, 2008): 1) la localizzazione geografica, in quanto le condizioni ambientali dell’area di coltivazione o allevamento imprimono al prodotto caratteri- stiche non riproducibili; 2) le metodiche di lavorazione, che sono tradizionali e artigianali con l’utilizzo di materie prime locali; 3) la memoria storica, ovvero il prodotto è direttamente collegabile alla storia e alle tradizioni del luogo di produ- zione; 4) le qualità organolettiche e nutrizionali del prodotto, strettamente connes- se ai criteri precedenti, che conferiscono a esso gusto, genuinità e unicità.

Come fare per valorizzare questi elementi e renderli percepibili al consumatore? Sicuramente comunicandoli, ovvero divulgando il plus-valore del prodotto tipico dell’agricoltura e della zootecnia di uno specifico territorio, rispetto a un altro pro- dotto appartenente alla stessa categoria merceologica. Ciò si colloca in un contesto più ampio di cambiamento delle sensibilità dei consumatori e dei cittadini, più attenti alla qualità, alla sicurezza e al contenuto etico e sociale dei prodotti; d’altro canto, la politica agricola nazionale si sta sempre più indirizzando alla valorizza- zione e alla difesa del made in Italy agro-alimentare, alla garanzia della qualità

organolettica e igienico-sanitaria dei prodotti, alla garanzia della loro tracciabilità e trasparenza a partire dall’etichetta, adottando spesso misure più restrittive di quelle previste a livello UE.

Poiché le produzioni ottenute da varietà vegetali autoctone e da razze locali spesso sono prodotti delle microfiliere aziendali, “a filiera corta”, questi vengono commer- cializzati per la maggior parte all’interno della medesima fattoria o in punti orga- nizzati da uno o più operatori, nelle fiere o nelle città. La vendita diretta da parte degli agricoltori - già disciplinata dal d.lgs. 228/01 - trova oggi spazio nei mercati ai quali hanno accesso le imprese agricole operanti nell’ambito territoriale ove sono istituiti detti mercati, i c.d. farmers’ market (D.M. 20/11/2007; legge 296/06, art. 1, comma 1065). Si tratta di una realtà che sta crescendo sotto l’impulso dell’a- griturismo e della propensione della popolazione urbana ai prodotti genuini della terra e della campagna e diversi centri urbani si stanno facendo promotori di questi spazi.

Le esperienze di filiera corta e, in generale, tutte le forme di vendita diretta97in una logica di recupero e valorizzazione delle tipicità del territorio, all’insegna della creazione di circuiti “corti” di produzione/consumo o di produzione/trasformazio- ne/consumo, basati su un rapporto stretto con i consumatori (ad esempio con i GAS98), si configurano come uno strumento nei processi di sviluppo rurale all’inter- no di strategie di promozione del territorio e dei prodotti tipici a esso strettamente legati; tali strategie rappresentano, per i piccoli produttori in particolare, un’oppor- tunità per migliore il loro posizionamento strategico e, al tempo stesso, ne facilita- no l’inserimento nelle reti socio-istituzionali, ad esempio per la fornitura al sistema della ristorazione locale di qualità.

Il principio dell’origine, ovvero del legame assoluto con il territorio, è l’unico vali- do nell’identificare un prodotto agricolo, poiché ne valorizza il territorio e le comu- nità che vi abitano e che hanno contribuito all’evoluzione di una determinata qua- lità/specie (Dottori, 2007). Già da un paio di decenni l’Unione europea ha istitu-

97 Oltre alla vendita diretta in azienda e nei farmers’ market, si citano: la vendita a negozi specializzati, a spacci aziendali, a comunità, a ristoranti “tipici”; outlet di prodotti agricoli gestiti in forma diretta o associata in specifici ambiti territoriali; vendita on-line; vendita su catalogo.

98 I GAS (Gruppi di Acquisto Solidale) sono formati da consumatori che, partendo da un approccio critico al consu- mo, applicano il principio di equità e solidarietà ai propri acquisti, scegliendo i fornitori sulla base della qualità del prodotto e dell’impatto ambientale (prodotti locali, alimenti da agricoltura biologica o integrata, imballaggi a rendere, ecc). Cfr. www.retegas.org.

zionalizzato la certificazione dell’origine dei prodotti agricoli e agro-alimentari, partendo dal principio che tali prodotti devono soddisfare gli stessi requisiti e devo- no rispettare gli stessi obblighi normativi in un mercato che muove verso la globa- lizzazione. Così, l’UE ha riconosciuto, quale elemento di differenziazione, la qua- lità legata all’origine geografica (legame con il territorio), alla tradizionalità del pro- cesso produttivo e al talento dell’uomo, regolamentando i prodotti a denominazio- ne di origine (DOP/IGP)99 e, contestualmente, ha riconosciuto la qualità legata all’impiego di pratiche ecocompatibili rispettose dell’ambiente e della salute del- l’uomo, regolamentando la certificazione dei prodotti ottenuti da agricoltura biolo- gica100 e incentivando l’utilizzo di questi prodotti e di quelli ottenuti da agricoltu- ra101integrata nell’ambito delle misure agro-ambientali della PAC.

Ciò nonostante, ogni realtà contadina vive oggi le contraddizioni di legislazioni che sembrano favorire l’agro-industria (Dottori, 2007): HACCP102, tracciabilità, con- trolli per i prodotti a denominazione di origine, certificazioni di prodotti biologici, legislazione europea relativa alla PAC, marchi e disciplinari di qualità. Negli ultimi anni l’ampia attività legislativa dell’Unione europea103ha avuto lo scopo di miglio- 99 Un prodotto agricolo o alimentare (ad esclusione del vino ma solo fino al 1° agosto 2009, quando entrerà in vigo- re la riforma del settore vitivinicolo - regolamento CE n. 479/2008) originario di una regione, di un luogo determi- nato o, in casi eccezionali, di un paese può ottenere la DOP (Denominazione di Origine Protetta) quando «le caratteristiche sono dovute essenzialmente o esclusivamente ad un particolare ambiente geografico, inclusi i fattori naturali e umani, e la cui produzione, trasformazione ed elaborazione avvengono nella zona geografica delimita- ta» o la IGP (Indicazione Geografica Protetta) quando «una determinata qualità, la reputazione o altre caratteristi- che possono essere attribuiti all’origine geografica e la cui produzione e/o trasformazione e/o elaborazione avven- gono nell'area geografica determinata». Cfr. regolamento CEE n. 2081/92, poi abrogato e sostituito dal regolamen- to CE n. 510/2006.

100 L’agricoltura biologica rappresenta un sistema di produzione agricola, vegetale e animale, che tende a minimiz- zare l’impatto umano sull’ambiente, operando nel modo più naturale possibile in modo da contribuire alla soste- nibilità dell’eco-sistema. Cfr. Regolamento CE n. 2092/91 abrogato e sostituito dal regolamento CE n. 834/2007 in vigore dal 1° gennaio 2009, completato per la parte tecnica dal regolamento CE n. 889/2008.

101 A livello comunitario non esistono regole cogenti ma indicazioni programmatiche su questo tipo di produzioni; i disciplinari di produzione integrata si caratterizzano per l’impiego delle tecniche di lotta biologica, per le forti limitazioni nell’uso di fertilizzanti chimici e per il divieto dell’uso di diserbanti chimici residuali.

102 Il sistema di autocontrollo HACCP (Hazard Analysis Critical Control Point) - introdotto dalla direttiva 93/43/CEE nelle industrie alimentari ed esteso al settore primario e alla produzione di mangimi con il reg. CE n. 178/02 - consente di evidenziare nella filiera produttiva i possibili rischi, individuarne i punti critici e prevedere per ognu- no di essi modalità di controllo tali da prevenirli. Dal 1° gennaio 2006, come dispone il reg. CE n. 852/04, tutti gli operatori della filiera agro-alimentare, compresi gli agricoltori, sono tenuti a dotarsi di un Manuale di corretta prassi igienica e rispettare le norme della metodologia HACCP

103 A partire dal Libro Bianco sulla sicurezza alimentare del 2000 e con il regolamento CE n. 178/02, la UE ha adot- tato un approccio globale, integrato e scientifico dell’intera catena alimentare “dai campi alla tavola”, con misure e strumenti nuovi che ruotano intorno ad una serie di concetti-chiave volti a garantire la sicurezza alimentare: il controllo di filiera; la rintracciabilità dei percorsi degli alimenti, dei mangimi e dei loro ingredienti; la responsabi- lizzazione del produttore; l’informazione nei confronti del consumatore.

rare gli standard sanitari e igienici nell’intera catena alimentare e di ripristinare, dopo varie emergenze sanitarie, la fiducia dei consumatori, finendo per sovrappor- re la qualità, nelle disposizioni normative, alla sicurezza e all’igiene degli alimen- ti104.

Appare quanto mai difficile accettare la logica delle certificazioni di qualità appli- cate ai prodotti agro-alimentari industriali, mentre sembra quanto mai necessario garantire il legame diretto con il territorio in una certificazione utile e responsabile in cui venga dichiarato come si lavora la terra, quali sono i rapporti con il lavoro e il capitale, come vengono trasformati i prodotti.

In tal senso, occorre individuare un “disciplinare di produzione” che tenga conto dell’ambiente di coltivazione o di allevamento, dei metodi tradizionali di produzio- ne, delle caratteristiche genetiche degli animali interessati, delle cultivar e delle razze autoctone. Le produzioni così ottenute:

1) possono essere individuate dalle Regioni come Prodotto agro-alimentare tradi- zionale (d.lgs. 173/98) e inserite nell’elenco istituito presso il Mipaaf se le meto- diche di lavorazione, conservazione e stagionatura, riconosciute in deroga alla normativa UE (norme igienico-sanitarie), risultano consolidate da almeno 25 anni. L’elenco, da ultimo aggiornato dal DM 16 giugno 2008, conta ben 4.396 prodotti con caratteristiche davvero uniche e irripetibili in qualsiasi altro luogo, come la Salsiccia di Capalbio, le Formaggette di Capua, i Manicotti di Mirandola, il Formaggio di fossa, la Soppressata cilentana, il Caciocavallo abruzzese, le Friselle pugliesi, il Farro umbro, il Lonzino di fico dell’anconetano e la Giuncata del grossetano;

2) possono ottenere un Contrassegno regionale che segnala che i prodotti proven- gono da varietà locali a rischio di estinzione;

3) possono essere collegate ai prodotti tipici di parchi e aree naturali limitrofi inse- riti nell’Atlante dei prodotti tipici dei parchi italiani105che utilizzano cultivar e razze autoctone.

Sul fronte della certificazione, è importante, dunque, valorizzare il sistema legato alle razze e alle varietà locali che faccia leva sui seguenti elementi: territorio, pro-

104 Proprio sul tema della qualità dei prodotti agricoli nella politica comunitaria la Commissione Europea ha avviato una consultazione pubblica il 15 ottobre 2008 (Libro verde sulla qualità dei prodotti agricoli - COM 2008 641) al fine di suscitare un dibattito sul ruolo delle norme di commercializzazione per i prodotti agricoli, sul futuro svi- luppo delle indicazioni geografiche e sui numerosi sistemi di certificazione della qualità dei prodotti alimentari. 105 Progetto del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare con la collaborazione di Slow Food,

duzione, trasformazione, cultura, identità, attraverso strumenti di valorizzazione specifici e mirati. Ad esempio, attraverso l’uso del toponimo, ovvero di un nome entità geografica (nazione, regione, provincia, città, monte, lago, fiume, podere) che a livello individuale, come noto, è vietato: infatti, il nome di una zona, indi- cando la provenienza di un certo territorio costituisce patrimonio comune di tutti i produttori di quel determinato luogo i quali hanno diritto a usarlo (Germanò, 2006).

L’utilizzo della denominazione di origine DOP/IGP di cui si è accennato, con riferi- mento a materie prime che provengono da varietà e razze autoctone di un determi- nato territorio, trova i punti di forza nella difesa delle produzioni locali, delle tipi- cità e delle tradizioni e nella capacità di fare sistema nel tessuto produttivo locale; si tratta, oltre tutto, di un segno distintivo garantito dalla stessa Unione europea106 che autorizza l’uso della denominazione e del marchio. I disciplinari di produzione per i prodotti DO/IGP, identificano i diversi attori della filiera e i flussi materiali dalla materia prima al prodotto finito mentre il controllo da parte di organismi accreditati avviene in tutti i livelli della filiera (produzione, trasformazione, confe- zionamento, commercializzazione).

Tuttavia, i costi particolarmente alti di certificazione per le DOP/IGP e le modalità di commercializzazione del prodotto certificato, che spesso scontano l’assenza di un’adeguata strategia relativa sia alla gestione del prodotto a marchio nella fase di produzione e certificazione, sia all’immissione di questo sul mercato, scoraggiano in particolar modo i piccoli produttori. Una strategia efficace ed efficiente è prope- deutica a una reale valorizzazione del prodotto, così da produrre un valore aggiun- to superiore all’incremento di costi, diretti e indiretti, derivanti dalle procedure di controllo e certificazione previste dalla regolamentazione comunitaria.

In alternativa, può essere conveniente ricorrere all’utilizzo di un marchio collettivo pubblico o privato per le produzioni che provengono da varietà e razze autoctone di un determinato territorio, quale segno idoneo a trasmettere un messaggio che comprende più elementi: la localizzazione geografica, il richiamo alla terra, la rile- vanza del suolo e del clima nella determinazione delle qualità di gusto e di profu- mo del prodotto agricolo.

Il marchio collettivo, che si configura per la separazione tra uso e titolarità del mar- chio (d.lgs. 30/05), è promosso da Regioni, Enti locali, Enti Parco, Associazioni pubblico-private (Consorzi, Consorzi d’area, Cooperative) e assolve una funzione

106 In Italia, inoltre, i prodotti DOP e IGP delle aree montane hanno la possibilità di fregiarsi della menzione aggiun- tiva “Prodotto nella montagna”, previa iscrizione ad uno specifico albo presso il MIPAAF (legge 289/02, art. 85).

di garanzia di qualità del prodotto, ad esempio garantisce che quel prodotto è rea- lizzato con materie prime provenienti da varietà vegetali e specie animali locali, secondo tecniche tradizionali.

Il marchio collettivo pubblico, nel quale non possono essere usati toponimi, attesta soprattutto il metodo di produzione e può essere: 1) un marchio regionale, istituito con legge regionale anche per più categorie merceologiche di prodotto per identifi- care produzioni agricole locali soprattutto ottenute da programmi di agricoltura integrata; 2) un marchio istituito con provvedimenti delle Amministrazioni locali e di cui sono titolari le Camere di commercio per identificare le produzioni agricole tipiche dei territori di Province, Comunità montane, Comuni e altri Enti locali. Il marchio collettivo pubblico-privato o privatistico, nel quale possono essere usati toponimi, attesta soprattutto l’origine geografica e può essere: 1) un marchio d’area, ovvero un marchio dei consorzi d’area pubblico-privati, localizzati in una zona delimitata per attività esterne di promozione e vendita di prodotti di imprese con- sorziate tramite un ufficio comune; 2) un marchio dei Consorzi di tutela dei prodot- ti tipici, affidato in gestione in seguito a legge nazionale ai consorzi riconosciuti con decreto del Ministero delle politiche agricole, alimentari e forestali; 3) un mar- chio di proprietà di organizzazioni o soggetti privati quali consorzi di imprese (ad esempio Consorzio Chianti classico) e cooperative.

In alcuni casi, gli Enti territoriali che hanno realizzato i marchi collettivi, per pro- muovere sia le produzioni da agricoltura integrata che quelle tipiche, oltre ad adot- tare strategie di marketing territoriale, emanano appositi bandi per la concessione di contributi a favore degli operatori che adottano tecniche di produzione secondo il sistema certificato dal marchio collettivo di natura pubblica; non sempre l’aiuto viene concesso al singolo produttore, ma viene collocato in una dimensione collet- tiva (associazioni di produttori, consorzi, cooperative), nell’ambito di progetti locali (ad esempio, Consorzi d’area, Gruppi di Azione Locale/Iniziativa comunitaria Leader) fino a una dimensione più ampia a livello territoriale o di filiera (distretti rurali e agro-alimentari, contratti di filiera e di distretto, Patti territoriali, Progetti di filiera nell’ambito dei Piani di sviluppo rurale).

Dunque non solo DOP/IGP, ma prodotti a marchio collettivo possono rappresenta- re un’opportunità per le produzioni che utilizzano materie prime provenienti da varietà e razze autoctone, ma la scelta del percorso di certificazione dell’origine e della tipicità non sempre si rivela accessibile, a causa di molteplici fattori, oltre ai costi, che vanno dall’estrema frammentarietà delle filiere produttive, alle ridotte dimensioni delle aziende di prodotti tipici con scarsa redditività, ai limiti alla com-

mercializzazione nel caso di quantità ridotte - soprattutto per piccoli trasformatori di tipo artigianale - alla localizzazione a volte decentrata.

Conclusioni

Oggi, l’agricoltura rappresenta un presidio fondamentale del territorio e del gusto, l’unico baluardo (Dottori, 2007) per la salvaguardia di beni collettivi, territori e paesaggi agricoli e per preservare la memoria storica e culturale, le conoscenze, i mestieri, le arti e le tradizioni eno-gastronomiche.

Le cultivar e le razze autoctone delle aree rurali sono, dunque, patrimonio colletti- vo di saperi, tecniche e consuetudini del quale sono titolari le comunità rurali; esse sono espressione di un forte legame tra economia e cultura locale, valorizzano le risorse endogene, rappresentano una base occupazionale, si traducono in prodotti tradizionali riconosciuti persino “espressione del patrimonio culturale” del Paese (DM 19 aprile 2008) e contribuiscono alla tutela della salute umana, traendo origi- ne da un’agricoltura sana, naturale e sostenibile.

Le risorse genetiche di interesse agrario, forestale e zootecnico assolvono, inoltre, al ruolo multifunzionale dell’agricoltura, contribuendo al mantenimento del pae- saggio agrario e alla salvaguardia della biodiversità, alla conservazione delle tradi- zioni e alla valorizzazione del territorio rurale, caricandosi anche di valenze sociali e culturali.

Come si è avuto modo di descrivere, l’erosione di questo patrimonio comporta la perdita di identità culturale e di abilità contadine tramandate di generazione in generazione che minaccia le stesse economie rurali.

I limiti strutturali e culturali delle imprese e delle filiere e la scarsa attività di coor- dinamento del sistema a livello delle istituzioni nazionali, rappresentano le princi- pali problematiche. Si ravvisa quanto mai urgente la necessità di norme attuative di disposizioni comunitarie e nazionali per una effettiva valorizzazione delle varietà e razze locali, una maggiore coerenza tra attività legislative -se si punta alla tutela della biodiversità ha senso permettere che un bene comune come l’acqua possa essere privatizzato a scopi commerciali come prevede la recente legge 133/2008, art. 23 bis - e una maggiore coerenza tra le diverse attività di caratterizzazione, catalogazione e conservazione delle risorse genetiche vegetali e animali, con il rafforzamento del coordinamento nazionale tra le Regioni e tra queste e le istituzio- ni scientifiche nazionali.

si fa spesso richiamo, tra gli obiettivi strategici, alla qualificazione delle iniziative di promozione e valorizzazione delle produzioni agro-alimentari e del territorio rura- le, con particolare attenzione ai meccanismi di filiera e all’associazionismo in generale, nonché all’incremento del numero di marchi di origine per i prodotti regionali. Più specificatamente, gli Assessorati agricoltura delle Regioni, adottano annualmente le linee di indirizzo, orientamento e priorità per la promozione dei prodotti agricoli, agro-alimentari, zootecnici e biologici dei propri territori; sarebbe opportuno che tali linee, che si inseriscono anche nel contesto degli interventi strutturali per lo sviluppo rurale e nei programmi regionali per la montagna, tenes- sero adeguatamente conto della tutela, del miglioramento, della moltiplicazione e della valorizzazione delle razze e delle cultivar autoctone, secondo un approccio sistemico al settore, con la formazione di sinergie e collaborazioni tra soggetti a vario titolo coinvolti: Stato, Regioni, istituzioni scientifiche, soggetti privati, agricol- tori, allevatori, trasformatori.

Occorre, inoltre, un’adeguata assistenza tecnica e un’opportuna divulgazione, for- mazione e informazione finalizzate alla conoscenza della biodiversità agricola e forestale, oltre a efficaci campagne di comunicazione che puntino alla cultura e all’identità e a significative azioni di valorizzazione della produzione e trasforma- zione; tali campagne e azioni potrebbero affiancarsi o essere ricompresse in quelle già proposte da Regioni, Enti locali, Enti Parco e Camere di Commercio, Industria, Artigianato e Agricoltura (CCIAA) a favore dei produttori che adottano una politica della qualità. Servirebbero, infine, strumenti di valorizzazione specifici e mirati di inserimento dell’azienda e/o dei prodotti non solo nei programmi di valorizzazione regolamentati e promossi dalle istituzioni ma anche nei programmi di valorizzazio- ne promossi da altri soggetti (Associazioni di categoria, Presidi del gusto Slow Food, Progetto “Filiera corta” Terra Madre, ecc.).

Naturalmente, forme di finanziamento dedicate all’adozione di sistemi di certifica- zione delle produzioni agricole e mutui agevolati per le colture, messe a disposi- zione dal sistema creditizio privato, potrebbero diversificarsi sulla valorizzazione di antiche varietà e razze locali.

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